23 aprile 2010

Perchè il Premier va difeso

Quando le calunnie girano con insistenza, saranno pur farlocche, ma qualcosa rimane. E’ questo il metodo con cui da 16 anni la sinistra vorrebbe far passare l’idea che in Italia ci sia una parte sana del Paese, che naturalmente è tutta al loro interno, ed un’altra invece meno affidabile, per lo più corrotta, tollerante verso la criminalità organizzata, pronta a legiferare per proprio uso e consumo, insofferente verso altri poteri, arrogante e persino puttaniera.
La storiella della superiorità morale della sinistra e, di contro, della preoccupazione sociale che creano i governi di centrodestra stenta a rientrare. E questo anche se i fatti dicono cose diverse: anche se persino le leggi sono applicate per alcuni, mentre sono interpretate per altri; anche se la cronaca giudiziaria individua, in misura ben più ampia, responsabilità penalmente rilevanti a sinistra; anche se le città, le provincie e le regioni governate da maggioranze di sinistra costituiscono esempi di cattiva gestione; anche se, quando ha governato la sinistra, il Paese ha mostrato grandi sofferenze.
A propagare l’idea contribuiscono in tanti. C’è da dire che almeno in questo a sinistra ci sanno fare.
C’è una battente informazione televisiva nei programmi di approfondimento che privilegia l’allestimento di grandi e suggestivi palchi di recita. L’articolazione di una regia ben studiata diffonde informazioni inquietanti e deforma spesso la realtà: fa transitare notizie parziali che s’accompagnano a testimonianze o fatti di grande presa; tende ad ignorare, invece, ora il contesto ben più ampio delle circostanze citate, ora i diritti della difesa delle persone coinvolte; toglie la parola a chi fa una diversa ricostruzione dei fatti; provoca la rissa che impedisce di ragionare; fa, infine, intervenire la satira che trasforma tutto in quattro risate. La satira è l’ornamento, come la ciliegina sulla torta, ed ha il vantaggio che non consente repliche, non ha un contraltare ed alimenta lo scherno. Nelle sceneggiature si materializzano a volte anche alcuni solisti, un po’ come Paganini, refrattari ai contraddittori ed alle repliche.
Accanto all’informazione televisiva, c’è la stragrande maggioranza della carta stampata. Quotidiani e riviste che, con toni diversi, si fanno strumento e megafono di persistenti aggressioni mediatiche, che analizzano ed amplificano ogni vicenda sul premier e sulla sua famiglia, anche se di natura privata, anche se priva di spessore politico. Prevalgono campagne di stampa in cui si antepongono alla denuncia, le questioni morbose; campagne che, anche a dispetto dell’informazione, ripropongono ossessivamente per mesi domande formulate come atti d’accusa, e che fanno passare per scoop le foto che riprendono l’interno delle residenze e le relazioni private di Berlusconi e dei suoi ospiti, condite da insinuazioni e da gossip.
Alla carta stampata si aggiunge la faziosa parzialità del sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi, che ha montato, senza vergogna, una manifestazione per la libertà di stampa in Italia, dopo che il Cavaliere aveva citato in giudizio alcuni giornali che da mesi conducevano una campagna di stampa offensiva e denigratoria.
Anche l’ordine dei giornalisti che chiude gli occhi sulle tante cadute di stile e sulle tante violazioni della deontologia professionale, e li spalanca, invece, in modo esagerato, per sanzionare il Direttore del Giornale, Feltri, reo di aver pubblicato una notizia, prima tenuta nascosta, sull’ex Direttore dell’Avvenire Boffo, scambiando, per informativa della polizia, una informativa arrivata da ambienti riservati che non modificava assolutamente la sostanza dei fatti.
E poi via da là, con la magistratura che spulcia ossessivamente i bilanci e che analizza ogni vicenda pubblica e privata del Berlusconi imprenditore, di quello politico e di quello privato cittadino. La magistratura che origlia e che iscrive sul registro degli indagati il Capo del governo, anche per frasi confidenziali e pensieri ad alta voce, come accade nei regimi totalitari, dove si condannano le opinioni e i pensieri.
Quando si ricercano reati nelle frasi pronunciate al telefono in conversazioni tra amici, conoscenti, giornalisti e collaboratori e, in assenza di ogni sostanza penale, quando si fanno trapelare alla stampa le intercettazioni private, violando il diritto alla riservatezza, e quando su queste intercettazioni si montano teoremi di ipotetici reati, si sprofonda in un regime giustizialista e si fomentano pericolosi pensieri violenti e forcaioli.
Intercettare le comunicazioni di un membro del Parlamento è anche un reato!
Una magistratura che con in testa il suo organo supremo, il Csm, invade il campo della politica, rivendica la sua legittimità nell’entrare nel merito del potere legislativo del Parlamento, per criticare il contenuto delle leggi, emette comunicati di chiaro riferimento politico, si pone come oppositore del Governo e pretende, persino, di sindacare sul potere del Ministro della Giustizia di inviare gli ispettori in quelle Procure dove si verificano episodi che si prestano ad interpretazioni poco trasparenti.
La Magistratura che nel complesso mette i riflettori sui processi di mafia in cui nella gestione dei pentiti emergono riferimenti al Presidente del Consiglio che, generici e privi di riscontri, nonché privi di movente, ritenuti poi inattendibili, richiamano un attento osservatorio mediatico internazionale con il quale si compromette sia la reputazione del leader che legittimamente, con il consenso degli elettori, governa, sia la reputazione stessa del Paese.
Ma tutto diventa ancora più difficile, se poi ci mettono di loro anche alcuni protagonisti del centrodestra che provano a demolire il carisma del Cavaliere, per lanciare il loro cavallo di razza, imbalsamato, per sua scelta, in una rilevante carica istituzionale. Un Presidente della Camera che si mostra irrequieto e preoccupato per la grande prova di competenza, abilità, credibilità ed autorevolezza con cui alcuni ministri di questo Governo hanno occupato la scena italiana, europea e mondiale, preoccupato che oscuri le sue ambizioni.
L’ex leader del Msi, sdoganato da Berlusconi, ha superato ostacoli che sembravano insormontabili, passando da una sorta di patto ad excludendum, che si era stabilito con l’arco costituzionale della prima repubblica, a fare prima il vice Presidente del Consiglio, poi il Ministro degli Esteri ed infine il Presidente della Camera dei Deputati. Un percorso politico esaltante e lo sarebbe ancora di più se focalizzasse il suo esclusivo impegno verso il Paese, lasciando al futuro il proprio destino di uomo di Stato.
Ma un leader carismatico, uno statista, colui che guida la maggioranza che si propone di varare dopo anni di tentativi falliti, dal 1983 della Prima Bicamerale presieduta dal Liberale Aldo Bozzi, le riforme istituzionali e le grandi riforme della Giustizia e del fisco, va difeso senza se e senza ma. Non si possono privilegiare le aspettative di singoli rispetto all’obiettivo storico che si vuole raggiungere. Non si può inoltre consentire che in tv uomini di questa maggioranza facciano il tiro al bersaglio sulla propria parte politica e facciano il verso, invece, a coloro che vorrebbero abbatterla.

Vito Schepisi

21 aprile 2010

Il Pdl resterà un partito di popolo?


Nelle motivazioni del dissenso di Fini verso Berlusconi entra anche l’opinione del premier, non solitaria, che sia proprio la retorica di una certa letteratura, contro la criminalità organizzata, a consolidare l’idea che il malaffare possa diventare una reazione alle inermi ed autoreferenti consorterie politico-intellettuali.
Gli scrittori, i giornalisti e gli intellettuali che professionalizzano il mestiere di oppositori della disonestà, spesso con lo scopo di favorire il proprio tornaconto, finiscono per attribuire ai fenomeni malavitosi un carattere quasi leggendario. Quando poi si arriva a rappresentare l’immagine dell’Italia, come quella di un Paese irrimediabilmente compromesso, in cui una parte dello Stato, sempre quella che non è “politicamente corretta”, sia connivente, complice e partecipe del malaffare, anche a dispetto dei fatti, si rende un pessimo servizio all’immagine complessiva del Paese. Un’insistenza che nuoce al turismo ed al “made in Italy”, e che è anche ingenerosa verso l’impegno delle forze dell’ordine, della magistratura e del Governo nel reprimere, con ottimi risultati sul campo, e non sui “best seller”, la criminalità organizzata.
La critica all’antimafia che sia fa mestiere, la sosteneva anche Leonardo Sciascia, quando rilevava e stigmatizzava i comportamenti di alcuni protagonisti che definiva, appunto, professionisti dell’antimafia.
Il sentimento di ripulsa verso la criminalità non ha, invece, colore politico, né può essere motivo di distinzione ideale. E’ un istinto spontaneo che parte dalla consapevolezza del senso dello Stato, che percorre la maturità civica dei cittadini, che si consolida con la civiltà dei rapporti tra istituzioni e società e che si afferma, infine, con il bisogno avvertito della legalità.
Il contrasto alla criminalità, tra la gente civile, è un sentimento di rifiuto naturale senza nessuna caratterizzazione antropologica. Il confronto sulla lotta alle mafie non diverrebbe, infine, motivo di ulteriore e superfluo conflitto politico, se non ci fosse chi si cimenta nel dimostrare di averne più titolo.
In concreto, ciò che è trapelato del discorso di Fini è un mix di luoghi comuni e di argomenti senza sostanza. Sembra che nei finiani si sia svegliata la nostalgia per la vecchia politica, quando per dar tinta alle ambizioni personali di alcuni, o per soddisfare le pressioni di gruppi, ovvero per poter imporre i propri interessi particolari, si formavano prima le correnti organizzate e poi si studiavano a tavolino i dissensi politici: spesso uno sciocchezzaio di luoghi comuni, di fantocci polemici, di processi alle intenzioni e di distinguo metodici.
Fini così ci riporta alla politica delle chiacchiere e dei distinguo. Altro che Ezra Pound e la battaglia per le proprie idee, se queste si riducono alle questioni, ad esempio, del voto agli immigrati, senza un confronto, senza gli opportuni approfondimenti, senza un quadro d’insieme sulle presenze, sulle regolarizzazioni, sulle quote di accoglimento compatibili. Un’uscita di Fini non concordata, sulla scia di un’iniziativa demagogica promossa da Veltroni, e proprio quando in Europa si avvertivano i sintomi delle contraddizioni tra i principi sacrosanti dei diritti all’integrazione e le difficoltà di far osservare le leggi, di debellare la clandestinità e di assicurare il mantenimento dei traguardi di civiltà maturati.
L’integrazione non si raggiunge con le leggi, ma attraverso la conoscenza, la partecipazione e la legalità. Le leggi servono per regolare le questioni, per sancire diritti e doveri, non per integrare esperienze e culture diverse.
I temi etici ed i diritti civili sono entrati di recente nel patrimonio culturale della destra ex reazionaria di Fini. Fanno parte di una cultura liberale, estranea per principio agli eccessi e richiedono, pertanto, riflessione e moderazione. Nel Pdl il confronto su questi temi non è mai stato chiuso, e non è mai mancato, in sede di scelte, il ricorso alla libertà di coscienza dei gruppi parlamentari. Dov’è allora il contendere?
I rapporti con la Lega sono quelli di una leale collaborazione tra alleati impegnati nell’azione di governo e nell’attuazione del programma concordato. L’alleanza è stata voluta con l’accordo di tutti, Fini compreso. La lealtà è d’obbligo, pertanto, ed i patti si rispettano. E’ vero che a volte spuntano eccessi e protagonismi di singoli leghisti, ma si rompe o si mette in discussione un’alleanza per un eccesso di uno o più singoli?
Le politiche fiscali, quelle economiche e quelle della spesa, di cui, assieme alla questione del Mezzogiorno, si fa sostenitore il Presidente della Camera, sono state condizionate dalla crisi. I pericoli per l’Italia sono stati enormi, a causa del debito pubblico, si veda la Grecia. La gestione di Tremonti, però, compresi gli interventi nel sociale, merita plauso, come è attestato dai riconoscimenti degli organismi europei ed internazionali. Sul mezzogiorno, inoltre, occorre uscire dal generico. Sono necessarie riflessioni per non ritornare alle esperienze del passato. Si ad infrastrutture, si a colmare il divario nei collegamenti, si agli investimenti, no però all’assistenzialismo. L’economia assistita non crea sviluppo, ma, come una droga, crea dipendenza. L’assistenzialismo crea clientele, servilismo, corruzione e mafia.
Ciò che ci sfugge di Fini è, pertanto, il fine del tutto. Non si capisce quali vantaggi pensa di poter ottenere con quest’avventura. Cosa ci ricava nello spaccare il centrodestra? Cosa pensa, soprattutto, di realizzare dividendo la componente degli ex di AN che, per buona parte, è rimasta fedele allo spirito del Pdl? Perché Fini vuole minare l’esperienza di un partito di popolo che trae la sua forza dall’interpretazione dei bisogni e dei sentimenti della maggioranza degli italiani?
Gli elettori del centrodestra si sono spiegati abbastanza bene, anche di recente, col voto. Ma allora perché non voler capire? Perché ignorare le fondamenta su cui è nato e si conferma il Pdl? L’Italia, liberale, democratica, moderata e riformista era alla ricerca, dopo 50 anni di partitocrazia in Italia, di un sistema partito che fosse capace di separare i giochi dei politici di professione dagli interessi del Paese.
La formazione del Pdl aveva appunto alimentato le speranze di chi aveva sperato che in Italia si potesse costruire il futuro della democrazia liberale e di chi aveva pensato che la semplificazione e la trasparenza delle scelte e dei programmi fosse divenuta prioritaria rispetto ai voleri delle caste e delle consorterie affaristico - politiche. Ora Fini che vuole? Col Pdl era stata fatta una scelta di metodo, vuole ora cambiarla?
Anche il centrosinistra con Veltroni, aveva mirato a chiudere alle coalizioni eterogenee privilegiando, al contrario di Prodi, la coesione più che l’Unione. Se alla sinistra è mancato il coraggio di assumere una fisionomia precisa, se è mancata una strategia chiara, se è mancato un programma visibile, al centrodestra tutto questo non è mancato. Nel PD, molto più diverso nelle sue componenti, Franceschini e Bersani non hanno correnti organizzate, non entrano in conflitto polemico, esprimono le proprie idee liberamente senza caricarle di forzature e senza minare l’unità del PD. Perché Fini, allora?
Ritornando alla citazione di Ezra Pound: "Se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui". Pensiamo che se un uomo ( Fini) dice: “Berlusconi pensa che ci siano delle incomprensioni, invece il problema è solo politico. Ci sono punti di vista diversi tra me e il premier", se dice questo e non ne assume tutte le conseguenze … o i suoi punti di vista non valgono niente, o non vale nulla lui.
Vito Schepisi

16 aprile 2010

La voce grossa dei perdenti




Se la base del Pdl è disorientata per le reiterate, ed all’apparenza pretestuose, contrapposizioni create al suo interno da Fini e dai finiani, la base del PD è confusa per la mancanza di una linea politica e per la difficoltà nell’individuare una visibile e coerente strategia riformista.
Bersani non riesce ad inventarsi un qualcosa, per contenuti, assetti e prospettive, da indicare agli elettori come alternativa democratica al Governo del Paese. Il Pd perde, così, voti ed eletti, e perde comuni, provincie e regioni, perché nessuno riesce ad interpretarlo, perché è ondivago, perché è contraddittorio, perché sembra una suocera acida che ce l’ha con la nuora perché le ha sottratto l’affetto esclusivo del suo “bambolotto”.
Mentre, ancora, il Presidente della Camera si sbraccia per smarcarsi dal Premier, e mentre i suoi luogotenenti fingono di ignorare che il loro “ducetto “ è la terza carica dello Stato grazie anche ai voti determinanti della Lega, checché ne pensi Bersani, il Partito Democratico sprofonda nella confusione più profonda. Il PD viene trascinato in una pozza d’acqua torbida, mestata da Prodi, alla ricerca della chiave di lettura di una incomprensibile disquisizione organizzativa sull’ipotesi di gestione federale.
Invece di darsi una precisa fisionomia e di accreditarsi come sinistra moderata e riformista, il PD, senza pace, da Veltroni in poi, rincorre ora gli effetti speciali, ora un nugolo di personaggi umorali e personalità inquietanti, ovvero insegue politiche prive di un progetto strategico, di un qualcosa di più del “far fuori”, ad ogni costo, l’avversario politico.
La proposta dell’ex premier dell’Unione di creare un partito federale, gestito, regione per regione, in modo grossomodo autonomo, contribuisce solo ad intromettere un altro fantoccio polemico alle già tante e differenti faide interne al PD. Ancora un motivo di divisione polemica tra ex Popolari ed ex DS, tra veltroniani e dalemiani, tra violacei, grillini e moderati, e tra rancorosi, vendicativi e rinnovatori. Un nuovo contributo alla già pazzesca confusione della sinistra italiana.
Se Fini si pone, così, come l’antagonista alla Lega nel suo braccio di ferro con Berlusconi, il PD di Bersani fa le prove, invece, per inseguire la Lega, guardando al nord dove, senza il partito di Bossi, non si governa né le regioni, né il Paese.
Se Fini si mette di traverso al programma del Pdl, alla convergenza sulle riforme, e quindi alla maggioranza ed a Berlusconi, Bersani, per nuovo, si riabbraccia con il redivivo ed obsoleto Prodi.
Se Fini, attrezzatosi di trapano a percussione, si appresta a perforare il buonsenso e se, con il suo trasformismo, mira ad indebolire la portata dell’ennesima vittoria elettorale del centrodestra, Bersani, di contro, fa di tutto per legittimare la sconfitta del suo partito, per confermarne la preoccupante carenza di idee, per stabilirne l’inutilità propositiva, per evidenziarne il disorientamento politico e per stabilizzare la subalternità del PD sia a Di Pietro, sia all’ambiguità delle sue frange nostalgicamente neo comuniste.
Fini e Bersani, purtroppo per loro, sono i due perdenti della recenti elezioni regionali. Lo sono un po’ per le scelte fatte, un po’, come nel caso del PD, per i condizionamenti imposti dagli alleati scelti, ma si comportano come se fossero i due vincenti.
Sia il Presidente della Camera che il leader del PD si mostrano restii a riconoscere le loro responsabilità e perseverano, piuttosto, negli errori, fingendo persino di ignorarne la portata e, trascurando il significato politico del responso delle urne, rischiano di trascinarsi nello scontro polemico anche un po’ di ciò che rimane della civiltà democratica e della cultura del confronto di questo Paese.
Sia l’uno che l’altro, con atteggiamenti e partenze diverse, finiscono, con l’ostacolare ora la semplificazione del quadro politico, ora la chiarezza delle posizioni, ora anche gli impegni presi con gli elettori. Ciò che lascia perplessi è che non possono che esserne consapevoli. In definitiva, mostrano invidia per i successi di questo Governo.
L’uno, Fini, appare come un cecchino appostato sul tetto che prende di mira chi voglia transitare sulla strada del rinnovamento del Paese. L’altro, Bersani, appare, invece, come un giocatore di poker che bara al gioco e cambia ripetutamente e maldestramente le carte sul tavolo: è come un giocatore che cerca ammiccamenti con gli altri contendenti, non per cercare di vincere a sua volta, ma per spingerli ad ostacolare l’unico che abbia l’abilità di vincere.
Fuori dalle metafore, sia l’uno che l’altro, Fini e Bersani, sono accomunati dalla stessa preoccupazione di ostacolare chi si mostra capace e vincente, e lo fanno con ogni mezzo e pretesto, anche a costo di danneggiare il Paese.
Fini, che rinfaccia a Berlusconi l’appiattimento del Pdl sulle scelte della Lega, finge di non accorgersi che è tra gli sconfitti morali della recente competizione elettorale. Il centrodestra nel complesso ha vinto le elezioni grazie all’ampio consenso degli elettori per l’azione di Governo. Di questo consenso ne ha beneficiato maggiormente la Lega che si è rafforzata nelle regioni del Nord, anche a discapito del Pdl. La confusione delle voci e dei toni all’interno del Partito di Berlusconi hanno privilegiato nelle urne il partito di Bossi. Le polemiche scatenate ad opera del Presidente della Camera, e dei suoi uomini, in particolare sui rapporti con la Lega e su alcune questioni molto avvertite al Nord, e non solo là, come l’immigrazione e la sicurezza, ad esempio, hanno, infatti, visibilmente favorito il voto alla Lega.
Fini tutto questo lo sa. Non può non saperlo!
Il Pd di Bersani, invece, sembra il partito delle “monadi”, soggetti unici ed indivisibili di una realtà immaginaria. Come nel pensiero di Liebniz si sentono sostanze diverse caratterizzate da un diverso grado di spiritualità. Da qui la voce grossa di Bersani, come se avesse vinto le elezioni. Da qui l’imprimatur sulle riforme, il giudizio di merito sul braccio di ferro e sulla possibile frattura tra Fini e Berlusconi e lo schierarsi (stranamente!) sulle ragioni del primo. Se Bersani, dal vecchio pci, ha mutuato quella sorta di superiorità morale che lo fa sentire legittimato ad esprimere giudizi di merito ed a pretendere che gli altri, benché legittimamente vincenti, si adeguino a recepirli, Fini non sembra essere da meno, e dal vecchio Msi, ha mutuato il fastidio per i metodi della democrazia.
Tra i perdenti, c’è quanto meno un filo che congiunge!
Vito Schepisi

31 marzo 2010

Dalla Puglia la richiesta di un nuovo Pdl



Le dimissioni di Fitto da ministro non hanno alcun senso, ora. L’errore è stato nel pensare che l’ex coordinatore del Pdl in Puglia potesse imporre il suo candidato, a dispetto degli elettori e per suo calcolo di opportunità. Non è in discussione la persona, squisita, preparata e capace, del candidato Rocco Palese, ma il metodo con cui si è arrivati alla sua indicazione. Alla luce dei fatti, risultano fondate le preoccupazioni, manifestate per tempo dal Presidente Berlusconi, quando chiedeva, per la candidatura alla Presidenza della Regione Puglia, una soluzione forte e tale da poter recuperare l’unità degli elettori pugliesi di centrodestra. Ma, per ben individuate responsabilità, non è stato così.
Non hanno alcun senso ora le dimissioni. La responsabilità di ciò che è successo non è soltanto di chi ha ritenuto di fare a modo suo, e per proprio interesse ed opportunità, ma è anche del sistema organizzativo del Pdl che l’ha consentito. Si abbia ora il coraggio e la forza di cambiare metodi e strumenti.
Non è in discussione la scelta, legittima, del Pdl e del centrodestra pugliese nell’opporsi alla candidatura della Poli Bortone. Se si contesta il ruolo di “tenore” di Fitto, si deve poter contestare anche quello di “soprano” della signora della destra pugliese. Nessuna fiducia era, infatti, possibile rimettere nelle mani di colei che, per una mancata nomina nella compagine ministeriale, da circa due anni alimentava un rancore contro l’area politica che l’aveva portata in Parlamento, ed in cui ancora dice di riconoscersi.
Se non è pensabile l’applicazione in politica del principio che la somma faccia sempre il risultato e se non deve, altresì, ritenersi possibile il ricorso alla libera uscita ed al dispetto come forma di ritorsione, non deve neanche ritenersi possibile pensare che il confronto, le diversità, i contrasti personali vengano regolati da una sola persona, e che questi stabilisca da solo le scelte di tutto il Pdl pugliese.
Su questo il centrodestra, non solo della Puglia, dovrebbe prendere esempio dalla scuola consolidata della sinistra che, invece, pur tra mille contraddizioni, spesso oltremodo divisa, a volte inscenando finzioni, riesce sempre a compattarsi, come è appunto capitato in Puglia con Vendola.
Nel tacco d’Italia è venuta a mancare una vera partecipazione complessiva alle decisioni dei responsabili del Pdl, sia a livello locale che nazionale. La responsabilità è nell’aver consentito ad un solo uomo di fare la sua scelta, benché controversa. E’ sembrato un vero atto di forza, imposto senza un dibattito ragionato e senza un vero confronto sulla scelta che si stava facendo. Ancora più grave è apparso il modo di lasciare Il popolo del Pdl, quello al di fuori della vita di partito, dilaniarsi sulle possibili candidature che circolavano, per restare, alla fine, completamente tagliato fuori dalle decisioni prese da un solo uomo.
Il popolo del centrodestra si è diviso ed è persino entrato in conflitto, rincorrendo, in termini a volte esclusivi, le proprie diverse correnti di pensiero. Non è sembrato saggio deludere il sostegno spontaneo dei sostenitori dei diversi candidati proposti con un colpo di mano, pochi minuti prima della conoscenza del risultato, ampiamente previsto, alle primarie della sinistra, della candidatura di Vendola.
Una scelta di tempo affrettata e scomposta che ha consentito alla Poli Bortone ed a Casini di raggiungere con facilità il loro risultato personale e politico. La senatrice ex Pdl ha potuto così dimostrare ciò che asseriva, e cioè che senza la sua candidatura alla Presidenza il centrodestra sarebbe stato perdente. Il leader dell’UDC, invece, ha centrato l’obiettivo di impedire che la vittoria del Pdl, in questa tornata elettorale, potesse avere le caratteristiche di un trionfo della linea bipolare del Pdl e di Berlusconi. Per Casini si è trattato dello stesso gioco riuscito in Liguria e tentato in Piemonte.
Se non è pensabile, come si è detto, che la somma faccia sempre il risultato, è immaginabile, invece, che la divisone lo allontani. Per intelligenza politica, se si è veri leaders, occorre sempre prenderne atto.
L’intuito di poter coniugare, in una strategia complessiva, le indicazioni ideali con i sentimenti del popolo è fondamentale in politica. L’esempio di Berlusconi è una prova evidente di questa capacità. Occorre che ci sia sintonia e coerenza tra gli obiettivi ed il mezzo con cui si voglia raggiungerli. Ma, se questa intuizione va bene ove vi siano uomini capaci di interpretarla con intelligenza ed umiltà, va meno bene ove vi sia arroganza e presunzione.
Una regione come la Puglia che va dal Salento al Gargano, molto diversificata nelle specificità del territorio, così lunga e vasta da potersi pensare unita nelle indicazioni delle sue priorità politiche, non può pensarsi confinata in un conflitto di predominio personale tutto salentino. Il risultato è che il candidato del Pdl Rocco Palese ha subito la sua sconfitta andando sotto non solo a Bari e provincia, ed in modo massiccio (meno 10,6% rispetto a Vendola), ma anche a Lecce e provincia (meno 0,9%).
L’elettore si mostra intransigente sui conflitti personali, perché non li comprende e non gli interessano.
E’ arrivato il tempo di pensare, invece, a forme di maggiore partecipazione popolare per l’indicazione dei candidati da eleggere. Il ricorso alle primarie, fatte in modo vero e serio, con contendenti veri, potrebbe essere una soluzione. Non si può pensare che un partito pluralista e popolare possa dipendere dagli umori di un solo uomo: non è serio, né condivisibile e, come nel caso pugliese, c’è il rischio che si mostri perdente.
Vito Schepisi

23 marzo 2010

Voto utile in Puglia




Non è mai superfluo ricordare anche ciò che, più che le parole e le trame, stabilisce un semplice calcolo coi numeri. Mi riferisco al voto utile che può apparire uno slogan o una furbata elettorale, ma che è invece fondamentale per le scelte che può determinare per i prossimi 5 anni nelle amministrazioni regionali.
Il voto utile potrà produrre il suo effetto anche sul clima politico nazionale, soprattutto se c’è chi nella politica e nella magistratura, o viceversa, prova ad avvelenare i pozzi ed a giocare allo sfascio.
Se ad esempio ci sono due coalizioni, ciascuna con un presunto serbatoio elettorale vicino, più o meno, al 45% dei voti, e poi c’è un’altra coalizione che si sa già perdente, accreditata di circa il 10% dei voti da raccogliere nell’area moderata e di centrodestra, appare evidente che quest’ultima sia sorta non per competere, ma per sottrarre consensi al candidato più forte dell’area moderata e di centrodestra. Diventa persino fondato il sospetto che sia sorta per provare a regalare la vittoria al candidato della sinistra che, ad esempio nella Puglia, è anche orgogliosamente neo comunista. Questa candidatura in Puglia sembra che abbia il solo scopo di tradire il sentimento dei suoi elettori. Non è né leale, né bello! Non lo è soprattutto quando ci si appella ai valori di moderazione, alle ragioni del rilancio del mezzogiorno e si condanna anche la politica clientelare, immorale e fallimentare dell’amministrazione uscente.
Perché questa finzione? C’è chi parla di tradimento e di furbizia, chi di accordi sotto banco, chi di trasformismo, mentre altri sostengono che ci siano capricci, interessi, rancori e ripicche. Ma ai pugliesi cosa interessa di fatti e strategie di piccoli personaggi che si sbracciano come tanti avventurieri della politica? Ai pugliesi, ad esempio, cosa interessano tanti casini? Cosa di rancorose e superbe prime donne, ormai decotte come polli al limone?
C’è ancora chi va sostenendo, ad esempio, che le regionali siano, come per le comunali, a doppio turno e che al ballottaggio basterà far confluire i voti sul candidato di centrodestra, ad esempio in Puglia su Rocco Palese, ed il pericolo della riconferma di Vendola viene così scongiurato. Ma non è vero! Non è così!
Le elezioni regionali sono a turno unico. Vince chi prende più voti come candidato presidente. Ogni voto sottratto, ad esempio sempre in Puglia, al candidato di centrodestra, si trasforma in un vantaggio per il governatore con l’orecchino. Il meccanismo elettorale è complesso, ma assicura al presidente eletto una maggioranza sicura, sufficiente per governare la regione solo vincendo la corsa per la Presidenza.
I voti alla Poli Bortone, pertanto, non serviranno a niente, se non a sottrarre consensi a Rocco Palese ed a favorire, invece, il governatore che ha gestito una Regione con metodi discutibili, perversi, dispersivi, dispendiosi e clientelari. Favoriranno il poeta del nulla, il filosofo della filastrocca, che ha disatteso le promesse elettorali (abolizione dei ticket sanitari e salario ai giovani ed eliminazione delle liste d’attesa nella sanità) con cui aveva acquisito popolarità e voti nel 2005.
I voti dati alla ex passionaria della destra pugliese rischiano paradossalmente di favorire l’espressione della sinistra più spinta. Ogni voto dato alla Poli Bortone favorirà, invece, l’arrogante, ma distratto, presidente uscente pugliese che ha consentito una gestione immorale della macchina regionale e che ci lascia una sanità sommersa dai debiti (3,6 miliardi tra debiti della Regione e debiti delle Asl). Una sanità che eroga prestazioni in condizioni di mortificante degrado delle strutture e di grande disagio per i pazienti. Tutto in stridente e beffardo contrasto con la vita piena di lussi, donnine, lustrini, droga, viaggi,vacanze, cafonate e festini di amministratori e affaristi che hanno ruotato attorno ed alle spalle della sanità pugliese.
In Puglia la partita doveva essere diversa. In Puglia, sin dallo scorso anno, era stato messo su un laboratorio politico su cui stava lavorando l’alchimista Massimo D’Alema, leader d’adozione pugliese. L’attuale presidente del Copasir aveva preparato la sua rete di luogotenenti (tutti poi inquisiti) ed anche “previsto” il terremoto politico-giudiziario con cui meditava di far crollare la popolarità ed il prestigio del Presidente Berlusconi.
Dalla Puglia doveva partire la “scossa” preannunciata in tv nella “mezz’ora”di trasmissione amica con la Lucia Annunziata. Le trame dalemiane dovevano ridurre allo stremo la popolarità ed il consenso elettorale di Berlusconi e dovevano, nella strategia di “baffino”, preparare la sconfitta del centrodestra proprio alle regionali del 29 e 30 marzo. A questo gioco si prestava Pier Ferdinando Casini, alla ricerca di una nuova strategia politica che scompaginasse il bipolarismo e riproponesse la vecchia partitocrazia. A questo gioco in Puglia si è prestata la senatrice Adriana Poli Bortone, eletta nelle fila del Pdl e trasmigrata nel gruppo dell’Udc, dopo che per un ministero in quota AN le era stata preferita l’on. Giorgia Meloni.
Il laboratorio pugliese di D’Alema, però, è venuto meno. E’ prevalsa l’ostinazione di Vendola nel riproporre la sua riconferma. L’uomo della “poesia nei fatti” ci aveva lavorato per 5 anni, rafforzando, come rilevato dalla magistratura, la presenza sua e dei suoi uomini, attraverso la formazione di cupole di gestione politica del territorio. Il metodo della politicizzazione delle nomine, dei finanziamenti clientelari, degli interventi mirati, dei convegni delle chiacchiere, delle assunzioni selettive, delle consulenze agli amici e compagni ha travolto la scala dei bisogni e quella del buon senso, trasformano la poesia in un prosaico mercato.
I pugliesi ora chiedono di essere liberati. Sanno che possono farcela, ma temono solo due cose: l’astensione della popolazione stanca di sopportare ed il voto inutile.
Necessita un moto di orgoglio, una scossa di fiducia, un atto di coraggio e soprattutto un voto utile.
Vito Schepisi

17 marzo 2010

Il disagio e la libertà



Sono in grande disagio. Non so se posso telefonare, se posso scrivere, se posso parlare con qualcuno. Vorrei farlo per sfogarmi, per poter dire ciò che un qualsiasi cittadino sereno, libero, rispettoso, amante della democrazia direbbe in questo momento. Vorrei poter esprimere in modo composto, ma con forza e indignazione, tutto ciò che mi passa per il cervello. In un Paese libero tutto questo dovrebbe essere consentito, anzi dovrebbe essere garantito, soprattutto quando lo si fa in modo civile.
Mi chiedo, pertanto, se in Italia ci possa essere qualche potere che abbia la facoltà di limitare questa libertà. Più che una domanda, però, la mia è la conferma di un dubbio che mi assale da tempo. Il quesito è divenuto dubbio perché, con la modifica, sulla scia di un disagio politico, intervenuta nel 1993 all’art 68 della Costituzione e con l’interpretazione estensiva dei ruoli assunti dalla magistratura e dal suo organo di autogoverno, su questa domanda, trasformatasi in ragionevole dubbio, ruota tutta la kermesse dell’inganno.
Chiediamoci, dapprima, che cosa sia la libertà. E, per non divagare, limitiamoci, in uno sforzo di sintesi, alla definizione costituzionale. La libertà di un Paese, in primo luogo, consiste nella libertà dei cittadini di potersi esprimere, e non solo in modo formale, come con la libertà di comunicare, con la libertà di parola, con la libertà di scrivere, ma anche in modo sostanziale attraverso le scelte. Tra quest’ultime la più importante è quella elettorale. Tutti i cittadini italiani, tranne i pochi condannati alla interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, hanno diritto di esprimersi col voto e sono eleggibili.
Per l’articolo 13 della Costituzione, inoltre, “la libertà personale è inviolabile”. L’ipotesi contraria è consentita solo “per atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Mentre per l’art.15 della Carta Costituzionale anche “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. L’ipotesi contraria “può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria”.
Solo l’autorità giudiziaria, pertanto, può limitare la nostra libertà. Tutto sarebbe, così, lecito, anche se non abbiamo ancora dissipato i molti dubbi nel merito. Ma ciò che la Costituzione sancisce serve senz’altro ad affermare che l’unico ordinamento che abbia il potere di limitare le libertà nel paese è quello giudiziario. E, siccome in Italia non mi sembra che ci sia stato un colpo di stato e che, per effetto di questo “golpe”, i poteri, compresi quelli giurisdizionali, siano stati assunti dal Capo del Governo, l’unico pericolo per la nostra libertà, e penso anche per la nostra democrazia, può arrivare solo dalla politicizzazione della magistratura.
Nel merito, infatti, ci sarebbe da chiedersi se la magistratura esercita correttamente i suoi poteri. Se lo facessimo, però, entreremmo in un’area che in questi giorni si manifesta molto pericolosa: quella del dubbio circa la correttezza nell’esercizio del mestiere di alcuni magistrati. Ma se entrassi in quest’area siamo certi che ne uscirei indenne? Non ho soldi da dare alla casta! Ecco dunque i motivi, accennati in apertura, del mio “grande disagio”. Un disagio come cittadino, come soggetto pensante e come comunicatore.
Non credo che chi ha scritto la Costituzione Italiana, scegliendo la separazione dei poteri, abbia proprio voluto attribuire ad un ordinamento burocratico, privo della legittimità democratica, il potere di intervenire significativamente sulla libertà del Paese.
Non penso che i Padri Costituenti abbiano voluto attribuire all’Ordinamento Giurisdizionale il primato del rispetto delle regole della democrazia ed il controllo del suo ordinato esercizio.
Non penso, ancora, che ci si debba arrivare a sentirsi a disagio nell’esprimersi in privato, nell’esternare il proprio disappunto, nell’assumere la difesa della propria dignità personale, nell’osservare d’essere vittima di una puntuale e metodica aggressione mediatica, com’è capitato al Presidente del Consiglio Berlusconi, e d’essere per questo sottoposto ad indagini giudiziarie.
Dicono, ad esempio, che il premier manovri l’informazione, che abbia un controllo mediatico quasi totalitario, che intimidisca e che eserciti un potere incontrollato. I più analfabeti, soprattutto per ignoranza della Costituzione Italiana, dicono anche che sia un dittatore. Ma se è così, perché c’è un’informazione invadente che riempie le pagine dei giornali e le tante trasmissioni televisive Rai contro il premier?
Non è che in Italia ci sia una parte che può dire, e l’altra che debba tacere? Ed il mio disagio riviene proprio dalla consapevolezza che possa trovarmi dalla parte di chi debba essere indotto a tacere.
Vito Schepisi

12 marzo 2010

Il sindacato zerbino della sinistra


Anche questa volta sarà solo una questione di cifre e di tanta retorica. Di tante parole sprecate. E’ l’usuale balletto che si anima nelle cronache di tutte le manifestazioni e di tutti gli scioperi a destra e, soprattutto, a sinistra. È come se, al di là dei contenuti della protesta, assumano valore i numeri delle persone che, con tutti i mezzi, si riesce a far convergere nelle piazze, ovvero il conteggio di quelli che si riesce a non far andare al lavoro. Ma i numeri delle persone, se non proprio importanti, nell’ordine di milioni, sono sempre una parte minore del Paese, dei lavoratori o degli studenti.
Uno sciopero, ovvero una manifestazione, ha valore se passa attraverso il sentimento del Paese, se è sentito come qualcosa di importante e di fondamentale. Ma non ha niente, invece, di importante uno sciopero indetto da una sola sigla sindacale, ben politicamente schierata, abituata a dire sempre di no ad ogni proposta, ma a tacitarsi quando i suoi compagni governano il Paese.
Uno sciopero generale dovrebbe essere il ricorso estremo contro un potere sordo ed arrogante. Fallite le trattative, disattesi i diritti, passati i confini della ragionevolezza, dinanzi ad un potere arrogante, irrazionale e repressivo, si passa allo sciopero come forma di pressione e testimonianza di disagio e di malessere.
Lo sciopero generale può essere utilizzato come strumento di pressione, di solidarietà e di conferma della reale volontà dei lavoratori. Nelle fasi acute dei rinnovi contrattuali, l’utilizzo del diritto di sciopero è quello più naturale e rispettoso dei ruoli che la stessa Costituzione assegna alla legittimità del diritto dei lavoratori di organizzarsi in associazioni sindacali e di farsi rappresentare in vertenze di lavoro e nelle attività contrattuali. Solo nelle democrazie liberali, però, i sindacati sono liberi ed indipendenti, ed è consentita loro l’agibilità delle attività sindacali nelle aziende.
Quando non serve a rivendicare un diritto, quando non c’è una materia del contendere tra il datore di lavoro ed i prestatori d’opera, lo sciopero è invece inutile e dannoso. E’ dannoso all’economia del Paese, è dannoso all’occupazione, è dannoso alle imprese, è dannoso alla democrazia, è dannoso agli stessi lavoratori.
Uno sciopero generale, senza il coinvolgimento delle responsabilità delle controparti, finisce con l’essere uno sciopero politico. Ed uno sciopero politico, se non in casi di grandi soprusi e di forme di autoritarismo e di violazione grave dei diritti generali delle persone, non avrebbe senso. Chi lo propone con la pretesa che si trasformi in un giudizio d’appello contro l’espressione politica del Paese, ovvero qualora si voglia che sia posto come un improprio giudizio di merito sul Governo, quasi un’alternativa allo stesso Parlamento, investito, invece, in forma esclusiva dalla sovranità popolare, mostra solo una grande arroganza.
Lo sciopero generale, perché possa avere valore di monito, se lo si volesse davvero come segnale di un momento di riflessione su questioni che coinvolgano situazioni di profondo malessere nel Paese, talmente gravi però da poterlo giustificare, dovrebbe trovare una convergenza ampissima delle parti sociali, la più ampia possibile. Non sembra, però, che sia così!
Lo sciopero generale di oggi è indetto dalla Cgil, dalla sola Cgil, mentre si dissociano e sono critiche le altre organizzazioni sindacali. Ma l’azione più velleitaria ed insensata di un sindacato è proprio quella di dividere i lavoratori. Anche se capita che la concorrenza sindacale si faccia serrata, a volte anche sleale, ma trovarsi separati agli appuntamenti, forzare i toni, esasperare le difficoltà, cercare la rottura, politicizzare le questioni, sono tutti modi sbagliati di interpretare il ruolo del sindacato. E’ senz’altro sbagliato fare i furbi e travalicare la sostanziale trasversalità degli interessi delle categorie rappresentate. La lotta è un momento di unione, in caso diverso è una velleità, è una pazzia, è inutile, è strumentale, è attività politica. E per far politica bastano già i partiti.
L’utilizzo delle manifestazioni di piazza come alternativa alla proposta politica è nello stile della sinistra. Ci si serve della piazza quando si voglia contrapporre il frastuono alla ragione, gli slogan al consenso, la strumentalizzazione alla democrazia. La stessa sinistra che, quando invece governa, sopisce la protesta e si attrezza a difendere persino i provvedimenti di macelleria sociale, come abbiamo visto con Prodi.
E’ spesso ipocrita, invece, quella la sinistra italiana che biasima le manifestazioni di protesta dei cittadini italiani contro la lesione dei diritti, spacciando per violento chi si accingerebbe, invece, a protestare contro le aggressioni dei pezzi dello Stato che si contrappongono alla legittimità della volontà popolare.
La sinistra che oggi sciopera contro il Paese è la stessa che indica come autoritaria la manifestazione indetta per protestare contro coloro che falsificano l’esito delle elezioni e ledono il diritto democratico del voto. Sarebbe così antidemocratica e golpista la protesta contro quella burocrazia politicizzata che interpreta leggi e forme a proprio uso e consumo e che si presta a sostituirsi al corpo elettorale per modificare, attraverso l’esercizio spesso invadente e persecutorio dell’ordinamento giurisdizionale, la volontà politica del Paese.
Quante centinaia di migliaia di italiani, lavoratori e studenti saranno conteggiati da Epifani come partecipanti alla protesta contro il governo? Ma quanti di questi conoscono e condividono le ragioni per cui è stato loro chiesto di scioperare e manifestare?
Lo sciopero di Epifani e della Cgil è per la riduzione della pressione fiscale. La stessa pressione fiscale che al momento del giro di vite di Prodi (l’attuale situazione è quella ereditata 2 anni fa) ha trovato la Cgil indifferente e silente. La stessa pressione fiscale che dopo una crisi devastante nel mondo, tenuta sotto controllo in Italia, ma non senza ferite ancora aperte, non è possibile ridurre senza tagli alla spesa, o senza trovare fonti alternative di entrata. Epifani, al contrario di altri sindacalisti italiani, mostra di ignorare persino l’impiego di ingenti risorse finanziarie utilizzate per supportare i meno fortunati che hanno perso, e rischiano ancora di perdere, il loro posto di lavoro.
Il leader della Cgil sa bene che la spesa corrente del Paese nel 2009 ha superato le entrate correnti, ma si oppone ai tagli, si oppone ai ricavi di efficienza della pubblica amministrazione, si è opposto allo scudo fiscale che è servito a far rientrare nelle disponibilità degli investimenti in Italia ben 100 miliardi di Euro, ma chiede invece di ridurre la pressione fiscale. Il gettito fiscale in Italia nel 2009, per effetto della crisi, ha registrato un calo di entrate di circa 12 miliardi di euro. Pensare di ridurlo senza copertura sarebbe delittuoso.
La protesta, pertanto, senza una proposta alternativa è sterile, ma Epifani ed il suo sindacato non indicano dove reperire le risorse, se non con il solito recupero dell’evasione fiscale, verso cui questo governo, più di altri, ha concentrato i suoi sforzi con ottimi risultati, oppure colpendo i settori del risparmio e della produzione, già in difficoltà: settori in cui, con l’aumento della pressione fiscale, i benefici sarebbero di gran lunga inferiori ai pericoli di compromettere la ripresa, gli investimenti, e gli stessi livelli occupazionali.
Uno sciopero generale con ancora in corso la coda di una crisi che sta mettendo a dura prova la tenuta produttiva ed occupazionale del Paese è una follia, ma ancora di più un tradimento ai lavoratori.
Vito Schepisi

03 marzo 2010

L'apologia del fallito



L’Italia è sempre il Paese in cui c’è chi si lamenta per la siccità, quando non piove, mentre invece c’è chi si lamenta per le calamità atmosferiche, quando piove. Niente va mai troppo bene. Sempre, invece, si dice che comunque vada male, anche quando ci sarebbero ragioni per pensare che invece possa andar bene. Non c’è meraviglia che regga. Neanche quando, ad esempio, si sente parlare di grande successo per un fallimento o viceversa di fallimento per un grande successo.
Sarebbe grandissimo, il nostro, come Paese, se non fosse per l’eccessiva presenza di gente che, nonostante più di un fallimento, si mostri sin troppo capace, tanto dal risultar d’essere solo un po’ troppo furba, e qualche volta anche un po’ eccessivamente truffaldina e bugiarda.
In questa abitudine dei molti acrobati delle parole, di coloro che usano il dire in stridente contraddizione col fare, e di quelli che fanno a meno anche dal dire il vero, ed abitudinariamente si esimano anche dal fare, si finisce col perdere persino la bussola. In politica, ad esempio, non si capisce chi o dove o il quando delle cose, delle persone, dei partiti, né chi sia responsabile e di cosa, o perché. Nella confusione non si capisce mai la dimensione reale dei fatti. Si capisce solo che l’arte della parola, usata dai fantasiosi professionisti del niente, camuffa la realtà e stravolge la storia. E’ come quando si spacciano per pietre preziose i fondi delle bottiglie o per oro colato il vile metallo.
La partita si gioca più sul metodo del far apparire, sui colpi di scena, sui colpi di teatro. E’ come una fiction, come un film, come un festival. Sculettano e si mostrano le soubrettes scollacciate, come nelle passerelle delle sfilate. Ci provano a vendere nuvole di fumo ed usano le istituzioni per il loro consumo. Richiamano il popolo alla guerra santa, demonizzano l’avversario, finiscono col mettere in pratica gli unici strumenti che hanno imparato bene ad usare: la chiacchiera, l’illusione, la calunnia ed il falso. Come è successo con Prodi al Governo, dal 2006 al 2008, quando si faceva passare per grande successo politico ciò che era una macelleria sociale e per risanamento dei conti l’aumento della pressione fiscale.
Il fallito è colui che attribuisce sempre ad altri le sue responsabilità. In politica il fallito parla sempre di battaglie vinte, mentre tutt’intorno la popolazione si lecca le ferite. Si spaccia così per vittoria anche lo spreco del danaro pubblico, in nome di un dichiarato impegno sociale, come è capitato a chi di recente ha pensato che il sociale dovesse consistere nell’anticipare di qualche mese l’esodo per la pensione a pochi lavoratori garantiti, a danno delle giovani generazioni, ovvero nel proteggere oltre il dovuto lo spreco di chi percepisce un salario pubblico, senza profondere impegno e, a volte, senza neanche l’impegno di recarsi al lavoro.
E’ un fallito Vendola in Puglia. Lo dicono i numeri e le cronache degli ultimi tempi. Lo dice chi ha il buon senso di andare oltre le illusioni ed i richiami ideologici e fa un bilancio degli ultimi 5 anni. Resta un fallito a prescindere dalla cronaca giudiziaria e dalle responsabilità politiche di una gestione moralmente raccapricciante. Le cupole affaristiche e di controllo politico del territorio, finalizzate al rafforzamento elettorale, le pratiche clientelari, i ricatti sessuali, le infiltrazioni malavitose, i festini, il denaro pubblico sprecato nelle forniture sanitarie, costituiscono solo la cornice del quadro fallimentare di una complessiva gestione. Vendola resta un fallito ben oltre le ragioni del soffermarsi sullo squallido uso fatto della Istituzione pugliese.
I partiti della sinistra, PD in testa, che oggi sostengono il Governatore pugliese uscente, fino a qualche settimana fa, volevano, invece, metterlo da parte. La sinistra voleva girar pagina, chiedeva l’accantonamento dei responsabili della passata gestione ritenendoli impresentabili. Anche se correo nel fallimento, il PD si preoccupava solo di correggere l’immagine fallimentare vigorosamente emersa. Ora con la classica doppiezza di sempre rimescola le carte. Ma, se non per il suo fallimento, perché allora il PD si ostinava a chiedere la discontinuità con la precedente gestione? Perché la base si è spaccata ed il partito si è accapigliato al suo interno? Perché il caso Puglia, per mesi, ha rappresentato un fatto politico di interesse nazionale sui più grandi quotidiani nazionali? Perché il PD si è trovato a dover scuotere le ambizioni e le responsabilità del sindaco di Bari Emiliano? Perché questi chiedeva una legge regionale a suo uso e consumo per farsi eleggere Presidente della Regione Puglia e restare Sindaco di Bari? Perché il PD ha dovuto accettare le primarie in Puglia, sacrificando l’immagine di Francesco Boccia, se non per recuperare le ragioni di una politica dall’apparenza più composta, più orientata alle soluzioni e più moderata?
L’ostinazione di Vendola a volersi ricandidare ad ogni costo era fondata invece solo sulla sua certezza di aver lavorato bene nella Regione, ma il suo è stato solo un buon lavoro di consolidamento elettorale per la sua riconferma. Niente di più! Una grande rete capillare finalizzata al consenso personale. La sua emarginazione, per mano dei compagni di cordata, avrebbe invece esaltato il suo fallimento politico, con grave pregiudizio anche delle sue ambizioni nazionali. Vendola è un fallito che sa bene di esserlo, come bene lo sanno i suoi alleati che si sperticano oggi nell’apologia del fallito.
Le ragioni stanno nei fatti, come sostiene il suo avversario del Pdl Rocco Palese: “Una Regione che sintetizza il peggio delle regioni guidate dal centrosinistra”. Ed i fatti sono: un miliardo di debiti nella sanità; aumento di Irap, Irpef e benzina per i pugliesi; il 63% dei Fas 2000-2006 non spesi; 500 milioni di risorse nazionali ed europee non spese; 2 miliardi in cassa non utilizzati (e ciò nonostante la crisi e le difficoltà delle piccole e medie imprese che si ripercuotono sui livelli occupazionali); i giovani costretti ad emigrare; promesse sui salari sociali fatte ai giovani nel 2005 non mantenute; uno stato comatoso del territorio. Insomma, un fallimento!
Vito Schepisi

25 febbraio 2010

La par condicio applicata al pensiero


Finirà che chiederanno la “par condicio” anche per ciò che pensiamo! Ciò che è strano, in Italia, è che si voglia fare tutto ciò che invece è stato proibito per legge, e che ciò che è stato, appunto, proibito debba essere anche ciò che, al contrario, ciascuno vorrebbe essere legittimato poi a fare. E si protesta perché, per il rispetto della legge, l’esercizio dello sdoppiamento della sua applicazione non venga consentito. A nulla vale eccepire che la legge l’abbiano reclamata proprio nella famiglia politica di coloro che vorrebbero disattenderla, ovvero applicarla a seconda dei casi.
Si ha così il sospetto, non proprio vago, che ci sia una parte politica che vorrebbe proibire tutto ciò che non torni utile al proprio interesse, ma che nello stesso tempo vorrebbe che fosse consentito, solo per la propria parte, tutto ciò che, invece, sia proibito per gli altri. Si vorrebbero insomma delle leggi che, a seconda delle circostanze, fossero applicate per i nemici e violate per gli amici.
Ma se non riescono ad inventare leggi di questo tipo, si rifugiano in nervose giravolte e sceneggiate, come quella tra Travaglio e Santoro, con il primo che pretenderebbe, ad esempio per Annozero, una trasmissione in cui lui solo possa stabilire chi abbia il diritto di essere presente e di parlare. Su una rete televisiva del servizio pubblico, infatti, Travaglio pretenderebbe di poter leggere, senza interruzioni e repliche, il consueto bollettino delle procure e di insinuare, senza contraddittorio, le peggiori nefandezze verso la parte politica che detesta. Una sceneggiata tra i due in cui finisce che Santoro, che gli regge la coda, debba ricordargli che per par condicio, nei periodi che precedono le elezioni, debba essere dato all’altra parte l’ugual tempo di parola. Cosa evidentemente strana per i due! Il tono è quello di additare la cosa come un metodo di democrazia e di pluralismo perverso, ma imposto. Il colpo da maestro del conduttore sta nella finta spocchia di sostenere di poter far a meno della presenza in trasmissione del giornalista travagliato dai rigori della legge, se questi non è poi disposto a sottostare a questo obbligo (così bifolco) che favorisce Berlusconi.
E’ delirio! Non si può spiegare diversamente: delirio di onnipotenza dei due. E’ roba da Minculpop! Si vorrebbe una doppia legge, dopo la presenza di una doppia morale. Spunta una doppiezza che è del tutto simile a quella della scuola di pensiero dell’infallibilità ideologica che, nell’Italia post fascista, aveva preso corpo con grande arroganza. In questa pretesa aleggia un concetto molto strano di democrazia e di pluralismo che ci ricorda anche il rapporto che c’è tra Di Pietro e la giustizia. Chissà perché!?
A proposito di libertà e di comunicazione, il 3 ottobre dello scorso anno, è stata celebrata a Roma la più grande manifestazione dell’ipocrisia. Un evento da segnalare per il guinness dei primati. Una manifestazione per la libertà di stampa dai risvolti inverosimili e contraddittori. Una manifestazione, indetta dalla federazione della stampa, per lamentare pericoli per la libertà di informazione perché un leader politico, sentitosi diffamato, ha risposto con l’unico mezzo lecito che un cittadino ha a disposizione per difendersi dalla diffamazione a mezzo stampa: il ricorso alla carta bollata. Una manifestazione indetta contro il diritto!
Sarebbe come dire che se si ricevesse una multa per divieto di sosta a Roma, mentre si è a Milano con la propria autovettura, e si facesse ricorso al giudice di pace per difendersi da ciò che si ritiene ingiusto, i vigili urbani di Roma si sentissero legittimati a scatenare una manifestazione di protesta contro l’arroganza di chi voglia far valere in modo civile le proprie ragioni. Non sarebbe solo un controsenso, ma una vera aberrazione della logica, un attentato all’intelligenza ed al buonsenso.
Una manifestazione indetta per lamentare l’esercizio di un diritto, sostenendo che rappresenti un tentativo di intimidazione è, al contrario, una forma di intimidazione. La manifestazione a Piazza del Popolo a Roma era, infatti, un’intimidazione: serviva ad alzare i toni in vista del voto in Europa su una mozione diffamatoria verso il nostro Paese, in cui si alludeva al bavaglio imposto dal Governo alla libertà di informazione.
Ora si litiga sull’applicazione della “par condicio”. Una legge studiata e voluta per togliere spazio al grande comunicatore Berlusconi. Si sono accorti, però, che non impedisce di replicare alle calunnie e che ostacola l’uso della tv pubblica alla pari di una fossa di leoni addestrati a sbranare gli avversari-nemici politici.
Si Suggerisce, in alternativa, la par condicio applicata al pensiero: una legge che imponga il divieto di pensare al deficit di democrazia, avvertito in Italia, per una sinistra immatura e con grosse lacune liberali.
Vito Schepisi

22 febbraio 2010

L'Italia "gelatinosa"


Dicono che ci sia oggi un’Italia “gelatinosa” che si spande sull’intero territorio nazionale. Ma se è l’Italia di sempre! La stessa, altrettanto “gelatinosa”, che ha avuto illustri esempi in ogni suo settore di attività, magistratura compresa, ieri come oggi. Questa è la stessa Italia degli amici, e degli amici degli amici. E’ l’Italia di chi tiene famiglia: dal poliziotto al politico, dal funzionario al ministro, dal capo popolo al capo partito. E c’è chi ha avuto anche l’avventura di percorrere tutti questi ruoli! E’ il Paese delle diverse massonerie, ufficiali o meno, di osservanza o meno, di loggia, di circolo, di club, di casta.
Il nostro è un Paese dove nel ruolo di referenti, per distribuire gli appalti, agiscono le consorterie di partito, le cellule, le aree politico-amministrative, le cordate, le cupole, le rappresentanze sociali, le corporazioni, le cordate editoriali, i boss. Tutti con le più ramificate compiacenze.
Verrebbe da dire: avanti popolo che c’è posto per tutti, purché si abbiano i giusti peli nello stomaco.
E’ la storia di sempre, nessuna novità! E’ la storia che la magistratura, ponendosi come controparte politica, mostra di non voler superare e sconfiggere. Il malaffare è, infatti, lo strumento che serve a tenere in tensione la macchina dell’abuso, del privilegio, del ricatto e della doppia misura. E’ il contrario della buona saggezza dell’essere comprensivo con i deboli ed inflessibile con i prepotenti. Ciò che conta per alcuni è il possesso dello strumento. E’ l’uso e l’abuso del potere che intimorisce e che si abbatte. Da qui il gioco delle insinuazioni e del fango che condizionano ed indeboliscono la forza esercitata dal consenso popolare. E’ una battaglia che serve alla guerra infinita della conservazione dei privilegi e del potere. Tutto si dispiega come nelle puntate precedenti. Tutto come è accaduto con mani pulite quando, invece che il malaffare, si è voluto ribaltare il corso politico del Paese.
Di davvero libero in Italia c’è rimasto ben poco. Senza il consenso dei “padrini”, è raro poter lavorare e produrre. Lo si percepisce comunemente chiacchierando per strada, negli uffici, con i conoscenti, con gli amici. Ma, al di là dei soliti pettegolezzi e delle sussurrate dicerie, oltre ai luoghi comuni, oltre all’abitudine populista di individuare nella classe politica l’origine del malaffare, spesso non si percepisce la dimensione di un “grande fratello” che controlla, che regola e che condiziona. C’è chi non vuole o non riesce a comprendere il sistema delle cupole a presidio del controllo sistematico del territorio, finalizzato al consenso politico e la rete della gestione funzionale nei diversi settori dei servizi di pubblica utilità, dalla sanità ai lavori pubblici, dallo smaltimento dei rifiuti ai trasporti, etc. Ma capita anche che la magistratura che individua il sistema viene intimidita e viene spinta al silenzio, com’è accaduto in Puglia.
Non è un caso che dappertutto, al sud come al nord, intercettando gli imprenditori ed i responsabili delle imprese che si aggiudicano gli appalti, siano spuntati i riferimenti ai personaggi delle istituzioni, funzionali o politici che siano, come gli “agevolatori” politici o burocratici.
Dove non c’è la rete “gelatinosa” della politica, dei faccendieri e dei comis di Stato, c’è la criminalità organizzata, ma non è difficile che si verifichi che ci siano sia l’una che l’altra insieme.
In tutti i campi da quello tecnico a quello politico, da quello economico a quello editoriale ed industriale, le cordate dei gruppi di pressione privi di scrupoli non sono soltanto il parto fantasioso ed ideologico dell’antipolitica pregiudiziale. Non sono sempre le fantasie goliardiche e viscerali dei soliti grillini strafottenti, frustrati e privi di lucide proposte politiche. C’è in Italia un magma incandescente che erutta e travolge tutto. Una forza malvagia che si serve anche delle tragedie e del dolore del Paese per trarne profitto. E’ un magma che erutta dai crateri che covano nel cinismo malvagio di amministrazioni, di segreterie politiche, di cooperative, di aziende, di pacchetti azionari, di cordate editoriali, di dirigenti e funzionari del pubblico impiego. In tutti coloro che, a vario titolo, e con differenti obiettivi, intrecciano i loro interessi particolari, singoli o collettivi, col sistema funzionale del Paese. C’è una fauna composta da una razza di feroci sciacalli umani affamati di lusso e di successo. Li vediamo in tv, in Parlamento, sui giornali o nascosti all’ombra dei loro padrini.
L’organizzazione verticistica di controllo e di smistamento degli appalti è trasversale per territorio, per collocazione politica e per classi sociali, ma appare quasi sempre legata ad un’ossatura più complessa del sistema di gestione delle opere pubbliche. Non sempre, però, il marcio parte dalla testa, l’infezione si sviluppa anche nel corpo. E’un male endemico che non si riesce a curare perché vengono ineluttabilmente posti ostacoli alle disinfestazioni necessarie a sconfiggerne la diffusione.
Il marcio in Italia è in un sistema che è stato realizzato perché riuscisse ad imbrigliare e condizionare ogni cosa. Perché si trasformasse in potere. E’ risaputo che la mafia cerca sempre di annidarsi nelle strutture e nella macchina funzionale dello Stato. Sempre da lì parte l’attacco alla politica, al suo coinvolgimento ed al suo condizionamento. Senza l’attività grigia e vischiosa di quella massa gelatinosa in cui si muove la burocrazia pubblica, la mafia perderebbe definitivamente la sua partita. Alla mafia serve, infatti, il controllo della burocrazia che freni, che acceleri, che blocchi, che condizioni, che smisti e che appalti i lavori: senza questo potere sarebbe molto più vulnerabile.
Vito Schepisi

19 febbraio 2010

Lo stucchevole valzer delle dimissioni



Il valzer delle dimissioni, sollecitate, date e richieste, accettate o respinte, minacciate ed intimate, è diventato un ballo stucchevole. Sarebbe bene chiarire un principio che, se non può essere emanato come una regola scritta, dovrebbe valere come l’assunzione di un comportamento da definire, per ipotesi, corretto. Un principio a cui, per forza di cose, non può che essere facoltativo attenersi, fatti salvi gli obblighi di legge, quali i provvedimenti restrittivi o detentivi adottati dalle autorità preposte alle funzioni giurisdizionali, e/o i rapporti di fiducia con la collegialità degli aventi causa nei ruoli di gestione ricoperti.
Il principio è che le dimissioni siano rassegnate solo da coloro che hanno responsabilità dirette negli addebiti mossi. Negli altri casi, in ciò che invece possono essere definite, ad esempio, come responsabilità politiche o funzionali, sarebbe utile e necessario distinguere e valutare caso per caso. Non può, infatti, sfuggire, la presenza di ruoli che si riferiscono al nostro sistema democratico ed al dovere dell’esercizio della delega ricevuta dagli elettori, sempre che gli interessati siano fuori dal diretto coinvolgimento,
Naturalmente questo principio deve far appello alle coscienze delle persone coinvolte e dovrebbe costituire un aggravante morale, prima che penale, qualora i fatti dimostrino, successivamente, responsabilità di illeciti, tenute nascoste, e certezze giuridiche arrivate definitivamente a sentenza.
Non può che essere così! In caso contrario sarebbe la jungla. Basterebbe sollevare chiacchiericci su di una persona o basterebbe un magistrato scorretto a modificare l’assetto politico e funzionale del Paese.
Diversamente, sarebbe come piacerebbe a Di Pietro per i suoi avversari, ma non per i suoi amici e compagni, familiari compresi. Come vorrebbe il leader dell’Idv con la sua gente, i suoi sodali, con i suoi più o meno interessati sostenitori. Il sogno, non tanto misterioso, dell’ex PM di Mani Pulite, di un governo autoritario, senza garanzie democratiche, dominato dall’arroganza verbale, dalla violenza giudiziaria, dal pregiudizio morale e dall’intolleranza politica. Un sistema senza diritti, senza garanzie, senza presunzione di innocenza e con la casta dei giudici che ipotizzino i reati e contestualmente emettano le sentenze, naturalmente senza concedere possibilità di appello, soprattutto a coloro che considerano “nemici” politici.
Non si può prescindere, invece, dalle scelte irreversibili della democrazia. Si è parlato tanto di lotta di liberazione e di antifascismo! Non si può prescindere dalla necessità, in un sistema rappresentativo con le regole sancite dalla Costituzione, di poter esercitare, in forza del consenso ottenuto, le responsabilità di governo. C’è, infatti, il dovere morale, oltre che costituzionale, nel rispetto della sovranità popolare, di esercitare il mandato ricevuto dagli elettori. Ed il mandato elettorale è sempre congiunto ad un preciso indirizzo politico e programmatico. Il diritto di pronunciarsi nel merito, il diritto di fare le scelte, anche se per delega, spetta solo al popolo, e senza indebite ed eversive interferenze.
C’è anche il diritto di tutti di trarre le proprie conclusioni. Ma se la stampa è libera di trarre le proprie, nei limiti del diritto all’informazione, non altrettanto così deve accadere per iniziativa delle funzioni dello Stato. Le ipotesi fantasiose e le ricostruzioni prive di riscontro si intromettono, infatti, con grave pregiudizio, nella vita privata delle persone coinvolte, trasferendo nell’opinione pubblica inquietudine e pregiudizio. La morbosa sensazione della presenza dei vizi privati prevale sempre nell’immaginario collettivo, anche dinanzi alle pubbliche virtù. E’ propria della debolezza umana, infatti, l’abitudine di lasciarsi trasportare nel pregiudizio, dinanzi al consolidato concetto del “mostro” sbattuto in prima pagina. Lo constatiamo, con disappunto, con il Dr.Bertolaso a cui, per iniziative giudiziarie, sono state attribuite ipotesi fantasiose che hanno scatenato la campagna di delegittimazione di alcuni giornali e politici, apparsi interessati a veder sbiadire l’immagine di colui che è diventato un simbolo dell’efficienza del Governo di Silvio Berlusconi.
La responsabilità giuridica è sempre individuale, mentre quella politica, molto spesso, attiene alle responsabilità di terzi. E’ bene tenerlo sempre presente. E’ anche bene, inoltre, che si sappia che l’esecuzione delle opere pubbliche avviene per il tramite operativo di una rete di funzionari e di alti dirigenti ministeriali, alcuni dei quali messi a quei posti proprio da coloro che oggi più alzano la voce nel chiedere le dimissioni di Bertolaso. Ci sarebbe da chiedersi, invece, a cosa nel passato questa dirigenza sia stata funzionale.
C’è un clima, che ci preme denunciare, di reiterate e puntuali campagne di delegittimazione che, oramai, come le stagioni, partono a date ben calendarizzate.
Vito Schepisi

12 febbraio 2010

Informazione, comunicazione politica e servizio pubblico


Chiariamo subito alcune cose. La par condicio è una pessima legge perché non assicura affatto la partecipazione equilibrata dei partiti, non aiuta alla chiarezza, agevola la frammentazione, pone sullo stesso piano forze politiche con diversa rilevanza popolare, arricchisce a dismisura le emittenti private a diffusione locale, soffoca la comunicazione politica.
Le Tv che non trasmettono su tutto il territorio nazionale, piccole o grandi che siano, sono fuori dall’obbligo delle misure restrittive poste invece, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alle emittenti a diffusione nazionale. E già questa diversità, se si parla di par condicio, dovrebbe rappresentare un problema, specialmente quando si svolgono elezioni di tipo amministrativo, come le prossime regionali.
La par condicio non contribuisce affatto al pluralismo dell’informazione, né, come si è detto, all’equilibrio quantitativo della comunicazione politica. Non serve neanche alla moralizzazione ed alla trasparenza, perché proietta la comunicazione su altre fonti di diffusione, a volte più costose e meno rispettose dell’ambiente, ed induce molti competitori all’uso indiscriminato degli spazi di affissione che, in particolare al sud, sono spesso infiltrati dalla malavita.
Un’altra cosa da chiarire riguarda la stranezza di un costume di gestione per la tv pubblica. E’ inquietante, infatti, pensare che si renda necessaria un’apposita legge ed un preventivo regolamento per assicurare a tutti l’equilibrio ed il pluralismo delle informazioni politiche in un servizio pubblico. E’come dire, ad esempio, che per le Trenitalia si debba fare una legge che assicuri a tutti i viaggiatori, senza distinzioni, di poter partire da una stazione ferroviaria e di poter raggiungere una qualsiasi altra stazione ferroviaria. La neutralità del servizio pubblico rispetto all’utenza, infatti, dovrebbe essere il primo fondamentale valore da rispettare.
Per i servizi della Rai, ente pubblico, per il quale si rende necessario anche il pagamento di una tassa annuale, c’è invece una legge ed un regolamento, predisposto dal Comitato interparlamentare di Vigilanza, che vale solo in periodo elettorale. Sia la legge che il regolamento si renderebbero - così pare - necessari per l’offerta pluralista del servizio pubblico. Come se fosse possibile, invece, in altro momento, disattendere all’obbligo della imparzialità. E’ una questione che deve indurre a riflettere sul ruolo corretto di una tv pubblica che valga per sempre e per tutti!
Viene da se che un pubblico servizio, se gestito in modo parziale e se fa discriminazioni, sia al di fuori di un sistema di democrazia liberale. L’informazione richiede sempre la pluralità delle opinioni e deve mantenersi in modo leale, e per necessaria abitudine, nello spazio del confronto corretto e nella garanzia della neutralità arbitrale dei suoi conduttori. E’ in questo modo che il servizio pubblico garantisce la professionalità dei suoi dipendenti e l’effettiva scelta di un metodo democratico nel suo utilizzo.
Anche la comunicazione politica di parte deve avere l’equilibrio dei suoi spazi, perché sia garantito sempre un rapporto corretto tra maggioranza ed opposizione e perché all’interno siano rappresentate tutte le componenti. E’semplicemente assurdo, infatti, pensare che se la maggioranza, o viceversa l’opposizione, sia rappresentata da un solo partito, debba essere penalizzata rispetto alla parte avversa che, qualora sia rappresentata da un numero superiore di partiti, possa avere spazi tante volte superiori. La frammentazione non aiuta a capire, spesso invece, al contrario, contribuisce a confondere.
Una televisione faziosa finisce col diventare il luogo del tifo di tipo sportivo ove non prevalgono le ragioni delle diverse idee da diffondere, ma solo l’opportunità di una parte per disseminare trappole ed imboscate da utilizzare contro l’avversario politico. Alcune trasmissioni sembrano più campi minati, organizzate per far saltare all’aria le ragioni politiche dell’avversario, se non per cercare d’affossarlo del tutto.
Si assiste, inoltre, sempre più spesso, a trasmissioni organizzate contro una persona, ci si intromette nella sua vita privata, persino in quella coniugale. Dovrebbe essere assurdo che ciò avvenga in un contenitore del servizio pubblico, ma avviene! Anche con la presenza di ospiti discutibili, che assurgono al ruolo di eroi.
Non si dovrebbe invece consentire, per il rispetto che si deve alle scelte personali, alle idee ed alla dignità di tutti i cittadini, che nelle trasmissioni di approfondimento si indichi qualcuno, non più come un competitore politico, non più come un portatore di idee e di programmi differenti, ovvero un responsabile di provvedimenti e soluzioni di governo adottate, ma come un vero nemico da abbattere.
E’ un po’ come succede nelle campagne d’odio che i regimi autoritari e repressivi sollevano per delegittimare il dissenso. Solo che da noi lo stesso metodo viene utilizzato per delegittimare il consenso. Ed appare così tanta l’abitudine al metodo della intolleranza e del pregiudizio ideologico, che in certe occasioni si finisce col dissentire dai sentimenti del popolo. Il che non è poi una grande lotta per i diritti degli oppressi, come si vorrebbe invece far credere.
Superata anche questa prossima prova elettorale, si dovrebbe guardare con maggiore attenzione, e nel suo complesso, al mondo dell’informazione. Due gli obiettivi: liberalizzarla e responsabilizzarla.
Le enormi risorse pubbliche impiegate, generalmente in modo distorto ed inutile, mortificano le tante potenzialità di pluralismo effettivo, mentre esistono tanti protagonismi che, in nome della libertà d’informazione, fanno invece disinformazione con i soldi dei contribuenti.
Vito Schepisi

09 febbraio 2010

La giustizia in mano ai pentiti


C’è di che essere inquieti per ciò che, coinvolgendo il partito fondato da Silvio Berlusconi, ha detto in tribunale, a Palermo, Ciancimino Junior. Ci si chiede per quanto tempo ancora la reazione della magistratura politica vorrà sottoporre a gogna giudiziaria il partito di Forza Italia che nel ‘94 ebbe l’ardire, d’un sol colpo, alla prima uscita, da Milano a Trapani, d’essere indicato dagli elettori come partito di maggioranza relativa.
Il nuovo soggetto politico nel ‘94 era sorto per sottrarre l’Italia, mentre il vecchio socialismo reale precipitava nella vergogna del suo fallimento, dalla presa già data per acquisita dei post comunisti italiani. Il partito che si ispirava alla libertà ed al buongoverno e che, in coalizione con la Lega di Bossi al nord e con Alleanza Nazionale al sud, nell’anno della “macchina da Guerra” di Occhetto, aveva sottratto il giocattolo premio, rilasciato dal pool di mani pulite, dalle mani ancora sporche di rosso per averle ripetutamente strette, senza provare ribrezzo, con cinismo e supponenza morale, a quelle macchiatesi del sangue degli oppressi nei paesi del dominio sovietico.
Sembra che non si lasci niente di intentato nell’ordito di vendetta contro Berlusconi, si prova di tutto per metterla a segno, finanche in modo trasversale, per aver questi osato contendere alle caste, alle famiglie dei salotti buoni d’Italia ed ai gruppi di potere mediatico, industriale, finanziario e burocratico, il governo del Paese. Berlusconi è reo d’aver osato abbattere il controllo autoritario che, dopo la caduta del fascismo, era stato assunto con logica spartitoria dal consociativismo partitico, sindacale, industriale e confessionale.
C’è una voglia di vendetta che si estende anche agli elettori che sostengono oggi il Pdl, dopo aver sostenuto in passato FI, attratti dalla visione moderata di un partito che ha assolto un ruolo di forza centrale nella dialettica politica italiana, per la sua interpretazione equilibrata delle istanze popolari e dei bisogni del Paese. Il 2009 ed il 2010 sono gli anni che, dopo le politiche del 2008, hanno segnato e segnano importanti appuntamenti politici, e che hanno visto e vedono una strategia d’insieme messa in campo con accanimento e violenza giudiziaria senza precedenti. Le dichiarazioni di Ciancimino a Palermo fanno un tutt’uno ben calibrato con quelle di Spatuzza a Torino. Il filo conduttore dei magistrati di Palermo sembra quello di legare Berlusconi ad un teorema, tanto assurdo quanto irreale, che lo vedrebbe ispiratore e mandante delle stragi mafiose del 1992 (due anni prima che Berlusconi entrasse in politica), nonché colluso con le attività di mafia ed interlocutore politico per i patteggiamenti della mafia con lo Stato, miranti ad ottenere salvacondotti per il controllo mafioso del territorio e per la gestione della rete di affari economici in Italia.
Un teorema assurdo che, prima che dai riscontri oggettivi, è smentito dai fatti e dall’azione parlamentare e di governo di Forza Italia, di Berlusconi, del Pdl e degli uomini che si sono assunti responsabilità politiche e amministrative nel partito di Berlusconi.
All’attacco sul versante penale si è associata nel 2009 una sentenza civile di cui sfuggono le motivazioni logiche, e la cui imponenza economica spaventa. Una sentenza di risarcimento da capogiro a danno di una azienda. Un pronunciamento, immediatamente esecutivo, di un giudice unico, le cui simpatie politiche sono emerse senza ombre di dubbio, che comporterebbe il pagamento di ben 750 milioni di Euro a favore dell’avversario storico di Berlusconi: quel Carlo de Benedetti che è l’editore dei giornali “La Repubblica” e “L’Espresso” che da anni conducono una campagna senza risparmio di inchiostro, e soprattutto senza risparmiare contenuti ed occasioni contro Berlusconi.
Se la magistratura debba parlare con le sentenze, nessuno si è mai accorto che sia mai stato così. Eravamo abituati ad ascoltare i magistrati che parlavano dappertutto: sui giornali, nelle tv, nei convegni e nei salotti d’Italia. Ora parlano anche attraverso i pentiti. C’è qualcuno che si è assunto la delega di prendere il loro posto. Ci sono i pentiti che parlano e dicono ciò che neanche i magistrati hanno osato finora dire.
La Giustizia è ora in mano ai presunti pentiti. Si consente in Italia, senza riscontri oggettivi, e con una ben orchestrata scena mediatica, in cui non mancano gli annunci e le puntate, come per le fiction tv, di gettare fango non solo sugli uomini che hanno il consenso degli elettori, ma anche sugli italiani che per rispetto dei diritti e doveri previsti dalla Costituzione, ed assolvendo ad un diritto civile di grande rilevanza sociale, aderiscono ad un partito politico. E’ troppo!
Vito Schepisi

05 febbraio 2010

Vendola e Zapatero


Forse non tutti ricorderanno quando la Spagna di Zapatero nel dicembre del 2007 gareggiava con l’Italia sul Pil, vantando di aver ingranato la marcia giusta e di essere in corsia di sorpasso. Anche quella era una bufala, esattamente come quella di Prodi che diceva di aver sistemato i conti in Italia.
L’Italia nel 2006, dopo che il centrosinistra, per 24.000 voti in più, aveva vinto (?) le elezioni, governava il Paese e dominava la scena, occupandola dalla platea al loggione, sistemava i conti solo grazie alla finanziaria 2006 di Tremonti. L’Italia era, infatti, sufficientemente rientrata nei parametri di Maastricht. La maggior incidenza della spesa era dovuta solo al rimborso iva sulle vetture aziendali, per decisione della Corte europea, e riferito agli accumuli negli esercizi precedenti.
Il salasso fiscale del duo Padoa Schioppa - Visco, nella finanziaria 2006, era servito, invece, a finanziare le clientele, a dare soldi alla Fiat ed al capitalismo amico, ad accontentare i pensionati di Bertinotti che potettero uscire dal lavoro un anno e mezzo prima (costo 10 miliardi di Euro).
A sinistra la sindrome dell’autoesaltazione è una patologia comune e diffusa. Anche le bufale sono ben contraffatte, come spesso accade per le famose mozzarelle campane.
La Spagna di Zapatero, nel 2007, era, invece, ben lontana dal Pil italiano e, come quella sinistra fanfarona, demagogica e mistificatrice, che ben conosciamo in Italia, puntava all’effetto annuncio. Un po’ come, con tutto il rispetto per Zapatero, fa Vendola in Puglia, i cui discorsi sono del tutto fumosi, privi di proposte ed effetti concreti, spesso limitati a sollevare polveroni ed a dar corso a battaglie ideologiche.
La Spagna di Zapatero è infatti allo sfascio, almeno quanto lo è la Puglia di Vendola. La bolla immobiliare, che già nel 2007 aveva manifestato i suoi sintomi, è ora deflagrata e la disoccupazione supera il 20%.
Anche in Puglia ci sono i sintomi della sfascio produttivo - industriale e la disoccupazione ha superato il livello di guardia. I servizi sociali sono al collasso, l’economia è ferma, le aziende chiudono, il territorio è in degrado, mentre la sanità macina debiti e brilla per episodi di malcostume e di cattiva gestione.
A quei tempi, nel 2007, in Spagna il filo, neanche troppo sottile, che separava la realtà dall’effetto annuncio, era stato il raffronto del Pil pro capite, ipotizzando la parità del potere di acquisto calcolato sul livello generale dei prezzi delle due economie. Come dire che il Pil pro capite di un paese della Lucania o della Calabria, ad esempio, sia superiore a quello di Milano. E solo perché i prezzi, dagli immobili ai prodotti agricoli e alimentari; dall’abbigliamento a quelli strumentali ed artigianali, in molti paesi del sud sono più contenuti di quelli delle grandi città del nord.
Quanto siano effimere le esaltazioni populiste di certi capipopolo di sinistra le valutiamo ora. C’era stato in Spagna un grande impegno, ai tempi di Aznar, per recuperare terreno nei confronti degli altri paesi europei. Erano state adottate politiche di buona visione prospettica, coerenti nel favorire la produzione e, attraverso questa, l’occupazione, e nell’usare la leva fiscale. Erano stati realizzati piani di infrastrutture logistiche e strumentali per poter uscire dallo stato di economia preindustriale ed affacciarsi a quello di società europea, con aree di mercato conquistate e con l’allargamento dell’offerta concorrenziale delle merci.
In Spagna questo processo è stato interrotto con Zapatero. E’ stato interrotto con l'inaspettato prevalere della sinistra nelle elezioni spagnole del marzo del 2004. Il successo elettorale era maturato dopo una gestione problematica, da parte del Governo di Aznar, del violento attacco terroristico dell’11 marzo 2004 a Madrid, 3 giorni prima delle elezioni, con circa 200 morti ed oltre 2000 feriti. Si può affermare che Zapatero abbia interrotto un ciclo virtuoso, ed è facile dirlo ora che in Spagna prevalgono sintomi di profonda crisi economica ed i pericoli di un grave collasso sociale.
Si può, ora, con facilità sostenere che in Spagna, più che i matrimoni gay, il governo avrebbe dovuto seguire la crescita dell’economia con politiche di rafforzamento della produzione e di allargamento dei mercati. Alla prima crisi mondiale, infatti, il paese iberico non ha retto. Zapataero e la sinistra spagnola hanno così disilluso quanti avevano ritenuto che si potessero introdurre politiche sociali di spesa, senza il sostegno di una forte economia. La logica dell’economia non può, però, solo appartenere alla retorica delle recriminazioni, ma deve anche avere un valore propositivo, soprattutto dovrebbe servire ad ammonire quanti ritengono che di certi principi se ne possa fare a meno. Questo vale in Spagna, come in Italia, e nel caso anche in Puglia, dove s’avverte la presenza di una sinistra ideologica e populista.
In Puglia sembra che permanga invece il senso di una illusione messianica: ed è l’esatta sensazione che prevaleva nella Spagna di Zapatero. In Puglia c’è chi pensa che tutto debba avvenire per obbligo del destino. Ma non è così! Attenzione che non è così! Le conseguenze poi le pagano le generazioni future: abbiamo già sottratto tantissimo ai nostri figli, più di quanto fosse necessario e sostenibile.
In Puglia si prova a far pensare che persino il malaffare debba essere visto con occhio diverso, e debba essere considerato persino virtuoso. Lo stesso metodo che abbiamo visto a Napoli, nel Lazio, a Bologna dove la morale prova sempre a sdoppiarsi. Ma attenzione che non è così! Si sdoppia solo l’ipocrisia e la faziosità!
Non vale per tutti a Bari, ad esempio, come accade invece a Milano, il “non poteva non sapere”, ed in Puglia la giustizia non è detto che debba necessariamente fare il suo corso e che sia insindacabile. Se entra nei santuari del “politicamente corretto”, la reazione si sente. Eccome!
Nella Puglia di Vendola si avverte la presenza di una rete che occupa il territorio. Una rete che illude, che spende, che promette, che alimenta le clientele e sistema gli amici. L’ha rilevato la magistratura che ha parlato di cupole di controllo del territorio, eppure sembra che la furbizia prevalga attraverso apparati ben oleati (terra di ulivi e di olio la Puglia!) che travolgono il senso delle cose e che travisano la realtà. Tutto continua come prima, la macchina è in moto da tempo, almeno da 5 anni e non accenna a fermarsi. C’è, nell’apparato di Vendola, una macchina elettorale che mantiene accesi i motori in eterno, un congegno prospettico che macina voti, che se ne infischia della magistratura e che travolge tutto. Anche le coscienze!
Attenzione, però, perché le illusioni si pagano, come sta accadendo alla Spagna di Zapatero!
Vito Schepisi

01 febbraio 2010

Un voto utile e intelligente



Tra meno di due mesi si vota. Si vota per il rinnovo dei presidenti e dei consigli regionali. Si vota su tutto il territorio nazionale, eccetto le regioni autonome. Eccetto anche l’Abruzzo dove, come si ricorderà, si è votato di recente per sostituire il dimissionario Ottaviano Del Turco, l’ex sindacalista e segretario socialista, impallinato da una magistratura troppo frettolosa e, forse, troppo presuntuosa ed arrogante, e lasciato solo, come capro espiatorio, dal suo stesso partito.
Il voto in Italia, che sia per il Parlamento, per i comuni, per le province o per le regioni, si colora sempre dei grandi temi della politica. L’impronta della competizione partitica si spande su ogni cosa, come una macchia d’olio, anche per eleggere il presidente del circolo amici del tre sette.
Dai risultati delle diverse elezioni, tra una scadenza e l’altra della legislatura parlamentare, si misurano sia il gradimento dei governi, sia l’equilibrio delle coalizioni ed il loro rapporto di forze, sia le strategie programmatiche. Il voto locale finisce così sempre per essere influenzato dalla passione ideologica, dalle complessive scelte economiche e sociali del Paese e dalla popolarità dei grandi protagonisti della politica. Non è sempre un bene, al contrario è un male se poi vengono accantonate le motivazioni locali, se poi non si analizza la gestione passata, se poi l’analisi dei risultati non è utile per promuovere i protagonisti virtuosi o per rispedire all’opposizione, o a casa, i più inefficienti e spreconi, ed i più furbastri.
Occorrerebbe soffermarsi su alcune amministrazioni regionali, come quelle della Puglia, della Calabria, del Lazio o della Campania, per comprendere quanto, invece, debbano essere sanzionati dal giudizio degli elettori i fallimenti rilevati, e nondimeno quanto falsi e strumentali siano stati alcuni osannati progetti politici. Analizzando i risultati e gli esiti della decantata etica amministrativa di alcuni protagonisti si può, persino, comprendere quanto siano stati falsi e pretestuosi i tentativi di ostentare una presunta superiorità morale, da far valere come maggior motivazione nelle scelte, ovvero quanto siano stati illusori e privi di effettivo riscontro i richiami all’erogazione dei servizi sociali, quali caratteristiche peculiari e qualificanti del progetto politico di quella sinistra che si propone per la guida del Paese.
Mai come in questi ultimi anni, dall’epoca di tangentopoli in poi, la questione morale è stata sollevata, soprattutto verso le amministrazioni di sinistra, con tanta ripetitiva periodicità e con tanta diffusa collocazione geografica, motivando moti di disappunto e di giustificata inquietudine nei cittadini. Mai, infatti, il bisogno sociale, le questioni igieniche delle città e dei territori, la pietà verso chi soffre, gli sprechi ed i privilegi degli amministratori e delle loro collegate clientele, gli abusi ed il cinismo di alcuni, persino il degrado manifestato con le richieste di prestazioni sessuali, come contropartita per un andazzo in cui si mercificavano anche i diritti, hanno rappresentato un così rilevante ventaglio di criticità morale. Mai ci si è trovati dinanzi ad un andazzo amministrativo di così riprovevole ed arrogante mortificazione sociale
Tra poco meno di due mesi si vota. Si dovrebbe chiedere al corpo elettorale un voto utile ed intelligente. Per utilità ed intelligenza si intende, da una parte, rivolgersi ad indicazioni che abbiano effettiva possibilità di modificare il quadro politico di una regione, per respingere la cattiva politica, e, dall’altra, esercitare il proprio diritto di voto, senza farsi obnubilare dal pregiudizio politico.
Occorrerebbe un voto selettivo, un voto che serva per promuovere, ovvero per bocciare il bilancio consuntivo dei risultati ottenuti, regione per regione. Un capitolo a parte richiederebbe la Puglia, dove Casini si è messo di mezzo. In Puglia, più che altrove, si presenta la necessità del voto utile per contrastare l’azione dell’Udc che ostacola il successo del centrodestra, e che può agevolare Vendola, al cui fallimento morale e politico mancano solo i libri in tribunale.
Vito Schepisi