16 dicembre 2010

La triplice alleanza

E poi arrivò Cicciobello! E così Pierfurby, Gianfrego e Cicciobello hanno siglato una nuova intesa: la triplice alleanza. È la gestazione di un nuovo polo, quasi un altro gruppo parlamentare, forse domani un nuovo partito chiamato Alleanza per la Nazione. Sullo sfondo c’è tanto vecchio che si ricicla. Tra loro, c’è anche La Malfa.

Molti dei protagonisti sono i navigatori inquieti della politica italiana. Da Rutelli a Fini, hanno militato, fondato, rimosso e poi composto e scomposto più partiti e alleanze loro, di quante siano state tutte le composizioni e scomposizioni politiche dal dopoguerra in poi.

Il patto tra i leaders di questi partiti minori, per lo più scissionisti e di variegata provenienza, nasce col proposito d’essere da riferimento per chi dissente dallo scontro culturale e politico tra centrodestra e sinistra. In verità, per i propositi e per lo strabismo della loro collocazione politica, fermamente ed istericamente all’opposizione, contro il governo ed a fianco del PD, in definitiva appaiono e sono soltanto contro Berlusconi. Lo sono per varie ragioni, persino per la tempistica della loro iniziativa, lo sono per ambizione, per ragioni di concorrenza e per risentimento.

Tutti considerano il premier come unico e vero bersaglio. Tutti lo additano come il nemico, come se per timore di apparire velleitari e superflui sentano di dover reagire e di provare a difendersi.

Se Rutelli, Casini, Fini, La Malfa, Mpa, Guzzanti e altri che rappresentano solo se stessi, sostengono di essere alternativi sia al Pdl che alla sinistra, in verità non è affatto così. Si uniscono per contrapporsi a Berlusconi e al centrodestra. Mirano solo alla caduta del Cavaliere. E sono, invece, osservati dal PD con interesse. I protagonisti della nuova Alleanza ne sono consapevoli e se ne vantano: si sentono, persino, gratificati dai commenti positivi, ma non certo disinteressati, dei leaders della sinistra. Nel PD non si fa sentire nessuna presa di distanza e nessun distinguo, fossero anche per ovvie ragioni di concorrenza, ma solo un coro unanime di soddisfazione e di auspicio. E’ evidente che il Pd trova nell’azione dei “congiurati” gli stimoli per il proprio rilancio.

Dopo tutti gli espedienti falliti per liberarsi del leader del Pdl, senza mettere in campo alcun merito, continuando a non manifestare grandi idee e senza riscuotere enormi consensi popolari, dopo averle provate proprio tutte, dal tentativo dell’aggressione giudiziaria, a quella dell’utile idiota da scaricare rapidamente, a quella del fango e del gossip, nel PD sembra che ora si vada a consolidare l’idea di un nuovo e diverso percorso per sottrarre consensi elettorali a Berlusconi.

Nel partito più confuso d’Italia, non si cerca di acquisire consensi più larghi, introducendo politiche di maggiore coerenza e di più ampio respiro popolare, si pensa solo a sottrarre voti al “nemico”. Nel Pd c’è chi immagina di potersi ora servire di un’Armata Brancaleone, capeggiata da avventurieri di diversa provenienza, per raggiungere l’obiettivo di sedici anni di battaglie politiche. Gli strateghi della sinistra “impossibile” immaginano che, sfruttando l’astio personale e le smodate ambizioni di alcuni, in definitiva esca un buon lavoro per loro.

Nel PD, e le dichiarazioni di D’Alema lo confermano, s’è accesa una fiammella di speranza per spaccare l’area moderata del Paese e per vincere le elezioni: un po’ come fece Mussolini che realizzò il trionfo del suo fascismo sulle ceneri delle contrapposizioni tra le forze democratiche, liberali e popolari del Paese.

C’è da cogliere una conclusione storica che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata impensabile. Nessuno avrebbe, infatti, immaginato che una parte di quegli uomini che hanno raccolto la tradizione e i sentimenti dell’Italia fascista, trasformandoli in valori nazionali e patriottici, poi trovasse applausi nella parte politica che ha ereditato, invece, i sentimenti del massimalismo marxista e dell’internazionalismo comunista. Se si perdono però i valori di riferimento, se identità, famiglia, lealtà, sicurezza diventano relativismo e fini (il nome è un presagio!), a conti fatti, anche quest’aberrante realtà ci sta tutta.

La triplice alleanza tra la Germania, gli austro-ungarici ed il Regno d’Italia fu un patto militare di carattere difensivo per difendersi dalla Francia e dalla Russia, quella di Casini, Fini e Rutelli sembra, invece, più un’alleanza di carattere offensivo: si accordano per far fuori Berlusconi, mentre Bersani e Vendola stanno a guardare e sono pronti a trarne vantaggio.

Vito Schepisi

13 dicembre 2010

Pierfurby e Gianfrego

Può sembrare difficile comprendere la politica in Italia, ma non è così. E’ più facile di quanto si creda. E’ sufficiente utilizzare alcune chiavi di lettura e tutto diventa più chiaro.

Nessun politico, o quasi, se dovesse scegliere tra il bene comune e ciò che più gli torna utile, sceglierebbe il bene comune, e quando mostra d’avere interesse per il Paese, fatte salve rare eccezioni, finge. La politica, per la stragrande maggioranza del suo personale attivo, parte da un moto di passione e poi diventa mestiere. Il politico ritiene, inoltre, il suo lavoro impegnativo e pretende di ricavarne sia il reddito familiare, presente e futuro, che gli strumenti di manovra e di gestione per sistemare almeno due generazioni a seguire.

L’indignazione, naturalmente falsa, fa parte del mestiere politico. Non ce n’è uno che sia veramente capace d’indignarsi e, quando finge di farlo, si prendano ad esempio la Bindi o Franceschini, appare incredibile e ridicolo. Se poi sale anche sui tetti, com’è capitato a Bersani, a Vendola e a Di Pietro, diventa anche patetico.

In Parlamento e nei Palazzi si usa un vocabolario del tutto diverso da quello usato dagli altri comuni mortali. Senza rifarsi alle “convergenze parallele”, storica espressione usata da Moro per spiegare la politica del compromesso e del consociativismo, per fermarci al presente, si possono citare espressioni quali “crisi pilotata” o “governo di salute pubblica”, quest’ultima recentemente evocata, e con diversi accenti, tra i quali quello accorato, da Pierferdinando Casini, ribattezzato Pierfurby, stranamente in coppia con Gianfrego, Gianfranco Fini, nell’interpretazione dello sceneggiato a puntate che ci ricorda la storia dei “ladri di Pisa”.

Chi, però, per governo di salute pubblica, pensasse a qualche emergenza sanitaria, ad esempio nelle regioni meridionali, o nella Puglia di Vendola, cadrebbe in un grossolano errore. Il “governo di salute pubblica”, è stato proposto da Casini, a breve distanza di tempo da un altro suo richiamo, di tenore ancora più greve, per un fronte di liberazione nazionale, per liberarsi di Berlusconi che gode invece della fiducia degli italiani.

Il Cln aveva unito nel settembre del 1943 le forze democratiche e quelle comuniste per battersi contro il fascismo e l’occupazione tedesca. Il nuovo Comitato, nell’interpretazione del leader Udc, avrebbe dovuto unire, oltre al suo partito, personaggi come Vendola, Diliberto e Di Pietro, ed insieme a Fini, comprendendo Bersani, Franceschini e la Bindi, senza tralasciare Rutelli, doveva liberare l’Italia nientemeno che da Berlusconi. Come se gli elettori, che avevano votato centrodestra, alle ultime elezioni politiche, fossero stati cooptati in un esercito di golpisti. Come se, invece che con le schede elettorali, avessero chiesto di cambiare politica, estromettendo con la forza la sinistra dal governo del Paese. Come se depositando solo due anni prima nelle urne le schede con la croce sul nome di Berlusconi, avessero puntato le armi e sparato contro una sinistra che, da sempre, si auto proclama irreversibile e che, quando è al governo, mette in ginocchio il Paese mentre, quando non è al governo, pretende di fare lo stesso.

L’assordante rumore di Fini e Casini va interpretato con la volontà di cambiare la legge elettorale. E se solo si pensasse alla recente celebrazione di un referendum, sostenuto con forza da Fini, che avrebbe reso ancora più maggioritario e bipolare il sistema, l’ipocrisia apparirebbe così spessa da pensare di poterla affettare.

La convinzione che Berlusconi non sia elettoralmente battibile, se non con un’ammucchiata, fa saltare i nervi e la ragione a più d’uno. Un’alleanza eterogenea non sarebbe poi in grado di esprimere un governo invece omogeneo. Per evitare l’imbarazzo dell’ammucchiata c’è chi vorrebbe tornare al passato. Sotto mira c’è il premio di maggioranza e c’è chi, come il finiano D’Urso, vorrebbe innalzarne la soglia per renderlo irraggiungibile. Senza premio di maggioranza, i piccoli partiti, col loro pacchetto di voti, come in una Spa, diverrebbero indispensabili per far sopravvivere una maggioranza o per condizionare, e a volte ricattare, una parte o l’altra, e conterebbero più degli elettori nello stabilire, in loro vece, programmi e alleanze. Appare chiaro che, in questo modo, i partiti più sono piccoli e inutili, e più conterebbero. Con questa chiave di lettura si comprendono gli affanni di Fini e Casini ed anche il modo sornione di Bersani di supportarli.

Il ritorno alla partitocrazia diventa una lotta per la sopravvivenza del sistema dei partiti e degli abusi della politica. E’ anche il colpo di coda delle caste per difendere il potere di controllo sulla vita civile e sulle scelte del Paese. La burocrazia tornerebbe a controllare e gestire gli affari e gli appalti, i magistrati a fare i comodi loro e i cittadini a pagare in silenzio. Il tentativo di rivoluzione liberale tornerebbe a dover ripartire da zero.

Se passasse, invece, l’idea di Berlusconi sui partiti snelli, come negli USA, senza grossi apparati burocratici, con un rapporto più diretto col popolo in cui, ad esempio, due partiti, entrambi democratici, uno di orientamento conservatore e l’altro progressista, si fronteggiassero nelle campagne elettorali e poi si confrontassero senza pregiudizi in Parlamento, unendosi persino nelle grandi emergenze e nell’interesse del Paese, molti mestatori e politicanti di professione dovrebbero trovarsi un’occupazione e lavorare. E questo per alcuni, o per molti, è una pesante preoccupazione: un vero terrore.

Pierfurby e Gianfrego, senza voti ma lavoratori incompresi, pensano così ... di imbrigliare il Paese.
Vito Schepisi

06 dicembre 2010

Irresponsabili

Se un esperto di questioni economiche, neutrale, magari non italiano, venisse in Italia a prendere atto delle condizioni della nostra economia, informatosi sul clima politico interno, sorriderebbe. Con ironia anglosassone gli sfuggirebbe quell’espressione molto consueta fuori d’Italia: “Italians!”, che sintetizza le nostre contraddizioni. Chiederebbe poi divertito se il circo dei pazzi avesse, per caso, messo le tende sulla Penisola.

Dopo l’attimo d’ironia, richiesto di esprimersi nel merito, con la serietà per la delicatezza dell’argomento, avrebbe detto che l’Italia è un Paese che non smette mai di sorprendere. Nel bene e nel male. Un’Italia che, nel giro di attimi, sa essere lucida e folle. Prima dimostra, in economia, in una congiuntura molto difficile e pericolosa, come quella della recente crisi mondiale dei mercati, d’essere un grande Paese, con tanta inventiva, con molto carattere e con tanta caparbia volontà di risollevarsi. Subito dopo, invece, alla responsabilità l’Italia fa seguire segnali d’instabilità, e mostra tanto pressapochismo incosciente nel voler aprire una crisi politica al buio, in un momento, invece, in cui apparirebbero più auspicabili la coesione e la responsabilità per favorire la ripartenza.

Prima le lodi a Tremonti per il rigore e la fermezza delle misure adottate, rivelatesi assolutamente vincenti in un Paese gravato da un massiccio debito pubblico, poi le perplessità per la linea delle opposizioni e di parte delle rappresentanze sociali, alle quali si sono associate anche alcune frange della maggioranza, di opporsi al contenimento della spesa, se non persino di pensare ad allargarla.

L’osservatore neutrale avrebbe anche attestato che, all’estero, il nostro Ministro dell’economia è molto stimato e avrebbe osservato come il Ministro abbia contribuito, nei due anni trascorsi, a rilanciare l’immagine dell’Italia fino a farne una protagonista di rilievo sulla scena internazionale e nei vertici tra le più importanti economie industriali della Terra. L’Italia con Berlusconi, Frattini e Tremonti è diventata partner ambito e rispettato dalle grandi potenze, cosa mai accaduta in passato, ed interagisce, in modo credibile e corretto, con tutti i Paesi del mondo, ricevendone, oltre al rispetto, anche i vantaggi di una rete di opportunità nella reciproca collaborazione commerciale.

L'economista avrebbe rilevato, invece, come negativo l’atteggiamento “sfascista” delle opposizioni che, a differenza di ciò che era accaduto negli altri paesi dove, per l’interesse comune, tutte le forze politiche di maggioranza e di minoranza si erano riunite attorno alle misure di contenimento e di cautela, in Italia si erano, al contrario, impegnate a seminare panico. La sfiducia e l’allarmismo, infatti, sono in assoluto i nemici peggiori da battere quando c’è recessione economica.

Fin qui l’osservatore, ma anche a noi è apparsa strana e anacronistica un’opposizione che si richiama ai valori del lavoro e degli impegni sociali e che è, invece, impegnata solo a ostacolare gli sforzi del Governo, anche a dispetto degli interessi di tutti, di ricchi e poveri, di giovani e anziani. In nessun paese democratico le opposizioni assumono atteggiamenti così sfascisti, mostrando così cinico disinteresse per le conseguenze sociali e per le ricadute sull’occupazione e sui giovani. Una follia della sinistra italiana, ma anche di altri nuovi avventurieri che, anch’essi privi di scrupoli, si sono aggiunti per strada.

Esistono, e sono legittime, le differenze politiche tra i modi di pensare allo sviluppo di un Paese. Ogni partito ha le sue strategie e i propri modelli da proporre. Noi pensiamo che alcuni siano farlocchi e che abbiano invece uno sguardo al presente e, in particolare, alle ambizioni dei loro protagonisti. Adattare le scelte politiche alle proprie ambizioni, però, non è un esempio di buon intuito politico, né di grande profilo etico: è un metodo da prima repubblica; un espediente da degenerazione partitocratica; un evidente sintomo di supponenza e di arroganza. Il tentativo di ribaltare le scelte degli elettori innesca una pericolosa deriva autoritaria ed è, allo stesso tempo, sintomo di scarso interesse per il Paese, soprattutto perché una crisi politica oggi è assolutamente da irresponsabili.

Vito Schepisi



02 dicembre 2010

L'ipocrisia italiana della governabilità

Il seguente è un articolo del mio carissimo amico Andrea B.Nardi, giornalista, scrittore ed osservatore di politica estera. Andrea, usando la sua prosa semplice ed efficace, ci fa capire come una Costituzione che ha fatto cambiare 62 governi, in quasi 65 anni di Repubblica, non sia poi quel mostro sacro che tanti difensori opportunisti vorrebbero far credere.

Dal 1945 a oggi in Italia abbiamo avuto 62 governi in 65 anni. La media di governo/anno è di 0.98. La durata media del governo italiano è di 340 giorni. Il dato più assurdo, però, è il seguente: governi in carica per l’intera legislatura: zero. NON C'È MAI STATO UN GOVERNO ITALIANO CHE SIA DURATO PER L'INTERA LEGISLATURA, iindipendentemente dalla legge elettorale in vigore.
Possibile che nessuno si renda conto di come ci sia qualcosa di palesemente malfunzionante in tutto ciò, della stortura evidente presente nel nostro sistema costituzionale?
Il presidente statunitense ha ricevuto il proprio mandato da un'elezione popolare, e governa in onore di questa, esattamente come il nostro. Tuttavia – ne abbiamo un esempio evidente oggi –, la sua elezione non ha nulla a che fare con quella del Congresso, infatti quest'ultima avviene a metà del mandato del presidente e può far risultare una maggioranza tutt'affatto diversa. Eppure il presidente non rinuncia al suo mandato governativo, non compare nessuna crisi di governo, non si deve cercare un altro Governo, e il Paese continua a essere governato.
In Italia, di contro, è solo la maggioranza parlamentare a conferire dignità d'esistenza all'esecutivo, il quale ne è l'espressione grazie alle elezioni nazionali. Qualora questa maggioranza parlamentare cambiasse – cosa che capita continuamente nel nostro Paese – il Governo è destinato a perderne la fiducia e a dimettersi. Siccome questa situazione non è l'eccezione, come credevano i padri costituzionalisti, bensì la regola italiana, il Paese vive in costante crisi di governo, e, cosa assai più grave, l'esecutivo invece di governare la nazione è costretto a sprecare tutto il suo tempo nelle manovre intestine per non perdere la propria maggioranza parlamentare. I nostri politici, dunque, vivono non per governare ma per cercare le proprie alleanze elettorali.
Allora il problema è questo: bisogna svincolare il Governo dalla maggioranza parlamentare, interrompendo il meccanismo della fiducia.
I metodi possono essere due:
1) O si stabilisce che i parlamentari italiani eletti in un partito non possono dimettersi da quel partito pena la propria personale fuoriuscita dal Parlamento e decadimento della carica, in onore al mandato ricevuto dagli elettori;
2) Oppure si separano i due poteri istituzionali del Governo e del Parlamento con elezioni separate e non direttamente e reciprocamente vincolanti.
Nel primo caso si tratterebbe di rendere finalmente attiva la responsabilità personale dell'eletto che deve rispondere ai propri elettori, pertanto se una volta eletto cambia partito deve dimettersi e far subentrare al suo posto il secondo della propria lista, senza quindi modificare la composizione parlamentare.
Nel secondo caso si avvierebbe invece una procedura di controllo indipendente dei due organi istituzionali.
In entrambi i casi si interromperebbe l'assurda e ridicola sceneggiata delle elezioni italiane, per cui qualsiasi governo eletto verrà comunque sfiduciato dall'ambiguità dei nostri parlamentari, dediti solo al proprio interesse, al trasformismo, alla ricerca di nuovi partiti per usufruire di cariche e finanziamenti a livello nazionale e locale.
Se non si esce da questa ipocrisia, ogni gaudio per qualsiasi vittoria elettorale è assolutamente privo di valore: il prossimo governo cadrà comunque a breve.
Andrea B. Nardi