08 ottobre 2011

L'ipocrisia corre sul filo della tragedia

Si fa presto in Italia a cercare i colpevoli su cui scaricare le responsabilità delle tragedie.
C’è sempre chi si mostra pronto a trarre il proprio giudizio sugli altri. E’ uno sport nazionale. Tra questi soprattutto coloro che non si caricano mai delle responsabilità morali di ciò che fanno, o ancor di più di ciò che non fanno.
C’è chi si lava così la coscienza, con la stucchevole demagogia e strumentalizzando tutto, anche la perdita di 5 giovani vite. 
A Barletta c’è chi il colpevole l’ha subito individuato nel titolare del laboratorio di confezioni in cui lavoravano le 4 giovani donne rimaste uccise nel disastro. Il colpevole per definizione è così il papà della ragazzina di soli 14 anni che ha perso la vita assieme alle altre 4 povere vittime del crollo. 

Il nostro è un Paese di professionisti dell’indignazione, ma nessuno di questi indignati che si faccia un sincero e rigoroso esame di coscienza per chiedersi come mai si è giunti a tanto. Nessuno che dica: ho sbagliato anch’io.
Oggi il lavoro non c’è e le famiglie hanno bisogno di sopravvivere aggrappandosi a tutto, anche al lavoro nero a 4 euro l’ora. 

La crisi che l’Italia attraversa, se per la sua fase acuta è colpa dei mercati, per la sua fase endemica é dovuta alle condizioni di difficoltà del nostro sistema produttivo. Le incombenze burocratiche e amministrative, e il peso degli oneri sociali e fiscali frenano l’emergere dell’impresa e del lavoro. 

Al sud è un po’ tutto così. L’enorme debito pubblico italiano si è alimentato in passato anche con il fiume di denaro destinato allo sviluppo del mezzogiorno, ma è servito solo a soddisfare clientele, le mafie e le furbizie. Il grosso è dovuto ai soldi utilizzati per mantenere in piedi alcune aziende nazionali o per finanziarne le acquisizioni da parte dello Stato che si sostituiva nelle funzioni produttive o che, dopo aver ristrutturato finanziariamente le stesse aziende, le cedeva agli amici. In questa impresa fallimentare condotta nel passato con metodico e miope cinismo, l’unico risultato è stato il peso del debito sovrano che ci troviamo davanti. 

La burocrazia, le tasse, gli oneri sociali, il sindacalismo cialtrone, il filtro politico, e poi il sistema delle tangenti, il pizzo e la malavita organizzata, hanno mortificato e ridotto l’iniziativa privata. Al sud le imprese che sono sopravvissute si contano sulla punta delle dita. Non c’è lavoro, e l’unica risorsa che si sottrae al precariato, o al lavoro sommerso, appare quella che non risolve i problemi, anzi ne crea di altri: il lavoro fisso nel pubblico impiego. Non a caso, al sud, il mito del posto fisso nella pubblica amministrazione è rimasto un traguardo da raggiungere. Utilizzare il pubblico impiego per risolvere la questione lavoro, però, non è una risorsa, ma un costo da aggiungere agli altri, a carico della collettività. 

Il sindaco di Barletta sa molto bene cosa può significare nella sua Città la “guerra” al lavoro nero e si è tratto subito fuori dal mazzo degli indignati: “Non mi sento – ha dichiarato il Sindaco Maffei - di criminalizzare chi, in un momento di crisi come questo viola la legge assicurando, però, lavoro”. Sotto il Comune c’è chi ha gridato per le sue dimissioni, confermando che l’esercito degli ipocriti non perde tempo a schierarsi in Italia. 

Questa volta è un sindaco del PD che si accorge che il lavoro nero non è un grande successo delle Istituzioni, non è il prevalere della legalità, andrebbe fatto emergere e messo in regola perché sottrae risorse allo Stato, perché danneggia il lavoro regolare, perché lascia senza garanzie i lavoratori, ma in certe realtà è l’unica risorsa disponibile. Qualche volta chi lo genera non è uno sfruttatore furfante e disonesto, ma un povero diavolo, consapevole che altrimenti finirebbe sia la sua impresa e sia il lavoro dei suoi operai. 

Bisogna forse essere del sud per comprenderne le ragioni. Nel mezzogiorno le piccolissime imprese hanno gli stessi oneri che hanno le imprese del nord, ma con una differenza che non si può sottovalutare. Le piccole imprese del sud non hanno i fatturati delle imprese del nord. I margini per non fallire sono ridottissimi. Hanno le banche addosso perché il lavoro prodotto è pagato con comodo. A volte hanno gli usurai dietro la porta. Non hanno molto potere contrattuale e sanno che se si ribellassero le loro imprese sarebbero cancellate dalle liste dei fornitori o da quelle dei subappaltanti delle aziende più grandi. 

In Puglia, e un po’ in tutto il sud, le piccole ditte manifatturiere lavorano per conto di aziende che hanno marchi consolidati con un loro mercato affermato. Le grandi firme di rilevanza internazionale, tutte aziende del nord, appaltano l’esecuzione di questi lavori a costi bassissimi. Le condizioni le fissano loro e chi ci sta, bene, chi non ci sta è fuori, senza nessun problema per chi sa di avere dietro la porta altre cento ditte in attesa di poter lavorare. 

Il lavoro al sud è spesso una lotta continua per sopravvivere. 

“... E’ vero, ci davano solo 4 euro l'ora. Ma adesso non ho nemmeno quelli - replica l’unica sopravissuta alla tragedia in un’intervista al Corriere della sera - e quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l'affitto". Non è un piagnisteo di una donna del Sud, ma è l’amara realtà. Se chiudessero queste piccole aziende, per queste aree del mezzogiorno sarebbe ancora un’altra tragedia. 

Chi fa campagne di tipo ideologico e conosce le criticità delle aree meridionali dovrebbe vergognarsi. In Puglia sono stati spesi milioni di euro per consulenze, sprechi, viaggi, agi, stipendi, liquidazioni d’oro, per pratiche clientelari nella sanità, notti bianche, finanziamenti al cinema, allo spettacolo, a guitti e artisti di strada, per progetti sul niente, per convegni e pubblicità istituzionale e chissà per quant’altro. In Puglia si stanziano 80 milioni di Euro per una nuova e lussuosa sede regionale, ma giacciono ancora inutilizzati i fondi per lo sviluppo, quelli per l’agricoltura e per le aree sottosviluppate. 

E poi c’è chi, senza vergogna, parla di “lavoro schiavistico” di chi lotta per sopravvivere. 


Vito Schepisi 
su L'Occidentale

04 ottobre 2011

La Giustizia. Sempre la Giustizia!

In queste ore c’è una domanda che aleggia in tutti noi. Una domanda a cui la macchina giudiziaria non è stata in grado di fornire una risposta esauriente. Ci chiediamo cosa sia accaduto veramente in quella maledetta sera, tra l’uno e il due novembre del 2007, in quella casa, in Via della Pergola, a Perugia. Ci chiediamo se ci sia stato qualcuno che insieme a Rudy Guedè ha stroncato la vita a una giovane ragazza inglese. Non si può morire così a 22 anni, senza che la verità salti fuori, e senza che i colpevoli ne rispondano dinanzi alla legge.
Meredith Kercher ha pagato con la vita non solo la sua voglia di vivere, di conoscere e di crescere, come tutti i giovani della sua età, ma anche per la follia di un Paese, come l’Italia, così distratto da altro, tanto da sottovalutare quella violenza che miete vittime innocenti, giorno dopo giorno, nell’indifferenza di tanti, e senza che il nostro sistema giudiziario faccia qualcosa per impedirlo, e senza che la legge riesca mai a rendere alle vittime piena giustizia.
Si ha l’impressione che nel bel Paese ci sia poca attenzione verso l’esercito di sbandati che vive alla giornata, che si mantiene ai limiti della legalità, se non proprio nel campo avverso al vivere civile. Dimorano nelle nostre città personaggi che vivono di espedienti, molti in clandestinità, o tanti altri, per quanto con regolare permesso di soggiorno o di nazionalità italiana, come se lo fossero. Tante persone che non hanno fissa dimora, dediti alle attività più disparate e spesso pronti a diventare, alla prima occasione, protagonisti di efferati delitti.
Chi esulta per la sentenza di assoluzione ha le sue buone ragioni. Non li ha, invece, chi protesta perché si aspettava la condanna dei due ragazzi. Non si possono mantenere chiusi, in carcere, e lo sono stati già per 4 anni, due giovani di 24 e di 27 anni: Amanda Knox e Raffaele Sollecito, solo per tener dietro alla tesi accusatoria, basata su alcuni deboli aspetti indiziari e senza una prova concreta.
La Procura di Perugia non è stata in grado di fornire niente di più. Gli aspetti indiziari sono cosa ben diversa dalle prove. Una condanna, come quella che chiedeva la pubblica accusa, all’ergastolo, non poteva essere inflitta su alcuni indizi o sulla ricostruzione di un’ipotesi accusatoria priva, però, di sostanziali riscontri. Non si può chiedere, infatti, il carcere a vita per due ragazzi senza la certezza della colpevolezza. Sarebbe stato, persino, legittimo aspettarsi dalla Procura la richiesta di assoluzione dei due imputati per insufficienza di prove. Quest’aspetto, non secondario per la funzione di un Pubblico Ministero in una società democratica, fa pensare a quanta strada debba percorrersi perché la Giustizia italiana sia un servizio reso alla legalità e alla civiltà del diritto, piuttosto che materia per una categoria di “palestrati” con i muscoli gonfiati di giustizialismo.
Nel processo a carico dei due giovani non sono emerse prove, ma solo elementi indiziari. La fase istruttoria iniziale, per altro, è apparsa contraddittoria, ai limiti del necessario comportamento umano e delle dovute misure di garanzia. Una ragazzina straniera di 20 anni, senza alcuna assistenza legale, è stata trattenuta e sottoposta ad uno stress così intenso, come può essere in un interrogatorio per un caso di omicidio. Una ragazzina che si è trovata ad affrontare situazioni e criticità più grandi di lei, senza comprendere niente delle leggi italiane, senza un benché minimo sostegno morale, senza un riferimento di comprensione. Così: confusa e spaventata.
Innocenti? Colpevoli i due ragazzi? Chi poteva dirlo?
In primo grado, però, c’è stata una condanna pesante, tanto da doversi chiedere come sia stato possibile passare da una condanna, che non lasciava ombra di dubbio, all’assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto.
Meglio, però, un colpevole a piede libero che non un innocente privato della sua libertà, condannato al carcere per 25 o 26 anni. In questo concetto è radicata tutta quella materia che è definita come “civiltà del diritto”. Nel garantismo convivono tanti anni di storia per l’indipendenza e per la libertà, il senso comune, l’umanesimo liberale a garanzia dell’individuo. Perché gli uomini siano essere umani, non bestie, anche se spesso capita di doversi ricreder, dinanzi alle continue manifestazioni d’accanimento e di acredine giudiziaria.
La giustizia riempie le cronache quotidiane. Non appare certo materia condivisa, come invece dovrebbe. Si chiudono gli occhi sui delitti che provocano inquietudine sociale - le nostre città diventano sempre più invivibili - per correre invece dietro a teoremi e pregiudizi, in una sorta di smania di esserci e di apparire, animata da un’incomprensibile presunzione d’infallibilità.
La Giustizia è, invece, un principio di garanzia per i diritti degli uomini e per il rispetto della legalità. Deve apparire come un indifferibile strumento di civiltà, un servizio da usare in nome del popolo italiano, senza che i tribunali si trasformino in palestre in cui alcuni protagonisti, per consolidare la loro massa muscolare, facciano uso di sostanze anabolizzanti.
Ora chi restituirà ai giovani Amanda e Raffaele 4 anni di vita?
Vito Schepisi