29 gennaio 2010

La Giustizia italiana all'ultimo posto in Europa

La serietà impone che quando si parla di temi complessi che richiedano interventi legislativi di riforma, si abbia una visione quanto più larga possibile di tutta la questione, e si abbia l’accortezza di comprendere che il nostro contesto di riferimento debba, per coerenza prospettica, essere quello intero europeo.
Se si parla di scuola ed università, se si parla di difesa, se si parla di lavoro e di previdenza sociale, ma anche se si parla di giustizia.
Le differenze tra l’Italia e l’Europa ci sono in molte questioni. Sono differenze che rivengono da situazioni diverse, da culture diverse e da politiche diverse. L’Italia ha sofferto l’immobilismo sostanziale delle trasformazioni, l’obsolenza degli strumenti, le soluzioni pasticciate del consociativismo opportunista. In Italia vigeva il principio che tutti fossero da accontentare nelle loro richieste, anche le più corporative, anche le più insostenibili e controproducenti. Era più facile così! C’era meno fatica e più consensi elettorali così!
Questo metodo si è tradotto nella convenienza della conservazione operativa in cui le caste si sono fortificate attrezzandosi ad ostacolare ogni ricerca del nuovo. Perché, infatti, abbondare i privilegi e gli agi? Perché rinunciare all’esercizio di un potere di interdizione e di controllo? Perché farlo, se l’obiettivo era quello di imbrigliare un sistema che, se si liberava invece, avrebbe fatto a meno di fannulloni e capipopolo?
Perché rinunciare, allora, anche ad una giustizia populista, distratta e spesso assente?
L’Italia è cresciuta in una cultura di governo diversa da quella della tradizione democratica europea, legata, invece, a modelli quali il mercato, l’efficienza e l’alternanza politica. Anche nelle scelte sociali, le iniziative in Europa sono state vincolate a precise scelte di economia di mercato, di equilibrio, di compatibilità, di realismo politico e di efficienza. In Europa si è pensato al concreto, al rinnovamento, alle riforme, allo sviluppo dei modelli di democrazia liberale: meno ideologia e più pragmatismo, meno dirigismo e più libertà, meno automatismo e più competizione.
In Italia no! In Italia dominava la follia del “meno lavoro e più salario”. I lavoratori sindacalizzati, anche in giudizio, avevano sempre ragione, anche se non lavoravano, se remavano contro l’azienda, se rubavano, se erano violenti, se erano assenteisti e facevano un secondo lavoro, magari in concorrenza.
Si diceva della giustizia come uno dei temi complessi di una società in equilibrio tra doveri e diritti, tra garanzie e certezze, tra indipendenza e responsabilità. La giustizia negli stati autoritari può essere lo strumento di una società repressiva che stabilisca ciò che si deve o meno fare, ovvero dire o pensare, e che imponga il rispetto di un pensiero ideologico ovvero, come accade tuttora in Italia, essere lo strumento della volontà delle caste dei poteri burocratici-finanziari-mediatici-industriali.
Ma la giustizia può anche essere l’espressione di una volontà democratica che attraverso il Parlamento stabilisca le scelte legislative, i diritti ed i doveri di ciascuno e persino lo spazio di tempo in cui il prodotto “giustizia” debba essere erogato. Nelle legislazioni europee prevale quest’ultimo orientamento e la giustizia funziona. In Europa, infatti,la giustizia registra minori criticità, rispetto a ciò che accade in Italia. In Europa c’è minore confusione, c’è fiducia da parte dei cittadini e non si parla, come da noi, di utilizzo politico.
Se ciascuno si limitasse ad assolvere il suo compito, anche nel mondo della giustizia, verrebbe meno il sospetto che ci siano privilegi ed accanimenti nell’ambito giudiziario.
La pretesa di essere giudici anche del pensiero, e del modello di società da imporre nel Paese, fa pensare ad un modo improprio di esercitare il ruolo di magistrato. Il giudice che si voglia sostituire al Parlamento, ad esempio, è come l’ingegnere che si voglia sostituire al medico, come il tramviere che invece si ostini a pretendere di voler costruire un palazzo, è come l’imbianchino che si improvvisi pilota di aereo o come il pescatore che si alzi la mattina con l’idea di fare a sua volta anche il magistrato.
Tutto questo è devastante per la democrazia. Ha ragione il ministro Alfano nel sostenere che "i giudici sono soggetti soltanto alla legge e la legge la fa il Parlamento, libero, sovrano, democratico, espressione del popolo italiano. Quello stesso popolo il nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze".
Tornando all’Europa, in queste condizioni, non deve sembrare un caso che la giustizia italiana, a parità di risorse, sia la più disastrata di tutta quella europea. E neanche che nel mondo, su 181 paesi, sia al 150° posto.
Vito Schepisi su L' Occidentale

27 gennaio 2010

La memoria non basta ad impedire che la storia si ripeta






E’ vero la storia si ripete sempre, inesorabile come il destino di ognuno. Si ripete coi suoi fasti ed i suoi lutti. Si ripete con gli errori, le tragedie, gli eroismi, i tradimenti, con la sua epica e la sua retorica. Si ripete con la sua viltà, le sue follie, i suoi orrori. Si ripete sempre, con o senza preavvisi.
Quella dell’umanità non è una storia sempre lineare in cui hanno sempre prevalso i buoni principi. Non sempre i libri di scuola, i buoni maestri, il popolo eletto, i media, gli intellettuali e le istituzioni vanno oltre ciò che sembra ovvio per indicare ciò che è corretto, ovvero per stigmatizzare la brutalità, per respingere la violenza e per irridere la stupidità. Passioni, ideologie, odio, pregiudizi e rancori spesso prevalgono.
Trionfa, nei discorsi, l’ipocrisia dei buoni propositi, mentre nell’intimo prevale la furbizia, la convenienza, l’opportunità. Conta più l’apparenza del bel gesto che il dovere morale di difendere i principi di civiltà e di umanità. La memoria, almeno per un giorno nell’anno, ritorna. E per un giorno nell’anno si ripercorrono gli stessi passi sulle tracce di ciò che è stato. E tutti a domandarsi il perché. E tutti a chiedersi dov’era l’uomo in quella miseria. Domande che resteranno sempre senza risposta!
Il giorno in Italia è il 27 gennaio. E’ l’anniversario dell’avanzata russa in Polonia nel ‘45 e dell’abbattimento dei cancelli del Campo di deportazione di Auschwitz, rimasto nell’immaginario di tanti il simbolo tragico di una follia, con la sua scritta all’ingresso intrisa di insostenibile scherno “ARBEIT MACHT FREI” (Il lavoro rende liberi). La memoria di una assurda ed immane tragedia dove nelle camere a gas i nazisti avevano sterminato decine di migliaia di ebrei deportati, poi arsi e resi cenere nei forni crematori.
Per non dimenticare, con la Legge 211 del 20 luglio 2000, anche il popolo italiano ricorda, per un giorno ogni anno la Shoah, le leggi razziali, il martirio, le deportazioni, le ansie, la morte. Ricorda la viltà degli uomini!
“Era sempre inverno in quegli anni, anche in primavera e in autunno e in estate”.
E’ questa la sensazione rimasta: il freddo e la neve, l’inverno che si intersecava con il gelo delle coscienze.
Ciò che infastidisce, però, in giorni come questo, è il replicare dei soliti cerimoniali, è il sentirsi ripetere le stesse cose. Provocano disagio gli stereotipi, le frasi di circostanze, i discorsi scopiazzati dall’anno precedente, gli impegni morali, le mobilitazioni di associazioni, la reiterata produzione cinematografica, i documentari, persino le poesie di Primo Levi. Si vorrebbe forse qualcosa di diverso e, per quanto sia possibile, più fatti che parole, più realismo che poesia, più convincimento che circostanza.
Attenzione perché la storia si ripete! E’ sempre così!
Irrita ad esempio l’ipocrisia di quella politica che fa distinzione tra la Shoah e lo Stato di Israele. E’ vero, non sono la stessa cosa, ma fanno parte della stessa storia. Soffrono la stessa minaccia. L’odio contro Israele, e la negazione del suo diritto di esistere, fanno parte della stessa pianta dell’odio. La minaccia di oggi allo Stato israeliano è cosa diversa dall’Olocausto, ha un’origine diversa dalla folle aggressione nazista. E’ verissimo! Ma non si può far finta di ignorare che ci sia un sentimento antisemita ed antisionista che anima ancora molte coscienze. Non si può non rilevare che sia sempre vivo e minaccioso un fanatismo islamico che mira all’annientamento di Israele e del suo popolo.
La memoria di una storia che si ripete e che ci trova immobili e passivi può, anch’essa, diventare un crimine culturale contro l’umanità.
Vito Schepisi

25 gennaio 2010

Vendola ha vinto le primarie, ma non ha vinto la Puglia

Per i pugliesi la vittoria straripante di Vendola alle primarie non è una sorpresa. E’ più sorprendente l’indicazione venuta dai vertici del Pdl di Rocco Palese, chiamato a battersi con il candidato orgogliosamente comunista e leader nazionale di Sinistra, Ecologia e Libertà. C’è chi, non a torto, ha pensato che una candidatura più prestigiosa, come quella del magistrato Dambruoso, ad esempio, sarebbe stata più opportuna.
Il governatore pugliese uscente ha lavorato cinque anni in Puglia per rafforzare, come è stato rilevato nelle indagini della magistratura, la “cupola” di controllo politico del territorio. Assieme a lui però hanno lavorato ampi pezzi del PD, soprattutto quei settori che, contraddicendo le indicazioni del partito che puntava invece su Boccia (ex Margherita), hanno sostenuto la candidatura di Nikita.
C’è stata una partecipazione trasversale a favore dell’ex leader di Rifondazione Comunista. Oltre allo zoccolo duro ex comunista del PD, hanno votato per lui migliaia di cittadini che sul territorio pugliese, dal Salento alla Capitanata, sono entrati a far parte della sua rete di controllo territoriale, della sua macchina elettorale, della sua organizzazione. Il 73% dei voti alle primarie è un risultato che ha superato ogni previsione: lascia intendere quante buone ragioni avesse il Presidente uscente a chiedere con caparbia ostinazione la celebrazione delle primarie.
La rivoluzione pugliese, come l’ha chiamata Vendola, è stata solo una rappresentazione teatrale dove l’effimero, la scenografia, gli effetti speciali hanno prevalso sui bisogni e sulle carenze. Un maniacale tentativo di saccheggiare la libertà e l’iniziativa del territorio, riempiendolo di romantiche immagini poetiche, ma condannandolo all’immobilismo, senza che nulla fosse modificato. Tanti buoni propositi e parole come solidarietà, assistenza, accoglienza, recupero di tradizioni e culture, per distribuire risorse ad una rete che rispondesse appunto al principio del controllo politico del territorio, come è stato rilevato dai magistrati per la sanità. Una indifferenza colpevole e cinica mostrata con protervia ed arroganza. I progetti e le ambizioni nazionali del piccolo imperatore con l’orecchino che andavano oltre il destino della Regione.
Non sembrava un suo problema la Puglia in difficoltà, né le carenze nell’assistenza sanitaria, nello smaltimento rifiuti, nella erogazione dei servizi. Lui non sapeva, poteva non sapere, di sprechi ed abusi e di squallide vicende boccaccesche locali. Troppo interessato a diversi sviluppi futuri!
Il Governatore più pagato d’Italia ha saputo distinguersi solo nello spreco delle risorse. Ha taglieggiato i pugliesi con addizionali sui carburanti e sul prelievo fiscale, con le aliquote al massimo consentito. Ha regalato uno scempio ambientale senza precedenti con le coste del Salento, le Murge ed il Gargano invase di pale eoliche. Ha costretto i giovani ad emigrare per le carenze di occupazione, mentre si sprecavano risorse in spettacoli da strada, nel retribuire guitti di ogni specie, in viaggi in allegra comitiva e missioni impossibili.
Anche il fenomeno dell’immigrazione clandestina è stato fronteggiato con interventi di facciata, senza un coordinamento che facesse primeggiare la legalità e la sicurezza. La presenza continua di uno stato conflittuale con il Governo nazionale ha avuto, infine, più il gusto del contrasto politico che il sapore della fermezza nelle scelte, nei programmi e nelle opportunità.
Vendola è ora un uomo da battere nell’interesse della Puglia e del Mezzogiorno. E’ il vecchio che mortifica l’innovazione, lo sviluppo, l’impresa, le capacità ed il rilancio produttivo della regione più intraprendente del mezzogiorno. E’ l’uomo che frena la Puglia protesa coi suoi mercati protesi verso i Balcani ed il Mediterraneo, con le sue università fucine di cultura, competenze e nuove tecnologie. La Puglia, bagnata da un mare magnifico, titolare di un patrimonio paesaggistico, storico e culturale di grande valore, terra di sapori e di prodotti tipici, terra di sole e di colori, di accoglienza e di umanità, merita diversa attenzione.
Non un piccolo re, circondato dalla corte dei miracoli, ma un grande pensiero di crescita, un’idea nuova per pensare alle nuove conquiste, per puntare al recupero della fiducia, alla riqualificazione del territorio, al rilancio, alla legalità, all’efficienza. Tocca allora al Pdl stringersi attorno al suo candidato, per battersi per la vera rivoluzione liberale pugliese. Non può perdere il Pdl questa occasione per estromettere colui che si è definito “un uomo solo al potere”, e che è apparso solo un uomo in corsa per le sue ambizioni e per il prevalere di un suo modello politico, già sconfitto dalla storia e dai fatti.
Vito Schepisi

21 gennaio 2010

Processo breve ed opposizione catastrofista


Il confronto politico, in Italia, per cattiva abitudine dei partiti, stravolge abitualmente la realtà delle cose. Su certe materie, per giunta, si preferisce andare avanti per slogan, anziché attraverso ponderati ragionamenti nel merito dei provvedimenti. Procedere per slogan è più paradossale, è più catastrofista. Come se sia possibile, sia pure per paradossi, pensare ad una giustizia più catastrofica di quella italiana. Qualche dato: 9 milioni circa di processi pendenti tra penale e civile, 170.000 processi prescritti nell’ultimo anno per decorrenza nei termini (Il 12% dei processi penali viene rinviato per omessa o irregolare notifica), 30mila richieste di indennizzo per l’irragionevole durata del processo, con una tendenza annuale di crescita del 40% di spesa per i risarcimenti. Costo totale della (in)giustizia italiana pari ad 8 miliardi l’anno.
In questo quadro sconfortante non è solo strano, ma anche criminoso, sollevare gli scudi ogni qualvolta si parla di interventi legislativi nel campo della giustizia. Per soffermarsi su quella penale, ad esempio, è evidente che nella trattazione e nella modifica di alcune norme inserite nei codici di procedura, non si possa pensare di dover fare la disamina delle singole situazioni e dei possibili vantaggi per qualcuno. Qualsiasi intervento, infatti, non può che recare misure che modificano gli effetti sui processi, sulle pene, sugli interessi delle parti, su tutti i soggetti interessati.
Chi è coinvolto in un processo penale finisce sempre con essere o meno agevolato dalle modifiche legislative che intervengono. Eccetto alcuni reati aberranti, di particolare preoccupazione sociale, su cui è possibile che il legislatore possa chiedere inasprimenti, l’orientamento garantista tende più a ridurre il rigore delle pene e, come dottrina giuridica emergente, si avvia anche a consentire la riduzione del divario tra accusa e difesa nel dibattimento. Se gli interventi di moderazione e di garanzia intervengono a favore di qualcuno, non possono e non devono essere intesi come privilegi concessi ai soggetti fruitori delle modifiche, soprattutto se i provvedimenti addottati hanno poi carattere generale.
A maggior ragione, non è ammissibile pensare che gli interventi legislativi si ritengano necessari o meno a seconda delle circostanze o delle opportunità, come sembra che spesso in Parlamento emerga. E’ più facile strumentalizzare che ragionare, tanto che, ad onta della responsabilità, tra gli schieramenti politici si fa prevalere più l’aspetto disfattista e provocatorio, che quello di ragionare su di un insieme di circostanze, di esperienze e di effetti.
Nel caso, ad esempio, della legge sul processo breve, appena varata al Senato, è emersa più la volontà di ricorrere alla strumentalizzazione sul Premier che alla ragionevole comprensione della realtà. L’opposizione ha privilegiato il ricorso agli slogan ed alla caciara, invece di focalizzare la questione giustizia in Italia, invece di pensare alle sanzioni comminate dalla Corte Europea per la insostenibile lunghezza dei processi, invece di prendere atto dell’intasamento delle procure italiane e del fiume delle prescrizioni per superamento dei tempi utili per celebrare i tre gradi di processo previsti dal nostro ordinamento giudiziario. Il ministero della Giustizia ha calcolato nell’1% l’incidenza della prescrizione sui processi in corso. E’ una percentuale di gran lunga inferiore alla giustizia negata per la decorrenza dei termini prevista dalla legge.
L’azione strumentale dell’opposizione parlamentare sul provvedimento “processo breve” è apparsa ancora più evidente per essere stata la stessa opposizione già proponitrice al Senato di un analogo disegno di legge, il n.2699 del 22 gennaio 2004 “Disposizioni in materia di prescrizione del reato alla luce del principio di ragionevole durata del processo”.
Nella procedura penale, nel giusto processo e nella sua ragionevole durata si radica la maturità giuridica di un Paese e si misura il tasso di civiltà delle istituzioni democratiche. La Giustizia è il valore stesso della democrazia. Alla base di tutti i principi sociali c’è infatti la Giustizia, che è tale solo quando fa chiarezza di tutto e su tutto. Libertà e Giustizia sono gli aspetti imprescindibili della democrazia liberale. Sono due condizioni complementari tra loro, perché non c’è l’una in mancanza dell’altra, e sono speculari e fungibili perché sia l’una che l’altra si avvertono soprattutto per la loro mancanza.
Libertà e Giustizia sono necessarie quando servono. In momenti doversi appaiono persino superflui quando vogliano esser da riparo ai danni già subiti. Un carcerato innocente, poi liberato, ad esempio, ha già subito un danno così enorme che la libertà successiva non ripara affatto. Libertà e Giustizia sono come i due motori di un aereo in volo che, ingrippandosi, provocano danni definitivi alla vita delle persone trasportate. A nulla serve riparare i motori dopo che l’aereo è già caduto.
In questa ottica, i tempi ragionevoli sono necessari alla Giustizia: perché non sia intesa come persecuzione; perché intervenga senza modificare il contesto in cui il supposto reato abbia o meno motivato la domanda di giustizia.
Vito Schepisi

18 gennaio 2010

Di Pietro, Mani Pulite e la storia negata


Il proprio lavoro non è sempre ciò che l’individuo sceglie per il futuro, ma il più delle volte è ciò che la società, ed il contesto, ti offre. Facciamo, pertanto, un po’ di chiarezza: il lavoro è nella generalità solo lo strumento della vita sociale degli uomini, senza assolutamente voler disconoscere le scelte fatte da tanti in coerenza con le proprie aspirazioni. E, non sempre corrisponde alla realtà, quel modo un po’ romantico di definire il proprio lavoro come la funzione che appaga il proprio legittimo desiderio di realizzazione. Al contrario, spesso se ne discosta.

Detto questo, colui che, all’inizio degli anni ‘90, la folla aveva acclamato come l’eroe di mani pulite, da piccolo, aveva pure potuto pensare di voler fare da grande l’eroe giustiziere, così come è nella fantasia di tanti bambini per l’astronauta o il pilota di formula uno. Da adulto, però, trovatosi a poter coltivare i suoi sogni di giustiziere del male e di moralizzatore dei costumi, perché ha poi abbandonato la magistratura? Perché ha abbandonato la funzione istituzionalmente preposta a far rispettare la legalità?

Non tutto, però, sembra che sia stato per sua scelta. Le circostanze hanno spesso scelto per lui. Episodi noti e giudizi severi della magistratura, come quella di Brescia, ne hanno disegnato un profilo tutt’altro che trasparente e lineare, tutt’altro che attinente ad un leale difensore dei deboli e degli oppressi, tutt’altro che tipico di un integerrimo fustigatore dei corrotti e dei prepotenti. Molti dubbi sono rimasti senza che mai sia stata fatta chiarezza. Alcuni passi della sua vita sono rimasti nell’ombra, ed alcune circostanze appaiono come macigni che ostruiscono il percorso della conoscenza, soprattutto storica, di un periodo importante dell’evoluzione politica del Paese. Resta ostruito, purtroppo, un varco che traccia il confine di transito di trasformazioni addirittura epocali: si pensi, ad esempio, alla caduta dei conflitti ideologici.

L’Italia è tra gli stati che più aveva sofferto la presenza dei due blocchi politico-militari in conflitto di influenza. Avrebbe potuto liberarsi, in modo naturale e spontaneo, di un serrato conflitto interno che paradossalmente si neutralizzava attraverso il consociativismo e ( perche no?) far partire il processo politico di trasformazione del Paese. Potevano già farsi 20 anni fa le riforme che dovevano abbattere la burocrazia, le caste, le alchimie e le sacche dei privilegi dei grandi vecchi della finanza e dell’industria. Dopo la caduta del Muro, le illusioni di un sistema alternativo venivano meno, si sgretolavano come un castello di sabbia. Crollava, così, per la sopravvenuta inconsistenza di un suo riferimento, la ragione sostanziale di quel veto burocratico e politico che aveva minato lentamente l’equilibrio economico e sociale del Paese.

Un lavoro è un lavoro: non ci sono dubbi. In Italia, ieri come oggi, occorre anche adeguarsi, è già una fortuna trovarlo. Alcuni sono pericolosi, altri noiosi, molti sono pesanti e faticosi. Altri, però, richiedono attitudini particolari e trascinano addosso a chi li esercita conoscenze, segreti ed aspetti di riservatezza che devono essere tutelati. Ed è qui che sorgono dubbi ed è qui che alcune circostanze, mai sufficientemente smentite, fanno pensare che ci siano state attività che mal si conciliavano con le altre, attività che possano esser state strumento di conoscenze e sospetti per un modo improprio di usarle. Ed è qui che alcune ipotesi sulla nascita e sulle finalità della stagione di mani pulite vanno ad assumere aspetti inquietanti.

L’eroe di mani pulite ha fatto molti altri mestieri prima di fare il magistrato. Ha lavorato in industria in Germania, è stato impiegato nelle Forze Armate, ha fatto il segretario comunale, il poliziotto, e poi ha cambiato ancora. Ha studiato, come un piccolo genio, mentre lavorava e si è laureato come anticipatario. Di Pietro ha fatto poi il concorso in magistratura e lo ha vinto al primo tentativo, come solo pochi san fare. Bene, benissimo! Ora fa anche il politico ed ha fatto il ministro. Nel frattempo aveva cambiato due mogli, aveva cambiato casa, macchina, scarpe e vestiti e fondato un partito. Ha persino soddisfatto un sogno irrealizzabile per molti italiani: disporre di un appartamento a Piazza Duomo a Milano. Ha cresciuto due figli, uno poliziotto, aspirante politico, e l’altra studentessa, già aspirante giornalista, che scelgono anche loro di fare ciò che l’opportunità della vita decide per loro. Tutto normale? Anche se non per tutti è così facile, diciamo anche di si! I figli son sempre “pezz ‘e core”!

Il personaggio, però, è emblematico non per il suo ruolo di padre o di politico, molto naif quest’ultimo, ma per ciò che è stato, per il lavoro che ha svolto, per ciò che del suo lavoro non ci ha rivelato. Perché dice di voler fare da politico ciò che non ha saputo e voluto fare da magistrato: esser giusto.

Vito Schepisi

14 gennaio 2010

Bettino Craxi, uno Statista





All’inizio degli anni ’90, per trarre un profilo di Bettino Craxi, avrei detto che era l’uomo che aveva saputo interpretare in Italia il nuovo corso del socialismo democratico. Craxi era stato il politico socialista che aveva saputo cambiare il volto del Psi, tirandolo fuori dal complesso di sudditanza ideologica verso il marxismo.
Nel post fascismo italiano l’idea della rivoluzione delle masse proletarie, il marxismo, aveva rappresentato il marchio di fabbrica di un nuovo sogno di giustizia sociale e di libertà. Il Psi aveva finito con interpretare il suo ruolo di partito dei lavoratori, proprio nel solco della continuità con la sua tradizione socialista del periodo antecedente all’avvento del fascismo. Le cose, però, erano un po’ cambiate, perché le scelte del Partito Socialista finivano sempre più con l’essere subordinate alle scelte politiche del Pci.
Il Partito Comunista, direttamente collegato ad una delle grandi potenze vincitrici dell’ultimo conflitto mondiale, duro, radicale, antisistema, vociante, ben finanziato e ben organizzato, emanava un fascino particolare verso i lavoratori. Il Pci in Italia predicava soluzioni di distribuzione delle ricchezze, diffondeva slogan come meno lavoro e più salario, e la sua propaganda finiva col sollecitare la fantasia delle masse.
Il Partito Socialista italiano, di contro, soffriva la presenza comunista, ma si trovava nell’incapacità di proporsi diversamente. Mancavano i mezzi ed era in dipendenza economica da fonti controllate direttamente o indirettamente dalla stessa rete del partito comunista. I socialisti finivano con l’essere costretti, per forza di cose, a nascondere le omissioni del Pci sulle condizioni di vita dei lavoratori nei paesi dell’est, a tacere sulla mancanza dei diritti, sulle violazioni delle libertà fondamentali represse dai regimi comunisti, a tacere sui lager, sui manicomi criminali per i dissidenti e sugli orrori della repressione sovietica.
Anche l’esperienza del centrosinistra dal 1962 non aveva favorito alcun “appeal” socialista degli elettori rispetto al Pci. La gestione del potere, al contrario, veniva vista, anche in questo caso, come un rapporto subordinato del Psi alla Democrazia Cristiana. Il centrosinistra aveva, invece, esaltato il ruolo politico del Pci, accreditato come unica alternativa al centrosinistra. Anche nel Parlamento il ruolo del Pci era quello di esclusiva opposizione alternativa, mentre le altre formazioni politiche, meno consistenti, erano chiamate dai media, e dalla letteratura conformista, con intento sottilmente spregiativo, come “le destre”.
Nel 1976 Montanelli dovette scrivere ai suoi lettori, su Il Giornale, di dover andare a votare per la Democrazia Cristiana, tappandosi il naso, per scongiurare il sorpasso alle elezioni politiche del Pci sulla Dc.
Il Psi aveva fallito. Alle elezioni del 1976, De Martino, allora segretario, subì una cocente sconfitta e scese sotto il 10%. Il suo Psi non era riuscito a convogliare verso il centro le forze popolari e proletarie del Paese. Iniziò così, nel luglio del 1976, all’hotel Midas di Roma, l’ascesa di Bettino Craxi. Nel 1983, per la prima volta in Italia, un socialista divenne Presidente del Consiglio.
Craxi, l’ultimo vero leader socialista italiano, seppe tirar fuori l’orgoglio dell’autonomia socialista. Lo statista socialista, guardando alla tradizione europea, riscoprendo il percorso pluralista delle democrazie riformiste dell’occidente, seppe imprimere la forza della svolta, come una “Bad Godesberg” italiana. Denunciò gli errori del leninismo e pose il socialismo umanitario di Proudhon in contrapposizione al marxismo. Lo fece senza timori riverenziali verso il Pci, che aveva incominciato ad odiarlo, ma mise così anche le radici per la vendetta e per la sua condanna all’esilio. A morte!
Craxi seppe sdoganare l’alternativa politica e parlamentare in un Parlamento che fino a tutti gli anni 70 era sclerotizzato, mummificato nella ricerca di un compromesso che doveva servire alla secolarizzazione dei due poteri emersi dalla caduta del fascismo: quello clericale – economico – finanziario, che ruotava intorno alla DC, e quello marxista – sindacale – editoriale, che ruotava intorno al Pci.
Se all’inizio degli anni ’90, per trarre un profilo di Bettino Craxi, avrei scritto tutto questo, oggi aggiungo che il Psi, per la svolta dell’alternativa riformista al compromesso tra cattolici e marxisti doveva uscire dalla subalternità economica e doveva potersi organizzare sul territorio alla pari di Pci e Dc. Ma questi ultimi si sostenevano su una fitta rete di finanziamenti di enti ed imprese e su un sistema già consolidato di finanziamenti illegali alla politica. Quella scelta era obbligata per competere, ed i socialisti di Craxi la fecero.
E’ stata la sua fine, però. E’stato il modo per farlo cadere.
Vito Schepisi

11 gennaio 2010

Lavoro, immigrazione, sfruttamento



Ci sono vicende che andrebbero prese davvero sul serio. Vicende su cui il confronto politico dovrebbe svilupparsi su analisi e soluzioni immediate. Il riferimento è ai fatti di violenza in Calabria, a Rosarno, dove la popolazione locale ed una consistente comunità di immigrati extracomunitari, si parla di 1500, in buona parte clandestini, hanno ingaggiato una guerriglia urbana senza precedenti in Italia.
Le questioni vanno interpretate per gli effetti già vissuti, per gli episodi già accaduti e per le possibili conseguenze future. Vanno interpretate perché se ne traggano i giusti segnali di pericolo. Serve, a tal fine, la giusta ricostruzione cronologica dei fatti, scremata dagli aspetti più marcatamente ideologici e strumentali. La verità su ciò che è accaduto è la sola che può far emergere le necessità di soluzioni immediate e/o indicare una possibile strada futura. Solo così si può valutare la portata dei provvedimenti adottati e si possono trarre le ipotesi per i provvedimenti di carattere definitivo da proporre. Le vicende vanno dunque comprese a 360°, soprattutto per prevenire nel futuro analoghi fenomeni di inammissibile degrado civile ed, infine, per discutere ed adottare quelle che dovrebbero essere le scelte definitive nell’interesse del Paese.
Non servono appelli per una parte o per l’altra, non servono scioperi, altre violenze, distruzioni, scontri con la polizia, raccolte di firme, posizioni di estremismo ideologico, gruppi su Facebook. Le questioni non si risolvono a chi grida di più, a chi minaccia di più, a chi strumentalizza di più a chi riesce a mobilitare di più. C’è molta confusione sull’argomento immigrati in Italia, ma c’è altrettanta confusione sulla stessa interpretazione del concetto di democrazia, c’è confusione su cosa sia l’autodeterminazione di un Paese, sui valori della solidarietà, della coscienza nazionale, come confusione c’è sul principio della legalità.
La strumentalizzazione politica ci mette del suo e non aiuta mai a capire. Non sappiamo ancora cosa si intenda, ad esempio, per multietnico, per multiculturale, per pluralismo etico, per integrazione, come non è dato di sapere se in Italia chi risiede regolarmente, e ne ottiene la cittadinanza secondo le leggi vigenti, goda degli stessi diritti di tutti e soprattutto se a tutti sia chiesto di assolvere gli stessi doveri. Di certo, ciò che nessun paese civile si dovrebbe poter permettere è la giungla. Ma in Italia, molto spesso, quella con la giungla è una convivenza forzata.
Ai margini di una crisi recessiva che ha messo a dura prova l’apparato produttivo del Paese e che ha accentuato una crisi occupazionale che al Sud ed in Calabria è già da sempre un fenomeno endemico, c’è da prendere atto che c’è una parte del Paese che vive, produce e commercializza nell’illegalità, che sfrutta la manodopera clandestina per il lavoro più duro, che sfugge ai controlli, che si avvale di protezioni omertose. Questa parte del Paese, in massa, per pigrizia, per debolezza, ovvero per complicità, per ignoranza, per cinismo, o per paura, fa finta di ignorare in quali condizioni disumane di vita sono presenti sul territorio nazionale un numero rilevante di bambini, donne e uomini, di nazionalità extracomunitaria e per lo più clandestini.
E’ in questa confusione, mal tollerata da una parte e dall’altra, che vanno inquadrate, a Rosarno, sia l’esasperazione degli extracomunitari sia quella dei cittadini, sfociate poi nella guerriglia urbana. Se l’effetto scatenante è stato un atto di stupida criminalità, si può a ragione affermare che la fiamma dello scontro bruciava già sulla pelle di tutti.
La questione di Rosarno, però, se, invece di spingere a riflettere, rianima lo scontro e la polemica politica, ottiene il risultato di mortificare ancora una volta il buon senso. Ci si sofferma, infatti, sulla propaganda, sullo scambio di accuse, sulla visione dei fatti a proprio uso e consumo, su scenari di comodo, sugli slogan, su tutto ciò che in definitiva non serve. Tutto questo non solo non è utile a risolvere alcunché, ma contribuisce a confondere le questioni ed a mantenere nel vago la complessa pericolosità di un fenomeno.
In Italia, e siamo alle solite, la conseguenza di ogni decisione non presa è sempre il rinvio, sine die, del problema. Oggi, per non saper scegliere, rischiamo di porre le basi a quella che potrà rivelarsi la nuova barbarie del secolo d’apertura del terzo millennio. Tutto può essere rinviato, infatti, meno che le questioni che minano l’unità del Paese, la sicurezza nazionale, la convivenza civile delle comunità urbane ed il rispetto delle leggi.
Eppure la legalità è la parola magica di tanti pifferai! Ma ha valore solo se la si usa contro una parte politica. Non è lecito criticare le sentenze, non è lecito accusare la magistratura di fare politica, non è lecito difendersi dalle accuse più astruse, ma non si dice, ad esempio, che è illegale entrare clandestinamente in Italia e non si dice che è illegale ignorare i controlli e le leggi sul lavoro. Non si dice, infine, che è illegale il caporalato e porre in stato di schiavitù la manodopera.
Dov’era la legalità allora a Rosarno? Di chi le responsabilità? Dov’erano magistratura, guardia di finanza, ispettorato del lavoro? Dove i sindacati?
La regolarità di un rapporto di lavoro dovrebbe essere oggi un requisito imprescindibile. La violazione dovrebbe essere considerata come complicità nel reato di clandestinità. L’evasione contributiva e fiscale dovrebbe essere considerata come un reato contro il patrimonio dello Stato e sanzionato come tale.
Legalità vuol dire comprensione, giustizia, soddisfazione, dignità. Con le regole rispettate da parte di tutti, e solo così, si può parlare di integrazione e di società aperta al confronto di civiltà con le altre etnie e con le tradizioni dei diversi sentimenti religiosi.
Vito Schepisi

07 gennaio 2010

Primarie e PD

Le primarie sono come la classica coperta troppo corta: se vuoi coprirti le spalle finisci col lasciarti scoperti i piedi. Mutuate, per le elezioni presidenziali, dal sistema elettorale degli Stati Uniti d’America, in Italia, tra qualche tempo, serviranno ad eleggere persino gli amministratori di condominio.
E’ nello stile del “si può fare”, perché tutto ciò che è ”americano”, in Italia, se a stabilirlo sono i soliti noti, è politicamente corretto. E’ nato così il Partito Democratico, con le primarie drogate, dopo una grande kermesse al Lingotto di Torino per investire già tre mesi prima Veltroni, benedetto dalle grandi famiglie industriali italiane e da un gruppo editoriale di grande impatto ideologico nell’area della sinistra italiana.
Le primarie in Italia erano già state introdotte appena due anni prima, volute da Prodi che, consapevole di essere nell’area della sinistra italiana un espediente più che una soluzione, voleva legittimarsi alla candidatura nelle politiche del 2006 per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una legittimazione politica che a quanto sembra è servita a ben poco, come a ben poco è servita quella di Veltroni nel 2007 ed a ben poco, sembra di capire, servirà anche quella recente di Bersani.
Se le riflessioni sono un aiuto alla comprensione dei fenomeni, e se possono servire come indicazioni per le scelte future, occorre dire che la forma deve essere sempre un modo per far emergere le qualità delle cose e mai, viceversa, un modo per celarne la sostanza. Primarie si, ma su scelte vere!
Nel Partito Democratico appare sempre più difficile, però, poter guardare alla sostanza in quanto c’è una gran quantità di scelte non fatte, di equivoci non risolti, di strategie del divenire troppo vincolate alle nostalgie del passato. Sono apparsi, inoltre, nel partito che in due anni è stato prima di Veltroni, poi di Franceschini e che ora è guidato da Bersani, più i metodi tipici di una opposizione al sistema, che richieste di modifiche alle soluzioni dei provvedimenti in discussione, e tanto meno si è avvertita la presenza di proposte politiche alternative, se non quella di dire: vada via Berlusconi che ci mettiamo noi qualcuno di diverso.
Nel PD ci sono molte voci diverse che gridano, e sono spesso voci divergenti. Per un partito di natura popolare può essere anche giusto che sia così, ma se è vero che in questo modo si riesce a coinvolgere un arco trasversale delle realtà sociali e del pensiero politico del Paese, è anche vero che spaventa la sua parte moderata e che disorienta e delude quella più pregiudiziale e dura. Il risultato finale è che il PD non riesce ad aggregare e viene visto dai suoi alleati più come un serbatoio da cui attingere, soprattutto dopo che alle politiche del 2008, con l’appello ad evitare il voto inutile, Veltroni aveva cannibalizzato i partiti minori.
Le contraddizioni, se sono tante, finiscono sempre per emergere. Le primarie, ad esempio, si fanno a corrente alternata, e si ammettono solo i candidati che non disturbano, ed accade anche che si facciano quando fa comodo e che si neghino quando si mostrano scomode.
Sono mesi che in Puglia il governatore uscente Vendola, forte della fiducia sempre ricevuta dal maggior partito della coalizione di sinistra che nel 2005 vinse le elezioni, chiede la legittimazione della sua gestione con la riconferma della candidatura alla presidenza. E sono mesi che il PD fa finta di non sentire.
La contraddizione più evidente è che i responsabili del partito democratico magnificano la gestione passata, ma pongono ostacoli alla sua riconferma; esaltano l’esperienza della gestione della sinistra radicale in Puglia, ma indicano una strada moderata per una nuova esperienza politica in compagnia di Casini. Ed è così che la Puglia è in bilico tra il desiderio di D’Alema di allargare la maggioranza al centro, nell’ottica di un laboratorio politico per preparare le future competizioni elettorali nel Paese, e quello della riconferma di Vendola; tra la difesa della tenuta complessiva della sinistra, con l’aiuto di una componente moderata, e l’interesse, un po’ personale ed un po’ politico, di un pezzo della sinistra più estrema di non spegnersi.
Resta che sulla richiesta delle primarie da parte del governatore uscente, che sa di poter ben controllare il territorio amministrato da 5 anni, il PD nicchia confondendo tutti, e confondendosi da solo, tra le primarie di coalizione e le primarie di partito, tra la modifica della legge regionale sulle candidature dei primi cittadini delle grandi città ed i propositi dei allargamento della coalizione.
Primarie si, primarie no! Il PD non sa se coprirsi i piedi o le spalle. Come accade con l’alleato Di Pietro: il PD non sa mai cosa fare! Non sa mai se far maturare il suo processo democratico o andare all’assalto.
Vito Schepisi su Il Legno Storto