31 gennaio 2011

In Puglia i fatti non sono poesia

Se guardassimo verso il cielo potremmo vederci il riflesso dei nostri sentimenti e, se lo volessimo, la stessa cosa potrebbe accadere guardando il volto di un bambino, piuttosto che gli occhi di una persona amata, un rivolo d’acqua che scende dalla montagna, una goccia su d’una foglia, la neve che cade, un cielo nuvoloso o i riflessi del sole tra i rami di un albero. Potremmo! Accade solo quando si desidera esporre l’animo alle emozioni generate dalle sensazioni. E’ un fatto intimo.
E’ una banalità, pertanto, dire, come fa il politico poeta pugliese Vendola: “La poesia è nei fatti”. La poesia, volendola trovare, è dappertutto, ma è anche vero il suo contrario, come lo è, ad esempio, l’idea, pur molto diffusa, che la poesia non faccia parte del mondo reale.
Il vezzo di predisporsi a dar di se un’immagine poetica, se non mistica, pur svolgendo funzioni che con la poesia hanno poco a che fare, diviene un modo per usare i sentimenti e le ansie della gente. Per dar mostra di estro poetico, non si faccia il politico di professione e l’amministratore pubblico!
E quando il modo è già strumento, come si vuole che l’azione sia sostanza?
La politica non è l’illusione del bello, se poi davvero è ciò che si vuol dare a vedere, non è il tormento dei sentimenti in un conflitto esistenziale, e non è la fantasia variopinta di una natura sorprendente. La politica, piuttosto, è necessità pragmatica; è sofferenza, scelta, sacrificio; è ricerca e può essere persino involontario, necessario e inevitabile cinismo. Vendola non sfugge ad usarlo!
Non si può pensare di moltiplicare i pani senza possedere la quantità di grano sufficiente. E non si può pensare di far pesare sempre sugli altri le responsabilità della mancanza di volontà e delle scelte di vita diverse dall’impegno, dal lavoro e dal sacrificio quotidiano. Ciascuno è il protagonista del proprio futuro. Si può pensare di garantire i più sfortunati, perché tutti abbiano un minimo di opportunità, ma pensare ad uno Stato o ad una funzione pubblica che sia tutrice non è possibile. Non lo è, non solo per una questione di etica e di rigore istituzionale, ma anche per questioni di mercato, di costi, di sviluppo e di risorse.
Esiste in politica un modo che vorrebbe eludere i fatti e ignorare le soluzioni più semplici, per dar parvenza che vi siano forme diverse per trovar soluzioni alle cose. E’ un po’ come chi, dinanzi a ciò che altrimenti parrebbe impossibile, si rivolge alla Divina Provvidenza.
Ci sono differenti modi di affrontare le criticità. In situazioni di sofferenza, ad esempio, per un evento traumatico, c’è chi si affida a maghi, fattucchiere e guaritori, facendosi spillare tutti i risparmi, e c’è chi, invece, a medici e specialisti che propongono cure e interventi chirurgici. L’ultima soluzione è senza dubbio legata al buon senso e, anche se comporta grandi sacrifici fisici, è l’unica che può risolvere il problema. Anche per la politica è la stessa cosa. Non è mai bene andar dietro alle chiacchiere di chi propone ricette illusorie, carpendo, con effimera efficacia verbale, la buona fede di chi ascolta. Il rischio è di ritrovarsi dopo un po’ dinanzi agli stessi sintomi ed accorgersi che la malattia è diventata nel frattempo più grave.
E se poi sono i fatti che non sono poesia?
La Puglia per 2000 anni dopo la nascita di Cristo è stata terra dominata dalla natura. Il vento, il sole, il mare, le sue campagne, le masserie fortificate, le distese di alberi di ulivo, le case in pietra, i muretti a secco, le tradizioni popolari hanno mantenuto le loro forme e il loro fascino. La composizione del territorio è stata per migliaia di anni sintesi di bellezza tra la natura morfologica delle sue forme e l’intervento sapiente dell’uomo. Questi ha pensato al suo uso, per soddisfare i suoi bisogni primari, senza l’idea dello sfruttamento, ma integrando esigenze e lungimiranza, senza mai distruggere, ma sempre trasformando, per rendere efficace la forza della natura e per mettere i suoi prodotti a disposizione dei bisogni primari delle comunità.
Sono bastati pochi anni, meno di dieci, inseguendo il furore ideologico, ad esempio di un ecologismo ottuso, per recare danni incalcolabili al territorio pugliese. Campagne dissestate, agricoltura abbandonata, piantagioni abbattute e, dappertutto, distese di pannelli di grigio silicio e giganteschi mostri, con enormi pale che girano lentamente, che dal Salento al Gargano deturpano il panorama, offendono lo sguardo e calpestano ogni buon senso.
Vito Schepisi

27 gennaio 2011

Occorre di più

Non bastano le parole di circostanza pronunciate ogni anno, dal 2000 - da quando, con Legge, la Repubblica Italiana ha riconosciuto il 27 gennaio come “Giorno della Memoria” - per respingere l’orrore di una mattanza contro il genere umano per questioni di odio e di razza.
Non basta una data, un giorno, una circostanza per scollegare la storia contemporanea dall’odioso passato e per esorcizzare il pericolo di un nuovo tragico futuro.
La storia si ripete sempre, inesorabile come il destino di ognuno. Si ripete con la sua retorica e con i suoi lutti. Ritornano anche gli errori, le distrazioni, le tragedie, i tradimenti, le viltà collettive. La storia si ripete con le sue follie. Si ripete sempre, con o senza preavvisi.
La storia, però, è parte di tutti noi e si riflette, prima che nel sentimento, nelle nostre azioni e nelle nostre scelte. L’odio è sintesi d’istinto e di perversione. E’ una malevolenza irrazionale, sentimento spesso latente negli uomini. E, come per ogni attività fisica o intellettuale, anche l’odio si perfeziona con la sua pratica.
L’equilibrio dell’uomo, quando è offuscato dall’odio e dall’intolleranza, si ritorce contro la sua stessa specie e annulla d'un colpo tutte le conquiste di civiltà. Mai si deve abbassare la guardia!
Ogni anno si ripetono le stesse parole, si ricordano le stesse immagini, gli stessi racconti, si leggono le stesse poesie, con l’impegno condiviso di non consentire che crimini contro l’umanità, come l’Olocausto del popolo ebraico, abbiano più compimento.
Ma basta tutto questo? E’ sufficiente ogni anno ricordare e riscrivere gli stessi concetti? Possiamo pensare che la follia nazista sia stata solo una parentesi superata della storia dell’umanità? E’ giusto cancellare ciò che è accaduto come un’idea del passato e ritrovare i motivi di una stessa origine umana che supera gli steccati della razza, della religione e delle diverse culture?
Quando i sopravvissuti all’orrore non ci saranno più, quando la storia e la memoria si mescoleranno con altre storie e altre memorie, chi impedirà ai carnefici di passare per vittime e a quest’ultime di essere due volte massacrati?
Come non accorgersi dell’antisemitismo latente che è nella nostra cultura? Come non ricordare che non esiste solo la vigilia del 27 gennaio per assumere comportamenti che segnino le differenze tra chi ha memoria e chi ancora non riesce a liberarsi dalle ideologie?
Come non ricordarsi, ad esempio, che la memoria della Shoah non è solo rifiuto del nazifascismo, ma è anche quello di ogni ideologia che non riconosca l’individuo e la sua libertà di essere?
Il clima che si vive in Italia, ad esempio, ha del paradossale. C’è ancora chi prova a creare profili antropologici in base alle scelte. Anche la cultura prova a chiudersi, a escludere e ad imporre i principi assoluti.
Non basta solo una data per la memoria. Occorre di più!
Vito Schepisi

25 gennaio 2011

La Signora di Confindustria


La leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, sostiene che da circa sei mesi l’attività di Governo abbia subito un rallentamento, mentre, per consentire alla ripresa in atto di trovare un terreno più fertile per radicarsi ed espandersi, occorrerebbe dare impulso ad interventi strutturali. Sollecita così l’avvio d’interventi di liberalizzazioni, in tema di lavoro e produzione, e di un programma di riforme.

Per il Presidente di Confindustria, non predisporsi strutturalmente ai segnali di crescita, limiterebbe le potenzialità d’assorbire occupazione, per recuperare le quote perse con la recessione, e penalizzerebbe la formazione di quelle risorse finanziarie da destinare alla spesa sociale.

Sulle riforme e sulle liberalizzazioni non si può dar torto alla Signora Marcegaglia, anche se non ci sembrava difficile arrivare alle stesse conclusioni senza il suo autorevole monito!

Per portare a compimento un virtuoso piano di riforme ci vorrebbe in Italia un quadro politico più sereno e la ricerca della più ampia condivisione politica. Ma l’oracolo confindustriale, da qualche tempo, fa più pensare che contribuisca a provocare più confusione, e che parli seguendo uno schema politico e che esterni nei momenti in cui la tensione nel Paese appare più vigorosa.

E’ in atto uno scontro politico che, per il suo tracimare in rivoli etici e giudiziari, non ha precedenti. Una parte della maggioranza parlamentare, con una rappresentanza molto inferiore alla sua esposizione mediatica e istituzionale, da alcuni mesi cavalca un ronzino che si è messo in testa una “idea meravigliosa”. E non è il parrucchino di Cesare Ragazzi! Il ronzino si ostina a credere di poter fare il cavallo da corsa e di vincere senza passare dal via. Deve aver pensato che, non avendo grandi qualità ideali, né grandi progetti politici, né tradizioni storiche e neanche doti carismatiche, di poter vincere ugualmente sfruttando il lavoro e il carisma degli altri. Forse è mal consigliato da spavaldi scudieri, di cui uno in particolare mostra d’avere la stessa pochezza di Sancio Panza, e che, anche per immagine, avvicina il suo padrone all’idea che si ha di Don Chisciotte della Mancia.

Il ronzino che, fuori dalla metafora, è Fini, Presidente della Camera con i (soli) voti di una maggioranza che oggi invece disconosce e che, contraddicendo tutte le consuetudini formali che caratterizzano gli incarichi istituzionali, oggi apertamente contrasta. Questi, incurante di trascinare il Paese nell’immobilismo, si è proposto di logorare il premier, ponendosi anche in discontinuità con le scelte programmatiche che assieme ai suoi seguaci ha preso con gli elettori.

E’ la seconda volta che la Marcegaglia, durante l’infuriare di una tempesta provocata da un’iniziativa giudiziaria, e che trova ringalluzziti vecchi e nuovi oppositori, dà calci agli stinchi del governo.

Il Paese è bombardato da notizie e teatrini tra l’indecente e la persecuzione giudiziaria. L’iniziativa della Procura di Milano, con l’impiego massiccio di tempo e risorse, è vista come l’ennesimo tentativo di mettere fuori gioco Silvio Berlusconi. La tv di stato diffonde moralismo a buon prezzo e coinvolge persone completamente estranee e altre che fanno le loro scelte di vita, senza per questo rendersi responsabili di reati.

Mentre, così, si fanno i processi mediatici, si muovono accuse senza una traccia di prova e si diffondono incredibili testimonianze di fantasiose mitomani, la signora di Confindustria non trova di meglio che sparare sull’esecutivo. “Sulla crescita - sostiene - il Paese tutto si deve concentrare: tornare a produrre benessere per le persone. Invece c’è una totale disattenzione. Si parla di tutto, ovviamente i temi di questi giorni, tranne che di questo. Ma questo è il tema che interessa ai lavoratori, ai cittadini, alle imprese”.

Si fa presto, però, a parlare di governo immobile, mentre si contribuisce a far salire il termometro delle polemiche. L’industria italiana è parte attiva della nostra politica economica. E se il treno della ripresa passa attraverso le riforme se la prenda con chi le ostacola. Le relazioni sindacali, ad esempio, dal nuovo modello contrattuale agli accordi in Fiat, hanno visto il governo impegnato, assieme alle parti sociali più moderate, per un diverso modo di risolvere i conflitti sindacali, senza alterare il sistema delle garanzie. Ed anche le mutate condizioni dei mercati, hanno visto il governo lavorare per richiamare l’attenzione di tutte le parti sociali sul pericolo che si riflettano in modo traumatico sull’occupazione e sui lavoratori. Il governo c’era, e si è fatto sentire, anzi è stato anche accusato di esserci.

In politica non esiste la riconoscenza: l’abbiamo visto con così tanta evidenza! Si deve sempre andare avanti, e non si può pretendere di adagiarsi sulle rendite del passato, ma c’è un limite a tutto! Il governo lavorava e s’impegnava in Parlamento sulla riforma universitaria, quando gli altri salivano sui tetti. Berlusconi, Tremonti e tutto il governo si preoccupavano dei conti, dei lavoratori, delle aziende, delle famiglie, mentre gli altri gufavano contro il Paese. E allora viene anche spontaneo chiedersi: ma se invece che strizzare l’occhio a chi si batte contro il Governo e le riforme, la Marcegaglia si occupasse di più del suo mestiere?

Vito Schepisi

20 gennaio 2011

Lupus et agnus

La sensazione di un attacco politico-giudiziario diretto contro Berlusconi diventa più di un sospetto. E’ possibile concedere solo il beneficio del dubbio sul coordinamento tra i diversi attori politici, giudiziari e mediatici. E, vista la vicenda nel suo complesso, è anche possibile immaginare che sia stata pensata come il tentativo della “soluzione finale”.

La magistratura, anche questa volta, entra a piedi uniti in politica. E’ possibile che consideri inetta l’opposizione, incapace d’essere credibile, ma ci chiediamo a che titolo ne debba fare le veci? E’ uno spartito già replicato più volte, ed è sempre contro una sola parte, che è poi quella che vorrebbe portare a termine un programma di riforme, tra cui quella dell’ordinamento giudiziario, da sempre osteggiato, ai limiti del potere di veto, dalle toghe.

In altre occasioni, queste questioni, sono state oggetto d’interessamento di avvocati e dei cultori del gossip. Di scandali, infatti, legati al sesso, alla prostituzione, e ai vip in Italia ce ne sono stati tanti, ma mai si era visto tanto accanimento ed una programmazione nelle indagini che durava da tempo nella ricerca così accurata di un reato e senza risparmio di mezzi.

Il metodo del blitz di tipo militare, così massiccio e invadente, con le perquisizioni anche corporali d’inermi e giovani donne, alla ricerca di tutto e di più, si suppone anche di droga, fa capire che per i magistrati inquirenti non si dovesse lasciare niente d’intentato. Si era alla ricerca di prove di un reato che ancora non si comprende nei suoi limiti. Il modo è stato così pesante da apparire violento e in contraddizione con le garanzie democratiche previste dalla Costituzione sulla riservatezza e sulla libertà personale dei cittadini.

Le conclusioni sono state di un vero e proprio buco nell’acqua. E il niente emerso non giustifica in nessun modo l’effetto traumatico provocato sulle vittime. Che diritto ci sia da parte di chiunque, magistrati compresi, di far apparire attrici di un crimine giovani donne che hanno fatto liberamente le loro scelte di vita? La magistratura serve a far rispettare la legge, non a far la morale!

Come non ci sembra normale una quantità così massiccia d’intercettazioni telefoniche, nelle forme dette “a strascico”, disposte per ricercare una qualsivoglia ipotesi di reato. Neanche l’art. 15 della Costituzione “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” ferma un furore che ci sembra eccessivo. Ma se è vero che la limitazione della libertà possa avvenire per atto motivato dell’autorità giudiziaria, dove sono le motivazioni e per quali ipotesi di reato che possano giustificare la violazione di questo sacrosanto diritto? Dove, poi, le ragioni che ne possano giustificare la diffusione?

L’accusa ha contestato due reati (concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile) nei confronti del Presidente del Consiglio, ma le indagini sulla vita provata di Berlusconi erano in corso sin da prima della presenza sulla scena di Ruby. C’è il sospetto che la procura di Milano fosse alla ricerca costante e immotivata di un fatto penalmente rilevante nei confronti del Capo del Governo, e si presuppone che solo con questa vicenda, per la minore età e per l’ipotesi di favoreggiamento alla prostituzione minorile, possano essere state formulate ipotesi di reato nei confronti del Premier. Ma dove sono le prove? Dov’è la pistola fumante? Un reato ha bisogno di un luogo, di una circostanza, di un fatto circoscrivibile, di una testimonianza visiva, di una flagranza. Ha bisogno di una cosa concreta, e non solo di ipotesi.

Ci sembra davvero troppo per pensare a una normale e consuetudinaria indagine per reprimere fenomeni di malcostume, ma anche troppo poco per rendere tutta la questione realmente credibile o per spacciare per prove i pettegolezzi, le ripicche, i protagonismi, le mitomanie e tutti gli episodi e le sgomitate di giovani e belle ragazze in cerca di onori, soldi e di sostegno per la loro carriera artistica.

In Italia, dopo averle provate tutte, da qualche tempo, anche la pista pruriginosa è utilizzata contro chi prevale nelle preferenze degli elettori e si avvale della fiducia degli italiani.

Il nuovo filone dell’aggressione giudiziaria contro Berlusconi trova così terreno fertile sia nelle penne dei polemisti mediatici, abituati a sviscerare un odio incontrollato verso il leader dell’area moderata del Paese, e sia nelle dichiarazioni di tanti politici che appaiono frustrati per una loro manifesta incapacità di dire qualcosa che sia in sintonia con le domanda di governabilità e con le richieste di soluzioni ai problemi che provengono dalla gente comune. Appare sempre più come nella favola di Fedro del lupo che accusa l’agnello delle colpe sue e dei suoi avi: solo che Berlusconi non ha nessuna intenzione di passare per pecora!
Vito Schepisi

14 gennaio 2011

Garantismo svenduto

Una volta nella sinistra in Italia emergeva un’area di contestazione verso tutto ciò che poteva essere riferito al conformismo, alle tradizioni, ai valori nazionali. Negli ambienti liberali si seguiva con interesse la demolizione dei luoghi comuni, delle ritualità e si comprendevano persino le ragioni di una necessità rivoluzionaria che sbloccasse le rendite di posizione, le caste, i baronati, gli abusi e le discriminazioni.

Nel distinguersi, si pensava alla sinistra come a uno spazio in cui si formavano gli opportunisti e si strumentalizzavano le carenze e le necessità delle popolazioni, e dove si cavalcavano i bisogni ed i diritti negati per trarne vantaggi politici o sindacali. In molte circostanze, si è pensato che la sinistra coltivasse il malessere per poterlo canalizzare in politica e sfruttarlo. Ricordiamo il “tanto peggio, tanto meglio” di Togliatti. In tanti pensavano che la sinistra italiana fosse diretta da centrali di controinformazione internazionale, per minare la compattezza dell’occidente libero, e che, nel periodo della guerra fredda, la sinistra comunista lavorasse per favorire le mire imperialiste dell’espansionismo sovietico.

Le sintesi, però, portavano anche a pensare che, piuttosto per opportunità e non per scelta, la sinistra fosse inconsapevole portatrice di alcune ricette dell’anticonformismo istituzionale e del disconoscimento di qualsivoglia tentativo di introduzione di gestione di poteri assoluti da parte di servizi o di ordinamenti dello Stato (polizia, magistratura, finanza, editoria).

Si è pensato che la sinistra prestasse grande attenzione verso tutte quelle garanzie che nelle democrazie liberali sono a presidio dell’imparzialità della gestione dei poteri nell’ambito della vita civile dei cittadini. E dalla percezione di una sinistra garantista, emergeva anche quella di pensare che fosse contraria, per scelta, per opportunità, per formazione, per principio, all’ordinamento giurisdizionale inteso come una casta autonoma, priva di riferimenti con la società, di assonanza con il senso comune e di collegamenti con il sentimento popolare.

La sinistra fino all’inizio degli anni 90 ha usato il garantismo giudiziario come un proprio distintivo di riconoscimento. Mai la sinistra avrebbe acconsentito, senza gridare al complotto, che un Organo Istituzionale, quantunque supremo come la Corte Costituzionale, potesse sottomettere la politica e le scelte del Parlamento al giudizio e alle limitazioni di un servizio dello Stato, benché autonomo.

Dinanzi al ribaltamento dei principi, però, non può reggere solo l’antagonismo a Berlusconi, come alcuni provano a sostenere. Non si può, infatti, oggi in Italia pensare di rispolverare i principi del male assoluto che giustifichino le soluzioni assolute. La democrazia ha ragione di essere se la sovranità popolare mantiene la sua supremazia e se il Parlamento, espressione del popolo, abbia facoltà di legiferare senza subire ipoteche e ricatti.

Non è pensabile una democrazia ove un magistrato, se non gli va bene una legge, si rivolge alla Consulta - dove sa che c’è una maggioranza che è espressione politica contraria a quella che ha approvato la legge - per farla cassare. Non può che destare inquietudine un Organo Istituzionale che si cimenti a mettere sotto tutela il Parlamento.

E’ cambiata la sinistra o è mutato lo scenario politico? Sono cambiati i personaggi o è mutata la strategia della sinistra, dopo aver acquisito il controllo del potere giudiziario?

E’ evidente che il presunto garantismo della sinistra sia stato svenduto. La sinistra riscuote un’attività distratta e assolutoria per la sua parte, che diventa, invece, inquisitoria e intimidatoria verso gli avversari politici, e ricambia con l’azione di freno verso ogni tentativo di riforma dell’amministrazione giudiziaria. E’ almeno dal famoso decreto Biondi del 1994 che ogni tentativo di intervenire su temi che riguardino la giustizia e il ruolo dei magistrati e ogni tentativo di modificarne i privilegi, di intervenire sulle carriere, di modificare l’impianto organizzativo della giustizia cozza contro una barriera formata dall’alleanza tra magistratura e sinistra.

“La Magistratura è la più grave minaccia allo Stato Italiano”. L’avrebbe detto D’Alema all’ambasciatore USA, stando a quanto rivelato da Wikeleaks. Peccato che per l’unica cosa verosimile detta dal leader PD ci sia stata poi la smentita!
Vito Schepisi

07 gennaio 2011

L'Europa e la nuova crisi del debito

L’economia è una scienza concreta che non può reggere dinanzi a banali e semplicistiche dinamiche ideologiche. Al contrario si può sostenere che siano proprio le ideologie che, scontrandosi con il realismo dei conti e dei mercati, mostrano la loro inutile rigidità.

Fatta questa premessa è bene che si provi a capire se sia possibile che le politiche economiche possano, invece, reggere, a diverse dinamiche sociali e politiche. All’uopo è opportuno immaginare sia i mutamenti dei riferimenti dei modelli sociali nelle dimensioni, nelle criticità e nelle finalità, e sia quelli di più ampio riferimento politico, nei termini, ad esempio, d’identità europea, e di univocità d’indirizzo (alleanze, patti, cooperazione).

Innanzitutto, possiamo provare a comprendere se una moneta unica per più paesi abbia anche riferimenti unici nei mercati, e verificare, altresì, se i singoli paesi europei abbiano politiche monetarie e finanziarie fungibili o, ancora, se alcuni ricorrano, ad artifizi di bilancio per rientrare nei confini di stabilità concordati.

In quest’ottica non possono che sorgere dubbi sul fatto che il Trattato di Maastricht sia solo una linea immaginaria il cui vero confine appare spesso sbiadito.

Nel nostro principale interesse conviene restringere il campo all’Europa, evitando di pensare all’inarrestabile globalismo dei mercati, spettro oramai di un prossimo conflitto economico-industriale che andrà a scuotere l’organizzazione sociale dei paesi più industrializzati. La questione Fiat e gli accordi di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori sono solo le prime avvisaglie di una rivoluzione produttiva che interesserà ben presto tutti i paesi europei e tutti i settori industriali.

Il profilo del mondo, quanto prima, cambierà per la diversa velocità di penetrazione commerciale che si sta sviluppando tra un mondo, quello di cultura europea, spesso anche eccessivamente garantito, e un altro privo di stabilizzata cultura industriale che, orientato al bisogno, invece, contro ogni immaginazione, appare sempre più libero e sempre più svincolato da regole. Senza un cambio di rotta, la legge del contrappasso non risparmierà nessuno, e l’Europa, è bene ricordarlo, è il continente più esposto. Senza nuove misure, dovremmo preoccuparci sin da ora del ribaltamento tra la vecchia povertà e la nuova ricchezza. Gli strumenti della vecchia ricchezza, i pacchetti azionari, sono destinati a cambiare i riferimenti del loro possesso.

Per tornare all’Europa, chi ha pensato, come Prodi all’epoca della sua Presidenza della Commissione europea, che l’espansione territoriale dell’Europa potesse essere un segno di maggior peso e di più marcata influenza, l’ha fatto solo per accrescere il suo ruolo politico. Non tutti, infatti, hanno la statura di Khol e non tutti possono permettersi la sfida economica della Repubblica Federale Tedesca, nel 1990, di sobbarcarsi gli oneri economici della riunificazione delle due Germanie. Ciò che resta è che è stato consentito l’ingresso in Europa a una molteplicità di paesi più per ragioni ideologiche o per obiettivi strumentali, che non per accrescere la funzione e il peso politico della Comunità.

In Europa sono entrati paesi che, lenti nei processi di crescita, avevano bisogno di tutto e che, investiti dall’Euro, moneta strutturata su economie a ben diversa velocità, hanno trasferito, sulle popolazioni, i maggiori costi delle necessità di vita, e, sulla moneta europea, le debolezze delle loro traballanti strutture economiche. Per alcuni di questi paesi, la fine del capitalismo di stato, invece di aprire a nuove speranze, ha contribuito a porre dubbi e incertezze sul futuro, coinvolgendo nel pericolo l’intera Europa.

L’Europa mostra dunque tutte quelle debolezze che la rendono vulnerabile. Le ricette varate sono un po’ come l’aspirina che fa passare solo momentaneamente il dolore, senza incidere invece sulla malattia. Le economie industriali, chi più e chi meno, hanno puntato sul debito per accelerare lo sviluppo e per migliorare le strutture sociali. Le economie meno competitive hanno anch’esse puntato sul debito per alleviare il bisogno e ridurre il divario. Il debito è la costante, pertanto, ma è anche come la colonna di mercurio che misura la febbre, ed il grafico della temperatura è monitorato costantemente dalla speculazione finanziaria.

Se c’è un batterio che colpisce i diversi pazienti, è intelligente pensare di unire gli sforzi per trovare una cura comune. Se, ad esempio, per le infezioni servono gli antibiotici, anche per curare il debito serve la sua specifica medicina. In materia economica, per giunta, non c’è da inventarsi niente: la medicina è l’emissione di titoli di debito. C’è, allo scopo, una proposta italiana lanciata dal Ministro Tremonti consistente in uno strumento unico per tutti i paesi europei: gli Eurobond. Questi sarebbero titoli garantiti da tutti gli stati della Comunità, e strumenti con i quali fronteggiare tutti i tentativi di speculazione contro i paesi in difficoltà: non più, pertanto, l’uso di diversi provvedimenti, spesso tardivi, ma un solo strumento immediato valido per tutti.

Non ci sarebbe tempo da perdere!

Vito Schepisi