22 luglio 2011

I soliti raffinati prestigiatori

La politica, quando si adatta a ricercare un luogo comune, su cui scaricare le responsabilità da addossare ai propri avversari, diventa banale e meschina come la disputa di una bega condominiale. L’ultima menata è quella di Fini, alla cerimonia del “Ventaglio” alla Camera, quando parlando del distacco tra i cittadini e la politica si è soffermato sul sistema elettorale, auspicando l’adozione di uno nuovo.
E’ la stessa circostanza in cui il Presidente della Camera si è soffermato sui costi della politica ed ha anticipato un piano, da qui al 2013, di risparmi nel bilancio di Montecitorio per 110 milioni di Euro. La “manovra” della Camera, però, indirettamente l’aveva già fatta il Governo con la riduzione dei vitalizi e delle pensioni, in questo caso rispettivamente per gli ex parlamentari e per gli ex dipendenti, a chi percepisce oltre i 90.000 euro, e con il blocco del turn over. Quella dell’Ufficio di Presidenza della Camera è ben poca cosa, se limitata alla disdetta dei contratti di fitto per Palazzo Marini (di là a venire alla scadenza), alla chiusura di uno dei ristoranti interni a Montecitorio e ad una sforbiciata alle spese per la comunicazione, l'informatica e l'autorimessa.
Tutte cose che … “faremo” … mentre è già operante alla Camera l’aumento del 3,2% delle retribuzioni, scattato a fine giugno per l’adeguamento alla produttività, al contrario del Senato che l’ha congelato.
Quella del Presidente della Camera sulla riforma elettorale costituisce, pertanto, benché non se ne ravveda il bisogno, solo una nuova menata al rilancio del veleno politico. Non c’è, infatti, niente di nuovo da quel fronte, neanche per fare futuro, mentre ci sarebbe da osservare che non è la legge elettorale che cambia le cose.
Di sistemi elettorali ne abbiamo provati già tanti, senza modificare l’andazzo della politica e, a ben guardare, quest’ultimo sistema, benché con tante lacune, è anche migliore degli altri: ha eliminato, infatti, le preferenze che sono state un elemento di grande disturbo per la questione morale e che hanno sempre agito come moltiplicatore della corruzione. Anche l’ex assessore pugliese Tedesco era lì, e a quell’assessorato che gestiva il 75% delle risorse economiche della Regione, in ragione del peso “politico” delle sue preferenze.
Non è proprio esatto il pensiero di quanti sostengono che l’attuale sistema di preferenze-nomine adottato dai partiti finisca col togliere la facoltà di scelta degli elettori. Questi ultimi, infatti, scelgono soprattutto i programmi e ripongono la fiducia in una proposta politica. Per favorire la democrazia, perché sia rispettata la volontà degli elettori, sarebbe invece opportuno rafforzare la facoltà, per chi vince le elezioni, di portare a compimento le proposte programmatiche su cui i partiti si sono impegnati. A tal fine sarebbe cosa buona e giusta se un’eventuale nuova legge elettorale fosse inserita in una scelta complessiva di riforma dello Stato. La scelta degli uomini - che sia attraverso le primarie o i collegi uninominali (certamente da preferire perché le primarie come si è visto sono manipolabili) - sarebbe un aspetto secondario rispetto alla governabilità che è il fine essenziale da raggiungere.
Non sarebbe male, anzi sarebbe il tempo, che anche all’Italia fosse consentita una svolta di libertà di democrazia e fosse garantita, così, nella sostanza la sovranità popolare. Sarebbe ora di passare finalmente, da un sistema burocratico, controllato dai partiti e dalle caste, attraverso diversi livelli di veto, a una democrazia compiuta d’impronta moderna e liberale.
Con la Riforma dello Stato (seconda parte della Costituzione) avrebbe senso anche una riforma elettorale. Il fine dovrebbe essere quello di rendere più snello, trasparente ed efficiente tutto il sistema della rappresentanza democratica del territorio e soprattutto di rendere efficace e più diretta l’azione del governo e, infine, individuabili le responsabilità delle scelte fatte e di quelle non fatte. E’ giusto che un giudizio democratico degli elettori avvenga anche su ciò che non si fa, senza che ci siano giustificazioni legate all’agibilità procedurale delle soluzioni politiche proposte: è meglio un governo che fa male, se poi è mandato a casa per i suoi errori, che un governo che non fa.
Con una nuova legge elettorale, la facoltà di scelta (preferenze), poi, sarebbe ugualmente sottratta agli elettori dall’azione dei partiti che avrebbero comunque la facoltà di privilegiare la visibilità di chi vogliono. La reintroduzione delle preferenze rafforzerebbe piuttosto la partitocrazia, perché favorirebbe sia le frammentazioni parlamentari in gruppi di pressione politica e sia le cordate di lobby affaristiche. Chi ha più preferenze di solito impone ai partiti una maggiore visibilità nelle istituzioni, a prescindere dalle capacità personali, e soprattutto dai modi con cui le preferenze sono state ottenute. Varrebbero così più le potenzialità clientelari che le qualità morali.
Chi è onesto sempre e comunque, infatti, come si sa, non è mai simpatico a tutti.
Vito Schepisi

15 luglio 2011

Amici e compagni

Fare di questa questione un caso, è esagerato.
Come se tutto ciò che va dicendo e facendo Vendola faccia storia e abbia grande interesse.
L’uomo con l’orecchino sa solo interpretare la voglia di essere diversi di una parte d’italiani. La sua forza è tutta in un vocabolo oggi di moda: “alternativo”. Solo questo.
Il leader di Sinistra, Ecologia e Libertà riesce a eccitare la fantasia di chi è arrabbiato, di chi si sente attratto da altre esperienze, di chi odia, di chi medita le sue vendette, finanche di chi si sente orgoglioso per un suo genere “neutro”.
Vendola stuzzica la fantasia, spesso anche devastatrice, di chi non riesce a rendersi conto, e se lo fa se ne frega, che star fuori delle regole possa recare danno soprattutto alla povera gente, mortificando spesso i loro bisogni. E’ ciò che, infatti, accade in Puglia dove la disoccupazione, soprattutto giovanile, cresce, dove niente funziona bene, dove la salute è un problema più serio che altrove, dove ciò che è essenziale costa di più, perché gravato da nuovi balzelli, e dove si continua a spendere per l’effimero e per la visibilità del suo ambizioso presidente.
Le parole sono libertà, e ciascuno le usa come vuole. Anche Vendola può usare la parola “amici” e trovarsi a suo agio tra chi non si è mai posto il problema di applicarsi un’etichetta, o tra chi abbandona i distintivi di appartenenza usati per indicare con ostinazione ideologica il proprio modello sociale, come spesso è accaduto sinora. In politica, poi, le finzioni assumono sempre un valore.
Oggi, ad esempio, usato come il prezzemolo, è il richiamo ai valori etici, laddove, a destra e sinistra, di etico si trova davvero ben poco. Ciò che s’intende per etico, però, rientrerebbe in un discorso più ampio, che nessuno affronta mai fino in fondo.
La realtà è che la moralità pubblica - di quella privata non si sa che farsene - non esiste da nessuna parte. Si potrebbe parlare di percorsi di trasparenza amministrativa e di uso appropriato delle prerogative pubbliche, riferendosi a una rivoluzione sostanziale della struttura complessiva dello Stato. Si potrebbe accennare al rilancio del principale valore, rivoluzionario per definizione, attribuito alla democrazia, che è la sovranità popolare con riferimento al sacrosanto diritto del popolo di scegliere la sua classe dirigente, di sentirsi effettivamente garantito in tutti i suoi diritti e di poter contare su un sistema istituzionale e di gestione dello Stato effettivamente e indifferibilmente neutrale. In Italia, purtroppo, e si sa, non è così.
Quando, però, si sollevano alcune questioni, benché maturate nella calura estiva, accade che emergano realtà e contraddizioni inconfessate. E’ interessante, nel proposito, la lettura che Vendola dà di ciò che era diventato un obbligo di appartenenza politica quando, come il Governatore pugliese oggi sostiene, sin da bambino gli avevano insegnato che tra comunisti ci si chiama compagni e non amici.
E’ una confessione onesta, la sua, soprattutto perché non nasconde, come vedremo, il suo significato etico, prima che semantico. Ben vengano, così, le aperture a un più ampio ventaglio di opinioni e ben vengano, per essere in politica, anche i giudizi di merito.
Il bambino Vendola è nato e si è formato quando il comunismo era antioccidentale, antieuropeo, anti Nato e quando l’uomo forte del Cremlino, Breznev, sosteneva riguardo all’Italia, per essere la nostra tra le nazioni perdenti nell’ultimo conflitto mondiale, la sovranità limitata.
La sua educazione a sentirsi “compagno” si è sviluppata quando l’Unione sovietica era la guida internazionale per la lotta alla democrazia liberale e quando la lotta di classe avrebbe dovuto sovvertire lo stato borghese. E la morale sta tutta nella spiegazione successiva che Vendola oggi lealmente confessa d’aver colto, quando sostiene d’aver poi capito che il richiamo, tra comunisti, a considerarsi qualcosa di più di semplici amici “era stato un alibi per molti crimini".
C’è chi ne è stato consapevole da molto tempo prima di Vendola, e non ha avuto bisogno di travagli ideologici per mettersi alle spalle i propri errori e le proprie complicità.
Naturalmente è così per gli “amici” che non hanno mai avuto bisogno di un fine per trovarsi bene insieme. Avere idee simili o diverse non è poi un dramma esistenziale e tutto può benissimo andare avanti come prima.
Democrazia, in definitiva, è anche e soprattutto questo: è non dover essere necessariamente “compagni” o “camerati”.
Il termine “compagno”, invece, nella cultura comunista evocava (ed evoca) un obbligo maggiore. Implicava un vincolo molto simile, se non superiore, a quello della famiglia, soprattutto se riferito a una causa comune da sostenere, e certamente un significato diverso da quello che normalmente lega un gruppo di amici.
E se da un vincolo familiare rivengono convergenze di sentimenti, appare naturale che da un vincolo di finalità emergano convergenze di sentimenti ideologici, e da qui le complicità, l’omertà, il mutuo soccorso, la reciproca copertura, le giustificazioni morali, e persino l’illegalità, gli omicidi e le azioni violente e una lunga striscia in cui, in quel mondo, si è fatta prevalere la ragione del partito su quella delle coscienze degli individui.
Vito Schepisi

14 luglio 2011

E alla fine prevalse il buon senso

C’è voluta una pericolosa aggressione speculativa sui mercati finanziari per recuperare in Italia una parte del buonsenso perduto. La globalizzazione e la velocità delle comunicazioni oggi non concedono pause. Le economie dei paesi industriali e delle aree di grande interesse economico-monetario sono passate al microscopio e pesate sulle bilance della speculazione finanziaria.
E’ per questa ragione che le “narrazioni” di alcuni soggetti politici oggi fanno ridere. Le favole possono solo eccitare la fantasia, ma poi arriva la cruda realtà delle cose, ed è solo con questa che bisogna poi fare i conti.
In economia non c’è spazio, ad esempio, per la poesia e la fantasia vale sino a un certo punto. I costi, il welfare, la produttività, l’equilibrio dei bilanci, gli utili, le economie aziendali, l’efficienza produttiva, la concorrenza, l’elasticità dei mezzi finanziari, sono questioni che non fanno dormire la notte a chi ha sulle proprie spalle responsabilità aziendali, a chi tiene al futuro delle maestranze e delle loro famiglie e, nel caso più ampio, a chi tiene all’interesse nazionale. La fantasia in economia può servire a presentare bene un progetto aziendale e farlo adottare o per vincere un concorso di idee e acquisire commesse e lavori, ovvero per promuovere la vendita di beni e per far convogliare investimenti e finanziamenti.
Le parole d’ordine dei mercati sono stabilità politica e conti in ordine. Una maggioranza esposta ai condizionamenti delle opposizioni, e che non sia in grado di assicurare il necessario rigore sui conti, provoca turbamenti sui mercati, di solito in modo proporzionato alla sua tenuta complessiva. Più la maggioranza cede alle soluzioni demagogiche e più cresce il divario sulla fiducia del suo debito. Per uno Stato come l’Italia che ha il rapporto tra il debito pubblico ed il Pil più alto d’Europa, e secondo nel mondo industriale, la fiducia sul debito è una cosa importante. Basti pensare che lo Stato italiano, oggi, paga per gli interessi sul debito il 3% in più della vicina Germania. Questo divario si chiama fiducia. Il mercato stima la Germania più solvibile dell’Italia e per la legge della finanza, che vuole che al minor rischio corrisponda un minor rendimento, si può permettere di pagare molto meno il costo dei suoi titoli pubblici. Nel 2010 l’Italia, solo per gli interessi sulle obbligazioni rappresentative del suo debito, ha pagato oltre 70 miliardi di Euro. Un punto di differenza su 1890 miliardi di debito pubblico vale 18,9 miliardi di euro in più in un anno. Tre punti equivalgono all’intera manovra in corso.
I governi per tenere sotto controllo i conti pubblici hanno un solo mezzo: le leggi finanziarie. Le manovre di bilancio servono per assolvere gli impegni di contenimento assunti, e vanno fatte nei tempi previsti. Nessuno può fare il furbo senza pagarne le conseguenze. Truccare i conti o rimandare nel tempo gli impegni è un’esperienza che ha messo in ginocchio alcuni paesi europei. I conti in disordine non hanno scampo. Se una volta nelle città medioevali esisteva una colonna, chiamata di solito colonna infame, a cui venivano legati, ed esposti al pubblico ludibrio, i debitori, ora ci sono le agenzie di rating che assolvono lo scopo.
L’economia, come si è detto, non è una materia che impegna più di tanto la fantasia. Le fonti dei mezzi finanziari da acquisire sono, infatti, sempre le stesse: tagli alle spese, aumento della pressione fiscale e, in ultima analisi, la dismissioni di beni. Tremonti l’aveva detto già dal momento in cui si è insediato questo Governo, nel 2008: le finanziarie che si trasformavano in un assalto alla diligenza hanno fatto il loro tempo. Con il suo debito pubblico l’Italia può solo invertire il rapporto tra le entrate e le spese. Le formule magiche le hanno solo i pifferai e i maghetti delle illusioni. Ma i sogni, come si sa, si spengono sempre all’alba.
Vito Schepisi su DailyBlog

13 luglio 2011

Dopo la tempesta si fa il conto dei danni

Se si semina vento, si raccoglie tempesta. E’ il detto popolare che trae linfa dalle mille e mille esperienze fatte in tutti i lati del mondo, ma è anche la sintesi della scellerata diatriba tra maggioranza e opposizione in Italia. Sopra ogni cosa, infatti, ci sono sempre gli interessi nazionali. In Italia dovremmo occuparci un po’ di più della nostra immagine complessiva, invece non lo facciamo.
L’interesse nazionale riguarda tutti: ricchi e poveri, potenti e deboli, risparmiatori e sperperatori, politici e apolitici, lavoratori e disoccupati. Se il Paese retrocede, pagano tutti. E’ possibile che dal saldo del conto da pagare si salvino solo i furbi e i disonesti. Non è il caso, però, di render loro soddisfazione e di preoccuparsi per loro, tanto più che alcuni hanno la residenza fuori dai confini nazionali. Giorno dopo giorno, invece, usando anche metodi rozzi, c’è chi, per ragioni di furbizia politica, si è preoccupato di menare discredito sull’Italia, pensando di influenzare così il consenso popolare. E’ stato un metodo insulso per trasferire il confronto politico italiano in ambito europeo, per poterne poi trarre un giudizio di merito negativo da utilizzare in ambito interno. Una carognata, insomma! Un metodo che ha solo finito per mettere in cattiva luce il nostro Paese.
La forza devastatrice di un’opposizione pregiudiziale si è manifestata anche quando il governo si prodigava per intervenire a sostegno delle emergenze che sorgevano. Puntare al disastro del Paese non è soltanto folle, ma anche indegno, soprattutto quando ci si preoccupava di non far mancare il sostegno a chi perdeva il lavoro, e quando si raschiava sul fondo del barile per trovare le risorse necessarie ad assicurare un minimo di sostegno ai più sfortunati. Sull’altro piatto della bilancia c’erano il controllo della spesa e gli occhi del mondo, soprattutto di chi era pronto a cavalcare la speculazione.
Non è sembrata, così, commendevole un’opposizione, unica tra i paesi industrializzati, che si sia solo preoccupata di fornire una lente d’ingrandimento, spesso deformante, per far emergere anche i problemi che non c’erano. Certo che, nell’immediato, il metodo Prodi, quello di alzare le tasse, poteva essere il percorso più facile, ma la contropartita sarebbe stata pericolosa e poteva minare la ripresa riducendo gli investimenti, soprattutto in uno Stato con la pressione fiscale già al 43,5% del Pil, sotto solo a quella dei paesi scandinavi, senza averne però la struttura sociale e i servizi.
Nelle difficoltà di una seria crisi recessiva sui mercati internazionali, legata a doppio filo alla fiducia dei consumatori, nessuno sconto è arrivato dall’opposizione. Diffondere il panico in certi casi può essere come camminare con il cerino acceso nel mezzo di una pozzanghera di benzina.
Dell’opposizione non si salva nessuno, neanche quelli che fanno i moderati. Niente è stato risparmiato e sono stati usati tutti i mezzi e i pretesti, persino le ridicole accuse di derive autoritarie, per far cambiar direzione a un vento che invece soffiava a favore di un governo che risolveva i problemi e che aveva il consenso degli elettori.
L’Idv di Di Pietro, ad esempio, ha comprato pagine di quotidiani stranieri per diffamare l’Italia. Sono stati “usati” giornalisti di testate europee per far partire dall’Italia corrispondenze con contenuti e giudizi sul Paese e sul Governo che sono apparsi al limite della diffamazione nazionale. La stessa Inghilterra, attonita oggi per lo scandalo delle intercettazioni, ha letto a più riprese sulla sua stampa dell’esistenza di tentativi del Governo italiano di soffocare la libertà di stampa, e solo perché il Presidente del Consiglio, sentitosi diffamato, si rivolgeva alla magistratura per tutelare la sua immagine, o perché la maggioranza chiedeva in Parlamento il rispetto dell’art 15 della Costituzione Italiana (non della legge sulla misura delle banane!) sul diritto alla riservatezza delle comunicazioni tra le persone.
Un qualsiasi osservatore neutrale potrebbe con facilità verificare lo stato dell’informazione italiana. E sarebbe sufficiente un solo giorno dell’anno, uno a caso, e fornirsi di una penna e di un foglio di carta, per annotare tutto ciò che dicono in tv e che scrivono i giornali, per capire se c’è il pluralismo e dove ci siano eccessi di faziosità e di pregiudizio.
Di fatto c’è che mentre una crisi di proporzioni catastrofiche metteva in serio pericolo le economie dei paesi più forti, l’Italia riusciva invece a tenere ferma la rotta verso l’approdo in acque più meste. Ma più cresceva la meraviglia degli osservatori internazionali per le prove di serietà e di fermezza dell’Italia, e più cresceva la rabbia dell’opposizione, rafforzatasi con il disappunto di chi mirava al peggio per succedere a Berlusconi.
Se la buona tenuta del Paese aveva indotto la speculazione internazionale a gettare lo sguardo su altri paesi come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna, per rischiare di far precipitare le cose in Italia sono arrivate: la nuova ondata d’iniziative giudiziarie; la sentenza choc Mondadori; la tenuta della manovra finanziaria; i pettegolezzi sulla permanenza al Ministero dell’Economia di Tremonti; le ipotesi fantasiose di un governo diverso.
La morale è che sono gli stessi osservatori stranieri a ritenere insostituibile questa maggioranza e a considerare ogni ipotesi diversa come una pericolosa avventura. Soffiare sul fuoco del tanto peggio è stato ancora una volta un boomerang per l’opposizione, ma anche un danno per l’Italia.
Gli analisti economico-finanziari sostengono che in pochi giorni l’Italia si sia già giocata sui mercati buona parte della prossima manovra. Di certo l’aggressione giudiziaria, le beghe politiche e la stessa fibrillazione interna alla maggioranza non hanno giovato agli interessi del Paese. Di fatto il debito pubblico ci costerà qualcosa di più dei 70 miliardi annui di interessi sui titoli di Stato.
La manovra, ora, sarà approvata in tempi rapidi, senza l’estenuante ostruzionismo e, si spera, senza lo strapparsi le vesti in Parlamento. Nelle sue pieghe, come rilevato dai sindacati, dall’opposizione e dalla stessa maggioranza, ha questioni da rivedere. Per questo, c’è stata la disponibilità al confronto per modificare ciò che poteva essere corretto, cogliendo così il suggerimento del Presidente Napolitano. Cadono anche tutte le chiacchiere sui tempi, la manovra serve a mantener fede agli impegni presi per il pareggio di bilancio nel 2014, e ogni significato tattico legato alle elezioni nel 2013 è solo un’altra idiozia.
Vito Schepisi

04 luglio 2011

C'è chi dice no

“C’è chi dice no”, come canta Vasco Rossi, ma c’è anche chi dice si.
Se solo ci fermassimo un po’ a pensare, sarebbe difficile immaginare che esista una cosa al mondo in cui non ci sia chi si trova da una parte e chi, invece, dall’altra. Succede soprattutto nelle democrazie liberali, quando è garantita la libertà di esprimersi. C’è, però, e per fortuna, chi non dice sempre si, anche nei paesi con regimi dispotici ed illiberali, dove spesso si teme che persino il pensiero sia posto agli arresti.
Il mondo civile adotta un sistema per impedire che gli individui siano sempre in conflitto tra loro. Adotta la democrazia. La democrazia è una scelta di metodo che ha carattere definitivo. Erga omnes. Non può valere qua e non là, oppure oggi si e domani no.
La democrazia è come una convenzione che l’individuo tacitamente accetta sin dalla nascita. Non può essere diversamente. Nel momento stesso in cui si nasce in Italia si è vincolati a quella Legge dei principi generali che si chiama Costituzione della Repubblica Italiana.
La Carta Costituzionale è l’atto fondante della democrazia italiana. Questa Legge fondamentale deve essere simbolicamente tutt’uno con il certificato di nascita, e assegna a ciascuno, in modo indistinto, sia i diritti, che i doveri. E solo la Legge può prevedere che ci siano figure rappresentative che abbiano più facoltà ovvero più responsabilità, in relazione delle funzioni ricoperte e solo per la loro durata.
E’ possibile anche dissentire e rappresentare pubblicamente il proprio dissenso, ma sempre rispettando le leggi. Il dissenso è legittimo e non può essere impedito, né limitato nel tempo, né mai, però, trasformato in impedimento all’esercizio del diritto di chi invece in modo prevalente ha espresso una scelta diversa.
Ciò che non è consentito dalla legge, perché fuoriesce dal metodo del confronto, e perché reca offesa agli stessi principi della convivenza civile, è la violenza. Non è lecito il tentativo di imporre con la forza il proprio punto di vista, anche se largamente condiviso, ma che non sia, invece, prevalente. La democrazia, senza le leggi che ne prevedano l’esatto utilizzo, non funzionerebbe. La stessa civiltà, che non è una dote genetica, ma è da intendersi come una ricerca inarrestabile, ha un bisogno indifferibile d’interventi di prevenzione e di richiami agli articoli del codice penale. Se il codice vale per imprimere tutte le scelte di civiltà, ancor più deve valere per far consolidare la democrazia. Il sistema delle scelte si sostiene solo attraverso la legge. Non reggerebbe a lungo, infatti, senza rigore e senza irrorare le pene previste per chi commette reati.
I fatti accaduti in Val di Susa richiamano così responsabilità soggettive, ma anche quelle oggettive, e le une e le altre non possono restare prive di una severa risposta democratica. Non si può consentire che le forze dell’ordine, chiamate a presidio dell’esercizio del diritto, per lo Stato, a fare le sue scelte strategiche, condivise in un ampio confronto democratico con gli organismi territoriali preposti, siano bersaglio di violenza e di offesa. Non si può neanche consentire che ci sia chi faccia apologia di tanto evidenti reati. Pietre, bottiglie piene di ammoniaca, aggressioni fisiche, sono un pericolo per la vita e per l’integrità fisica delle persone. Possono provocare anche grandi lesioni e persino la morte.
Chi scatena e sostiene l’uso della violenza è contro la legge e deve essere, pertanto, chiamato a risponderne.
Vito Schepisi

01 luglio 2011

Una cura dimagrante ipercalorica per il San Nicola di Bari

La domanda che sorge spontanea è cosa ci sia dietro. Non era mai capitato, fino ad ora, di dover pensare ad una dieta ipercalorica per ridurre le dimensioni d’un corpo. Si tratta dello Stadio San Nicola di Bari, costruito nel 1987, su Progetto dell’architetto di fama mondiale Renzo Piano, per ospitare una semifinale del mondiale di calcio Italia ’90. L’amministrazione comunale s’è accorta che è troppo grande e che ha costi di gestione troppo alti e vorrebbe metterlo a dieta.
Il san Nicola è uno stadio ancora nuovo, realizzato con tecnologie moderne, con ampi spazi e con una capienza di circa 60.000 posti. Una struttura sportiva, con ampie zone di parcheggio circostante, ben integrata in un ambiente di verde tipico rurale della campagna pugliese (prevalentemente alberi di ulivo), alternato da agiati spazi residenziali realizzati nel verde con un basso coefficiente edilizio. La collocazione gode di collegamenti agevoli con la rete viaria di grande comunicazione (uscita dell’autostrada e circonvallazione nord-sud di Bari) e comodamente raggiungibile da tutte le zone della città e della provincia. La zona dello Stadio, inoltre, del tutto al di fuori della viabilità tipicamente urbana, e quindi dal caos del traffico, è a ridosso di insediamenti residenziali con un’alta quotazione commerciale degli immobili. E’ facile pensare, pertanto, che la valorizzazione della zona possa influire pesantemente sulle quotazioni immobiliari fino ad ipotizzare una netta moltiplicazione del valore di mercato delle aree circostanti.
Il San Nicola, alle soglie degli anni 90, è costato 100 miliardi di vecchie lire, ma ha lasciato in piedi pendenze per 18 milioni di Euro. Tanto è stato stabilito dal Tribunale di Bari, su istanza del consorzio Stadium che aveva chiamato in causa il Comune, per farsi riconoscere i maggiori costi dovuti alle varianti ed ai ritardi causati dall’Amministrazione, in un contenzioso che dura da oltre 20 anni.
Il Comune di Bari ha allo studio, pare avanzato, un progetto per differenziare l’utilizzo dello Stadio e per ridurre la sua capienza da 60.000 a 40.000 posti. Le motivazioni addotte sono gli alti costi di gestione e lo scarso utilizzo della struttura (quasi esclusivamente le partite giocate in casa dalla squadra del Bari che, tra l’altro, il prossimo anno gareggerà nel campionato di serie B). L’idea è quella di spendere un centinaio di milioni di euro, ma si sa come vanno certe cose, si parte con cento e si finisce con lo spendere il doppio e, come è già capitato, col trascinarsi contenziosi che durano decenni. Così che ne possano trarre godimento anche gli studi legali, quasi sempre gli stessi, mentre a pagare il conto saranno sempre gli stessi contribuenti.
Dalle anticipazioni dell’assessore comunale Elio Sannicandro ci è dato di sapere che è stato sottoposto al parere dell’Architetto Renzo Piano uno studio di fattibilità su un progetto di riutilizzazione della struttura, con la riconversione di alcune parti in edifici da adibire a Hotel (due a cinque stelle), a ristoranti (due), oltre ad un centro commerciale ed ad un parco giochi. Le modifiche sottrarranno all’attuale complesso, oltre ai 20.000 posti, anche l’utilizzo della pista di atletica.
Per ridurre i costi per la manutenzione (ma sarà proprio così?) si pensa di spendere duecento volte tanto, ma si soddisfano gli appetiti dei palazzinari di Bari. Basterebbe informarsi su chi sono le imprese che hanno in atto lottizzazioni nei pressi dello Stadio per farsi un’idea, come non è difficile immaginare quali imprese realizzeranno e gestiranno le nuove opere.
Le famiglie dei palazzinari di Bari sono tutte numerose, anche se è difficile pensare che siano anche bisognose. Hanno una caratteristica, però: non fanno mai la dieta.
Vito Schepisi