25 giugno 2007

Veltroni: ritratto dell'effimero



Sembra che a sinistra si stia predisponendo un’ulteriore sceneggiata e per la rappresentazione scenda in campo il cinefilo più noto della nostra repubblica. In Italia, per una sinistra che non decide, bloccata dalle forze estreme che vorrebbero lo stivale europeo fuori da tutto, dall’economia di mercato e dalla libera impresa, alla Nato e all’Europa, si avrebbe bisogno di uomini di carattere che sappiano assumere anche decisioni impopolari ma importanti. Uomini dal piglio deciso, meno inclini a compromessi, con le idee chiare già formate e non con l’idea di seguire il corso della voce più grossa.
La penisola ha bisogno di riforme, soprattutto nell’ambito di scelte di modelli di sviluppo, non ha invece bisogno di mediatori e pifferai e neanche di venditori di fumo. Nella sinistra ce ne sono già tanti! Non ha bisogno di concerti e giochi di luce, né di artisti di strada; non ha bisogno di beati ridanciani che si divertono mentre il popolo arranca e si indigna.
L’Italia non necessita di uomini che vivono da sempre di ostriche, champagne e politica, a dispetto del pane e cicoria di Rutelli. Ha bisogno di personale politico che nella vita si è rimboccato le maniche e che è abituato a lottare nel suo spazio di impegno nella società civile. I cittadini del “bel paese” vorrebbero liberarsi di coloro che hanno adottato la politica come mestiere facendone strumento di privilegi e successi personali, di agi e potere, per nepotismi e clientele. Non avrebbero, quindi bisogno di uomini come Veltroni, politico a tempo pieno prima del Pci, poi del Pds, ora dei Ds e domani del PD.
Veltroni è un riciclato. E’ stato Vice Presidente del Consiglio, con delega allo sport al cinema ed alla cultura, con Prodi nel suo primo governo nel 1996 e segretario dei DS fino al 2001, l’anno della sconfitta, per poi ritirarsi dopo il fallimento del primo Prodi e dei compagni D’Alema e Amato. Caduti nel 2001 i governi di centrosinistra sommersi dall’indignazione degli italiani per l’incoerenza, le bugie, l’inefficienza e le vessazione fiscale, Veltroni si è rifugiato comodamente all’ombra della lupa, nella città di Romolo e Remo, del ratto delle sabine, e dell’impero più vasto e famoso della storia: l’Impero Romano. Ha vinto le elezioni a sindaco per una manciata di voti sull’azzurro Tajani, e lui era Veltroni, già uomo di punta del Governo, uomo potente e segretario del partito più corposo della maggioranza di centrosinistra. Aveva detto di se che si ritirava dalla politica per dedicarsi alla denuncia delle condizioni dell’Africa nera. Era solo un ripiegamento, però. Una furbizia perché, come si sa, gli italiani dimenticano presto.
Da Roma sotto i riflettori della notorietà ha ricostruito la sua immagine, anche ignorando i problemi della città, tessendo una rete di compiacenze e facendosi investire dal dono dell’ubiquità. Come una volta per i sindaci democristiani delle città del sud, era dappertutto a tagliare nastri e svolgere stucchevoli compitini di buonismo verbale. Qualche viaggetto in Africa per parlare di miseria e dolore con il pietismo di colui che documenta le orrende realtà della terra, e perché si parli di lui come persona sensibile alle grida del mondo che soffre.
Nel 1988 entrò a far parte del comitato centrale del partito comunista italiano, nell’adolescenza era iscritto alla federazione giovanile comunista e nel 1976 consigliere comunale comunista a Roma, eppure dice di se di non essere mai stato comunista. Un ingrato compito quello degli ex comunisti obbligati persino a negare l’evidenza delle cose!
Non è stato ancora investito della funzione di leader del PD, non ha infatti sciolto la riserva, e già parte in trasferta a implementare la sua immagine di uomo sensibile verso chi soffre e si impegna a trasformare il dolore in virtù: è già sulla tomba di Don Milani con Franceschini, il capogruppo dell’ulivo alla Camera, dopo aver avvisato i giornalisti, per inviare il suo messaggio di impegno nel sociale.
E’ partita la macchina della (dis)informazione della sinistra. Sul nuovo soggetto politico si giocano le carte dei post marxisti che dismesso il Capitale di Marx, abbandonati gli steccati ideologici, fuori dai principi classisti su cui si è chiuso il ventesimo secolo, si apprestano ad affermare la laicità della funzione politica. Coniano allo scopo nuove definizioni del laicismo e ne inventano uno spazio tutto nuovo dove le origini e le culture si mischiano. Ed a Veltroni attribuiscono la capacità di rimescolare le diversità, di assecondare le idee con l’ambizione di trasformare in nuovi impulsi le certezze che erano di tanti, soprattutto per mascherare le sue di un passato non troppo lontano. Resta invece la consapevolezza che senza le scelte la politica non cammina. Senza scelte nulla si muove e si resta al palo di ogni appuntamento con la storia dei popoli. La filosofia spesso passa come un vento che ispira sensazioni, si ferma alle idee ed al pensiero, risponde alla sete di sapere e di definire i confini dell’etica. Ciò che rimane però è il percorso di un popolo: è la sua storia fatta di uomini e imprese.
E se Veltroni si scostasse dal metafisico per dirci ciò che non conosciamo di lui, a parte l’effimero?
Vito Schepisi

22 giugno 2007

Alea acta est: la sinistra si affida a Veltroni


Alea acta est. La sinistra deve uscire dal “cul de sac” in cui è finita, anche grazie alla inconsistenza della controfigura adottata per presentarsi alle ultime politiche. Prodi si è montato troppo la testa e si è sentito davvero leader della sinistra. Si è sentito investito di una statura che non gli è mai appartenuta per esser stato solo uno strumento, per quanto arrogante e supponente, di strategie e poteri che sono al di sopra di lui. Aveva ed ha solo la dimensione di un boiardo di stato: una figura minore, spregiudicata e sfrontata, in cui la baldanza è stata al passo della sua involuta ed enfatica prosa. La sinistra ora ha fretta di liberarsi di Prodi. Questi, smascherato dagli italiani, è ora la sua carta perdente. Alcuni dei luogotenenti e padri fondatori della nascente nuova creatura politica, il Partito Democratico, pensato anche per affrancare dalla tara che grava su molti di loro per esser stati in Italia tra i fautori del comunismo, stanno pensando di creare le condizioni per un trapasso indolore. Sanno che il tempo non gioca a loro favore ed ogni giorno che passa significa un ulteriore calo di popolarità e di credibilità politica nel Paese.
L’elemento determinante e responsabile del collasso della sinistra non è ciò che D’Alema ha chiamato “crisi della politica”, ma è la delusione delle aspettative che Prodi e la sinistra intera avevano creato prima delle elezioni. Un programma enfatizzato ma prolisso e vago, la certezza gridata di implementi nel sociale e nei servizi, la demagogica illusione creata di far coniugare lavoro e sicurezza con impresa e mercato, come se fosse una semplice formula magica, ed infine l’immagine di un paese al collasso finanziario, coi conti saltati, debito in crescita, fuori dai parametri, al collasso. Un cumulo di bugie e di inganni. Come la favola di Fedro dove si evocava ripetutamente la paura del lupo. Ora la gente ha preso le dovute misure ed al lupo evocato per celare l’eterogeneità di una maggioranza divisa e litigiosa non ci crede più.
L’Italia non crede più a questo Governo che insediatosi per “rendere felici gli italiani” innesca invece un’azione che s’abbatte come una scure sugli italiani: incrementa la spesa pubblica; appesantisce la pressione fiscale; ridimensiona il taglio del cuneo - tra tasse e previdenza - promesso ad imprese e lavoratori; abbatte la spesa sociale verso le categorie più deboli; mette mano alle buonuscite dei lavoratori (TFR); apre le frontiere all’immigrazione selvaggia; moltiplica ed occupa le poltrone; offende e calpesta i servitori dello Stato; alimenta sfiducia e preoccupazioni nelle famiglie; rende invivibili le strade delle nostre città; modifica i valori della nostra civiltà; raffredda la rete di alleanze internazionali che garantiscono la nostra sicurezza internazionale; si intreccia coi percorsi della finanza per determinarne le scelte; tratta i cittadini come sudditi e servi; mostra fastidio per le dimostrazioni di disapprovazione spontanea che si alzano dai consessi democratici e dalle piazze.
Prodi non è che la punta dell’iceberg, il collasso è di tutta la sinistra ma è lui che l’ha compattata tra il diavolo e l’acqua santa. E’ lui che pur di ottenere una maggioranza elettorale ha mischiato le carte truccate facendo apparire un poker nelle mani di ciascuno. Ora è lui che deve mettersi da parte, è lui che deve lasciare sul tavolo il bottino di un ruolo politico ottenuto barando al gioco.
La sinistra è nuda dinanzi alla consapevolezza del suo fallimento ed è pronta ad assoldare chiunque sia funzionale allo scopo di liberarsi del principale responsabile del collasso. Si è servita del Partito Democratico e della riunione dei 45 per deliberare, al contrario della volontà di Prodi, la nomina ad ottobre attraverso le primarie di un leader forte, investito dal consenso del popolo della sinistra. Anche questa volta, però, si gioca una partita truccata e nessuno gioca davvero le sue carte. La scorsa volta si volle che apparisse un plebiscito per Prodi e lo proposero come unico candidato delle due forze più consistenti della sinistra DS e Margherita con l’aggiunta di qualche satellite.
L’altra volta fu per Prodi, ora si cambia e si lancia nuovamente il dado della fortuna. Il dado, però, anche questa volta ha i sei lati truccati. Da ogni parte spunta la faccia dalle gote cadenti di Veltroni, l’amerikano dei post comunisti, il cinefilo o come dice Bossi il sindaco di cinecittà. Rintanatosi a Roma a fare il primo cittadino della città più nota del mondo, defilato dalla lotta politica attiva per scelta, impegnato invece a costruire la dimensione della sua immagine per riemergere a tempo debito per puntare più in alto. Veltroni Walter, l’ex iscritto al pci che ha detto di se di non essere mai stato comunista.
Si prepara a spuntare da dietro il sipario: è il cigno bianco che danza sulle punte. Ritorna sulle scene di un teatro che oggi ha un pubblico poco incline ai balletti, per quanto raffinati e seducenti. C’è una platea di problemi e di scelte dove non servono danzatori ma interpreti dal carattere deciso e dal coraggio proprio delle scelte forti, senza le scarpette di danza ma con le suole resistenti per affrontare percorsi difficili, tra pietre e cumuli di spazzatura. “I care” è una storia passata, un film già visto, una trama senza una fine comprensibile. Non si pretende un lieto fine ma una nuova speranza, una spinta di orgoglio, un ruolo che sia all’altezza del coraggio e dell’ingegno dei nostri uomini. Veltroni, invece, appare un prodotto riciclato, un altro personaggio uscito dal cilindro dei prestigiatori politici della sinistra. Un concorrente che si prepara a scendere in campo sapendo di avere la partita già in tasca, un unto investito da un falso consenso, una scelta obbligata.
Una nota positiva emerge, però, da questa nuova stagione della politica italiana, a meno di ripensamenti e miracoli dell’ultimo momento ci stiamo liberando di Prodi: il peggiore. Alea acta est: questa volta non sarà lui a far andare di traverso il panettone delle feste di natale. Il Governo di Prodi Romano non ha più senso, anzi col nuovo corso sarebbe davvero un controsenso.
Vito Schepisi

20 giugno 2007

Pane e Partito Democratico



Non passa giorno in cui la stampa nazionale e le televisioni Rai e Mediaset non propinino agli italiani pillole di Partito Democratico. Dopo la sconfitta elettorale alle amministrative sembra diventata la stanza di compensazione delle carenze della sinistra italiana. Rutelli ha finito di mangiare quel “pane e cicorie” di un tempo quando si impegnava a mettere su il giocattolo che Prodi voleva utilizzare a suo fine. Ora si nutre di pane e partito democratico: la pietanza ricostituente di una sinistra in difetto di linea.
“U bell guaglione” come l’ha battezzato il suo “cortese” alleato Romano Prodi, ha sparigliato le carte del Professore di Scandiano. E’ da allora che medita il momento della rivalsa. L’ultimo round se l’è aggiudicato lui su di un Presidente del Consiglio indebolito dalla sconfitta elettorale e dal precipizio della sua popolarità nel Paese.
Prodi voleva per la reggenza del Partito Democratico una figura più sbiadita, nominata su sua indicazione dal comitato dei 45, una figura priva di un largo consenso popolare. Un uomo a lui gradito, scelto dai vertici, soprattutto un uomo che contasse poco o niente e magari polarizzasse sulla sua persona lo scontento diffuso nel Paese, compresa la scarsa presa che si avverte sul nuovo soggetto politico. Non pensava, invece ad un candidato eletto dal popolo della sinistra con l’investitura delle primarie e con la forza e le garanzie di legittimità rivenienti dal consenso della base.
E’ passata invece la linea di Rutelli per l’elezione diretta attraverso il sistema delle primarie. E’ il Francesco Rutelli che mette da parte il pane e le cicorie della sua cucina per arricchire le pietanze della sua dispensa. La strategia, e non è un mistero per nessuno, è la sua candidatura alle primarie di ottobre alla guida del Partito Democratico, in contrapposizione a quella di presumibili candidati diessini. Il leader della Margherita non solo si propone di vincere la partita interna al suo partito, dove gli ex popolari condizionano la sua leadership, ma vuol rendere concreta la sua ambizione di rappresentare tutta l’aria moderata dell’attuale Ulivo. Dal prevedibile confronto del leader della Margherita con il/i candidati diessini emergerebbe una guida forte del futuro soggetto politico sui due assi portanti del Partito Democratico: il popolare ed il socialista. Dallo stesso confronto, infine, dovrebbe uscire la candidatura dell’intera sinistra per la guida del nuovo governo. E’ questo lo spazio in cui si gioca la partita ed i giocatori sono oramai alla stretta finale. C’è chi scommette che nella strategia di Rutelli ci sia anche uno spazio per il partito di Casini e l’apertura al centro dello schieramento avversario.
Prodi a questo punto sembra proprio finito. La sua candidatura sarebbe improponibile o destinata ad una cocente sconfitta. La sua è una figura oramai perdente, senza presa e senza carisma. Eppure qualche settimana fa aveva detto : "D'ora in poi cambia la musica. O si fa come dico io, o prendere o lasciare". Aveva detto che lasciava nel 2011 dopo la corrente legislatura ed anche che il leader del Partito Democratico ed il Capo del Governo erano figure che riteneva dovessero coincidere per dare forza e credibilità all’uno ed all’altro dei due incarichi. Prodi si sentiva leader naturale del Partito Democratico e si era candidato alla sua guida, senza ulteriori conferme della base, mantenendo la presidenza del Consiglio dei ministri. Un vero re e senza ulteriori pretendenti al trono: una gran presunzione. Sarà per questo che quando Berlusconi ha lanciato la battuta sul “regicidio” si è sentito investito.
Le cose sono andate diversamente da quanto previsto. I 45 “saggi” del nascente partito democratico hanno stabilito di scindere le due figure quella di leader e quella di premier. Quel che è buffo e che Prodi, travolgendo il peso ed il significato delle sue dichiarazioni precedenti, ha parlato di un grande successo politico, enfatizzando persino le conclusioni del comitato dei 45 costituenti. E’ stato reso pubblico persino il decalogo organizzativo e costitutivo: siamo al preludio della vera proposta politica di fusione della sinistra moderata e di quella post comunista.
Questo round quindi è di Francesco Rutelli, ma già c’è chi si chiede se la partita finirà per essere aggiudicata ai punti o per k.o. tecnico. Le voci di crisi ed il calo dei consensi hanno ridotto al lumicino le possibilità di vittoria della sinistra e persino la durata della legislatura. I candidati dei Ds, in un primo tempo in fermento, certi del prevalere di uno di loro, sembrano ora defilarsi dalla competizione. Nessuno vuole farsi trovare col cerino acceso in mano e quindi scottarsi. Ora le possibilità di vittoria tra gli elettori sono scarse o nulle e tutti vorrebbero che a questo punto fossero gli altri a prendersi la croce. Anche D’Alema e Fassino propongono ora Veltroni. Il sindaco di Roma, però, sente odor di bruciato e nicchia: ha ancora una metà legislatura da farsi come sindaco della capitale d’Italia, e con i riflettori della notorietà e del prestigio che l’incarico comporta.

19 giugno 2007

Nessun bavaglio alla libertà di stampa



“Non lo posso vedere ma questa volta ha ragione”: è un modo di dire che in questa circostanza ha una sua valenza. Ci si riferisce a Di Pietro ed alla sua dichiarazione: “non staremo un minuto né al Governo né con quella maggioranza che ritiene di fermare il lavoro dei magistrati e imbavagliare quello dei giornalisti”. Come forma è discutibile ma è la sostanza che conta. Peccato che Di Pietro sia il personaggio che in un anno è arrivato persino a sospendersi da ministro, prassi fino ad ora del tutto sconosciuta, e che tuttora non si capisce in che modo si sia concretizzata. Di Pietro, si sa, non ha solo difficoltà col congiuntivo ma spesso anche col buon senso e con la coerenza. Pone dubbi ed incertezze su questioni che puntualmente vota sia in Consiglio dei Ministri che in Parlamento. Si spera, però, che questa volta faccia sul serio e tolga la fiducia ad un Governo che per rilanciare il Partito Democratico e l’affidabilità dei suoi uomini si accinge a votare per il bavaglio all’informazione e nascondere così le malversazioni della politica.
Al contrario di come la pensa Di Pietro, però, l’accento non sarebbe da mettere sulle premure della magistratura per una riforma dell’ordinamento giudiziario che lasci tutto come prima, se non peggio: ciò che più importa, invece, è soprattutto la libertà di stampa. I primi sono una corporazione potente, non hanno necessità di eccessivo sostegno alle loro prerogative. Hanno una organizzazione piuttosto autonoma ed un organo, il CSM, controllato dai loro rappresentanti. Agiscono, come si è visto, anche in modo irresponsabile in considerazione dei poteri che esercitano. Dovrebbero svolgere il loro mestiere nella riservatezza e assicurando le garanzie democratiche sia nei confronti delle persone indagate, sia verso le parti offese che quasi sempre coincidono con l’interesse pubblico. A volte, però, accade il contrario, specie quando l’attenzione passa dal servizio da rendere alla Giustizia, all’esercizio di un ruolo politico tale da far supporre che i magistrati né sembrino e né siano davvero indipendenti.
L’attenzione maggiore, invece, va alla stampa che dovrebbe essere in grado di informare con onestà sui fatti della politica e della cronaca e non sugli “scoop” fatti di chiacchiere o supposizioni infamanti. Non può concepirsi la condanna di chi riferisce fatti che corrispondano alla realtà delle cose. Sarebbe davvero un insulto al buon senso.
Se gli indagati, e coloro che si accordano su beghe e scalate, non hanno interesse ai riflettori della stampa libera si astengano dall’agire in modo da doversene successivamente vergognare. Non è un’opinione qualsiasi ma è sostanza del viver civile.
Sia ben chiaro, però, che informare non significa pubblicare il contenuto delle conversazioni riservate ed attinenti la sfera privata, non centra con i pettegolezzi di coniugi e figli al telefono di casa o sui cellulari, e neanche con le moine fatte alle amanti o le confessioni delle mogli deluse. Intercettare conversazioni private è illegale per tutti i cittadini e dovrebbe esserlo anche per magistrati e per i servizi dello Stato.
L’uso del sistema delle intercettazioni dovrebbe essere utilizzato con molta più parsimonia e dinanzi a questioni di una certa importanza, previo un sistema di autorizzazioni e con il controllo delle Procure sui modi, ma soprattutto sugli usi, con un protocollo che andrebbe formalizzato attraverso una normativa adeguata e non solo col controllo delle spese da parte della Corte dei Conti. L’uso delle intercettazioni diffuso a pioggia, spesso frivolo, serve solo a far emergere l’inutilità del mezzo e renderlo così inefficace ai fini dei sistemi di formazione degli indizi e delle prove.
Se si trattasse di impedire che si faccia uso e mercato di intercettazioni illegali sarebbe giusto e non esisterebbe il problema. Tutto ciò che è illegale, come tutto ciò che è privato, non dovrebbe essere assolutamente diffuso e chi trasgredisse dovrebbe pagarne le conseguenze sia economiche che penali.
Tutto ciò che invece attiene l’attività finanziaria, dove pochi gestiscono in modo privato i beni di tanti, avrebbe bisogno di maggior trasparenza. Se vi siano motivi per ritenere attraverso indizi importanti, come ad esempio disponibilità di somme di ingente valore costituite all’estero, come è accaduto per gli amministratori di Unipol, la cui provenienza poteva esser ritenuta sospetta, sarebbe anche lecito che si sappia chi ne ha disposto e per quali fini e chi siano coloro che interferiscono nella gestione.
E’ giusto che il popolo elettore sappia cosa fanno partiti e candidati che si propongono di rappresentare il loro voto in Parlamento o in altri consessi elettivi. Se servono le intercettazioni telefoniche su esponenti del mondo della finanza e dell’impresa per conoscere come agisce il mondo politico quando, anziché proporre soluzioni nell’interesse di tutti, si attiva per garantire gli interessi di parte, siano benvenute queste fonti di informazione. Le scalate, i giochi finanziari all’ombra dei poteri e dell’influenza delle banche sappiamo che in Italia servono a drenare i risparmi della povera gente per investirli in avventure e megalomanie di alcuni. Servono a ricostituire capitali dispersi e sofferenze finanziarie occultate.
Nel passato col denaro pubblico, tutto a carico del debito complessivo del Paese, che viene assolto col consueto prelievo fiscale di chi produce reddito, si sono rilevate aziende in crisi che sono state successivamente cedute, spesso agli amici, a prezzi da realizzo, dopo averne ripianato le grosse perdite. Un po’ come era previsto per Telecom con il Piano Rovati, redatto su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quel Piano che il Presidente del Consiglio Prodi in Parlamento ha sostenuto di non aver mai conosciuto e tanto meno ispirato.
Non è pensabile che col pretesto di evitare i veleni e lo stillicidio di informazioni spesso costruite ad arte, si vogliano nascondere all’opinione pubblica le deviazioni dei percorsi della politica che da essere uno stimolo del confronto democratico diviene strumento di privilegi di uomini votati al potere.
Vito Schepisi

18 giugno 2007

Un'aria irrespirabile!

Appare singolare che quando è il Paese ad avvertire un gran disagio per questo Governo e mantiene una posizione critica e di sfiducia per il Presidente del Consiglio, considerandolo inadeguato alla guida del Paese, il premier Prodi accusi l’opposizione di rendere irrespirabile l’aria. I sintomi di malessere degli italiani sono evidenti ed i segnali di dissenso dall’azione di Governo si sono palesati anche con il test elettorale amministrativo che ha interessato 12 milioni di elettori. Sembra proprio strano che Prodi e la sua maggioranza non se ne rendano conto o facciano finta di ignorarlo. E’ vero che è diventata una costante apprendere che Prodi accusi sempre gli altri di tutte le responsabilità possibili, alcune anche inventate e costruite ad arte, come abbiamo visto nell’ultimo confronto elettorale per le politiche.
L’attuale leader del centrosinistra non fai mai autocritica ed ignora puntualmente le proprie responsabilità, e non solo quelle politiche. Basti ricordare che come amministratore di enti di Stato ha svenduto i beni di famiglia dell’Italia, anche ai suoi imprenditori amici, trattando il Paese a guisa di un povero diseredato al banco dei pegni del Monte di Pietà. Ha un brutto carattere, è astioso e poco incline alle battute degli altri. Impacciato ed involuto atteggia il suo volto al sorriso solo quando si lascia andare alle sue battute che non divertono proprio nessuno. Ha i riflessi lenti, dice d’aver bisogno di tempo per dispiegare il suo pensiero ed è per questo che teme persino il confronto con gli avversari politici.
In democrazia, invece, l’opposizione ha il dovere di pungolare il governo e di puntare i fari accesi sulle sue contraddizioni. Se non lo facesse disperderebbe la sua funzione democratica e mortificherebbe il mandato degli elettori. E’ una cultura, quella della insofferenza ad ogni critica dell’opposizione, che non si può far passare sotto silenzio. E’ il modo classico dei paesi soggiogati dai regimi dispotici quello di attribuire le responsabilità ai dissidenti. E’ accaduto in Urss ai tempi delle purghe di Stalin. E’ accaduto in Cina, dove si accusava la famigerata banda dei quattro.
In Italia invece c’è il “dissidente” Berlusconi, capo dell’opposizione, accusato anche di inquinare l’aria. Ma c’è un’Italia che davvero annusa un’aria irrespirabile, l’Italia che lavora e investe, che suda e fa sacrifici, che avverte le vessazioni di un fisco vorace. L’Italia che avverte le difficoltà nel pensare al futuro e che ritiene che quest’aria sia morbosa ed irrespirabile per la presenza di una maggioranza senza un chiaro percorso politico, senza progetti ed unità d’intenti, una maggioranza che non è mai stata politicamente tale. E forse neanche numericamente!
Non può passare senza indignazione la logica involuta di un autoritarismo, non solo verbale, di un premier di mediocre spessore. Non si può sottacere dinanzi alle reiterate espressioni di sopruso ed intolleranza che riflettono i modi della peggiore ed ormai vetusta e biasimata retorica reazionaria di un’epoca passata. Una cultura della contrapposizione che trae origine dalla eterogeneità di questa maggioranza in cui sembra prevalere il modello di società chiusa, fatta di certezze granitiche e di infallibilità, con idee precostituite sul crinale di soluzioni ideologiche che rimarcano l’opzione marxista.
Sembra prevalere la tradizione di quella cultura leninista tanto cara a Togliatti, il Migliore, in cui non si ammetteva d’aver sbagliato neanche sotto tortura: perché doveva sempre prevalere la ragione del Partito. E’ questa la scia su cui Prodi preferisce lasciarsi trasportare e senza alcun imbarazzo. Non sembra neanche tanto difficile per un uomo con una consolidata abitudine a mentire e con la maldestra maniera di proporsi a vittima della opposizione.
Vittime, però, sono l’Italia ed i suoi cittadini. E’ vittima almeno il 50% degli elettori che è stato ignorato, arrogantemente ed impudicamente da un Presidente del Consiglio e dai suoi alleati che hanno occupato il Paese in modo invadente e vendicativo. Un maggioranza di Governo stretta dalla sinistra alternativa, tra una politica estera multilaterale, e per giunta fortemente strabica, ed una interna che vede le città in balia di bande organizzate di malaffare di importazione. Un Governo in bilico tra privilegi alla grande impresa, a banche e cooperative, e le vessazioni verso contribuenti e piccoli operatori economici; tra l’intolleranza alle libertà formali, e l’esercizio di proteste di piazza contro il Governo da parte degli stessi ministri che lo compongono; tra politiche repressive ed altre esageratamente permissive. Un Presidente del Consiglio impegnato solo a rafforzare la cerchia dei poteri che lo mantiene in piedi, sordo persino agli appelli preoccupati che provengono dall’interno della sua stessa maggioranza.
Prodi lamenta la mancanza del dialogo con l’opposizione, quasi fosse questa a dover sostenere il suo dicastero. Dovrebbe, invece, spiegare al Paese come può pretendere il dialogo se sin dal primo momento ha avuto tra le ragioni del suo Governo quella di modificare il lavoro del precedente: la cosiddetta discontinuità.
Dovrebbe dar ragione della occupazione bulgara delle istituzioni con personaggi politicamente schierati e con la rimozione di funzionari indipendenti e professionalmente capaci: è stato lottizzato in maniera selvaggia ogni cosa, persino ministri e sottosegretari in numero da record. C’è stata anche la rimozione, giustamente respinta dal Tar, di un Consigliere della Rai, inopportunamente ed arrogamene rimosso, con un editto davvero bulgaro del Ministro dell’Economia. Prodi dovrebbe dar conto dell’indecente manovra per salvaguardare il posto di Vice Ministro ad un signore che ha sbagliato epoca e Paese e che farebbe meglio a guardarsi intorno e chiedere in giro cosa sia una democrazia liberale.
Non abbiamo bisogno di federali che impartiscano ordini e calpestino dignità e legalità con maldestra arroganza. Non abbiamo bisogno di avvocati d’accusa che in Parlamento svolgano indegne requisitorie contro onesti servitori dello Stato.
Cosa si possa pensare di un Governo che si riunisce per discutere di una battuta del capo dell’opposizione? E’ davvero scandaloso che un Consiglio dei Ministri perda tempo, invece di lavorare su ben altro, per replicare in modo accigliato alla battuta di “regicidio” pronunciata da Berlusconi alla sua fan che gli chiedeva di tornare al Governo. L’aria è davvero irrespirabile! Prodi tolga il disturbo per bloccare l’asfissia del Paese.
Vito Schepisi

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14 giugno 2007

Follini: la stampella di Prodi



Non si sa se Follini l’abbia pensata di recente, ma quando era nell’Udc, appena un anno fa, si è candidato con questo partito ricevendo i voti, che l’hanno promosso senatore, dagli elettori della Cdl e del centrodestra. Di suo non contava un bel niente. Ora si accorge di essere un fautore della vecchia democrazia cristiana che guarda a sinistra. Eppure anche un anno fa la Cdl era schierata sul centrodestra. Un anno fa esisteva già l’Ulivo ed all’interno una componente politica di estrazione democratico cristiana che si schierava con il centrosinistra. Il buffo è che ha sostenuto di non temere l’accusa di tradimento. Ma stia tranquillo il senatore Follini, nessuno pensa che quelli come lui arrivino a temere d’esser ridicoli! Spericolati, forse, e coriacei nella loro faccia tosta.
Folgorato sulla via di Damasco, il nostro, o coinvolto dal fallimento di un azzardo politico? Da segretario dell’Udc, il peggiore, ed esser più inconsistente di Cesa significa molto, aveva tentato il colpaccio. Approfittando di un incarico istituzionale di alto profilo concesso dalla Cdl a Casini, ha ritenuto che non ci fosse dimeno da chiedere se non la testa di Berlusconi e la restaurazione della nuova democrazia cristiana, allora però in contrapposizione alla sinistra. La via di Damasco deve esser proprio molto articolata e deve essere anche abbastanza assolata. Solo un’insolazione, infatti, poteva provocare un così sgradevole rimescolamento di pensieri e strategie.
Ha sostenuto la discontinuità nella proposta politica della Casa della Libertà, senza però mai spiegare come dovesse svilupparsi. In molti infatti ne hanno tratto la convinzione che fosse l’espressione dell’idea tutta folliniana di sottrarre la leadership a chi aveva credibilità politica e soprattutto elettorale, per sostituirla con quella di un altro leader politico. Non si osa, però, credere che intendesse sostituire la leadership di Berlusconi con la sua candidatura. Sarebbe proprio un vero peccato di presunzione! E senza neanche rendersi conto di essere accreditato di cifre appena decimali!
Follini aveva dichiarato cose del tutto contrarie appena un anno fa e si era risentito sulle voci che lo volevano attento alle sirene della sinistra! “Alla peggio andrò a casa. A sinistra no.” Eppure è persona che rilascia dichiarazioni dopo essersi allenato dinanzi allo specchio. Chissà cosa ci avrà visto allo specchio in questa circostanza! Cosa pensare, infatti, di uno che aveva dichiarato, dopo aver fatto le consuete prove allo specchio: “Sia chiaro che non farò da stampella a un governo che dovesse zoppicare”?. Ora, invece, nel suo profilo si può scrivere che ha fatto da stampella a Prodi nei suoi momenti più difficili e che grazie al suo voto al Senato la sinistra ha la maggioranza numerica.
“Il partito Democratico – sostiene Follini - sarà una DC che guarda a sinistra”. Per ora, però, nell’attesa, si è iscritto al Gruppo al Senato dell’Ulivo, capeggiato dalla DS Anna Finocchiaro.
Non si ha niente contro la vecchia democrazia cristiana. Se si percorre l’itinerario di un’analisi politica seria, si deve riconoscere che la DC ha costituito nel dopoguerra un riferimento importante per l’indirizzo politico del Paese. Oggi, però, si sono modificate le situazioni. L’appello al mondo cattolico non ha più la valenza della vecchia richiesta di condivisione di una scelta di riferimento storico e culturale che vedeva l’Italia, al pari degli altri paesi europei, concorrere all’affermazione di una civiltà che affondava le radici nella tradizione del cristianesimo e del pluralismo. Sono caduti i blocchi ed il pericolo, avvertito nella seconda metà del ventesimo secolo, del precipizio verso l’alternanza totalitaria al fascismo si è indebolito.
E’ maturata nella destra italiana una forte convergenza nel respingere ogni tentazione autoritaria. La democrazia cristiana non rappresenta più, in Italia, la domanda di centralità di una collocazione etico-sociale fatta di solidarietà e di valori. Oggi è superata dalla riscoperta dell’esigenza di porre la nuova centralità sui fattori economico-sociali che determinano lo sviluppo di una società moderna. Si è scoperto che lo sviluppo è anche benessere e potenzialità e che invece la solidarietà, senza che sia il frutto virtuoso della crescita, fatta solo di spesa pubblica e di pressione fiscale, ha uno scopo effimero e temporaneo ed è destinata ad esaurirsi ed ad impoverire tutto il Paese.
Se il Partito Democratico vuol essere il nuovo nome della sinistra di estrazione socialista è un conto. Se deve, invece, essere la sintesi di visioni antitetiche di diversi indirizzi politici è evidente che si presenta e si presenterà per il futuro, in tutta la sua gravità, quel fallimento della mediazione dei partiti che alcuni chiamano crisi politica. Appare, infatti, evidente che si stia dinanzi piuttosto ad una crisi di identità della sinistra. Non si possono sostenere i bisogni delle fasce più deboli, se non si sostiene la crescita produttiva e la ricchezza del Paese.
Follini ora afferma che il Partito Democratico sia la nuova democrazia cristiana. Ammettendo che in Italia se ne senta il bisogno, vorremmo sapere cosa ne pensano D’Alema e Fassino e sentire anche la base del vecchio Pci. Consentiranno costoro che l’ultimo arrivato delinei il percorso, già di proprio tortuoso, del nuovo soggetto politico?
Vito Schepisi

12 giugno 2007

Ma per "PD" si intendeva "Partito Dominante"?



Era auspicabile che i testi delle intercettazioni fossero diffusi. Anche i “diversi” poi tanto diversi non sono! In Italia c’era un tifo da stadio per conoscere i contenuti delle telefonate con le quali i potenti a volte si spartiscono torte e ruoli. Sulla bocca di una parte degli italiani finalmente si è stampato un sorriso sarcastico. Nei luoghi di lavoro e nei giardinetti pubblici, laddove il puro e duro da sempre aveva inveito contro la classe politica, quella avversaria, rea d’essere corrotta e di far prevalere l’interesse privato a quello pubblico, si sono invertiti i ruoli. Il duro e puro questa volta, però, fa spallucce e si sottrae al confronto. Fa come l’Unità che sciopera per non spiegare. Alza le spalle e tace, oppure si giustifica parlando dei cattivi esempi che hanno contaminato solo una parte delle “anime buone”, mentre la sinistra di sempre resta ancora in prima linea a difendere il popolo dalle angherie dei padroni. Lo difendono come lo difendevano dal conflitto di interessi, parlando di altri uomini che si sono arricchiti puntando sul tavolo della politica. Insomma la colpa è sempre degli altri. Era auspicabile anche per un fatto di giustizia sociale. Non doveva, infatti, ritenersi giusto che il duro e puro potesse sempre addurre esempi di malcostume degli avversari e sogghignare perfidamente sugli ….oni ed i suoi alleati. Anche coloro che nei bar e per le strade, nei circoli e nei posti di lavoro da una vita avevano subito e si erano timidamente difesi con la storiella dei comunisti che mangiavano i bambini, hanno ora modo di poter aggiungere anche una realtà contemporanea alle vecchie testimonianze di fame e di miseria che i regimi marxisti hanno diffuso nelle realtà geografiche oppresse dal totalitarismo della loro dottrina. Il popolo ha diritto di nutrirsi anche delle soddisfazioni morali, specie quando è nelle condizioni, come spesso accade, di non potersi ben nutrire di altro. L’uomo senza riflettori puntati ha diritto anche lui al sorriso ed all’esercizio dell’ironia, specie quando è affaticato per gli anni di lavoro, rassegnato per le lunghe attese in fila dinanzi agli sportelli degli uffici pubblici per pagare o reclamare un diritto, nauseato dalla macchina della sanità che lo mortifica a stregua di un numero o di un codice fiscale. E’ bella l’immagine del pensionato che cala la briscola sulla panchina del parco pubblico, dopo aver visto l’avversario senza carte vincenti e grida soddisfatto al suo compagno di calare il carico perché questa mano è la loro.
Era auspicabile anche perché fosse chiaro che i diversi in politica non esistevano, se non per un differente carico di ipocrisia e di malafede. Vien quasi da paragonare la diversa gestione degli interessi privati e dell’ingerenza politica sulle scelte economiche, per via diretta, o influenzandone i percorsi, tra i diversi soggetti che nel tempo ne sono rimasti coinvolti. Da questa osservazione comparativa appare subito chiaro che in questo campo esistono due tipi diversi di gestione dei cattivi costumi. Per comprenderne le dimensioni, si provi a pensare alle attività sia di una piccola impresa artigiana che di una complessa impresa industriale. La prima è strutturata secondo flussi di breve periodo, vive spesso alla giornata e programma i suoi budget a seconda dell’esperienza sui mercati che l’esercizio quotidiano dell’attività riscontra. Se ha un ordine di 10 pezzi si rifornisce delle materie prime necessarie per non sovraccaricare il magazzino, si avvale anche di una manodopera in numero prudente e comunque nei limiti delle potenzialità produttive. La seconda, l’industria, ha invece una struttura più articolata, macchinari molto costosi da ammortizzare, approvvigionamenti di materie prime direttamente sui mercati di origine in quantità importanti per conseguire economie e affidabilità, ha una produzione diversificata e strutture spesso indipendenti, ha spesso un Consiglio di Amministrazione rappresentativo della proprietà a cui rendere giorno per giorno conto. Ebbene è quello che è avvenuto in Italia nel campo dell’ingerenza della politica nel mondo dell’economia e della produzione. I primi sono stati i “mariuoli” che hanno approfittato del loro potere giornalmente, pezzo per pezzo, come l’artigiano sul mercato al dettaglio. Gli altri, invece, hanno organizzato le fonti delle dazioni, attraverso una rete (manifatturiera, imprenditoriale, distributiva) articolata secondo una struttura dinamica e collegata, costruita “in crescendo” mattone su mattone come le “lego”. Tanti mattoncini uno sull’altro e mille rivoli di attività sparse sul territorio ed una cinghia di trasmissione spesso evidente ed inequivocabile, tanto da creare persino assuefazione. Ruoli incrociati, passaggi da amministratori ad imprenditori, a parlamentari e fiumi di denaro contabilizzato “senza scopo di lucro”, campagne elettorali finanziate con il “lucro” che alla fine uno scopo lo ha sempre trovato. Appalti pubblici e licenze, agevolazioni fiscali per falsare il mercato e strozzare coloro che non godevano di pacchetti di privilegi fiscali ed una rete di tecnici e imprese amiche verso cui far confluire appalti ed altro ancora. Anche fallimenti clamorosi e soldi pubblici dilapidati. Altro che conflitto di interessi di Berlusconi! Cosa poi dire di Ricucci che scalava il Corriere della Sera mentre si diffondevano allarmi ed insinuazioni su Berlusconi da parte degli stessi soggetti a cui Ricucci chiedeva la tessera di partito? Ora risultano più chiare anche le liberalizzazioni di Bersani. Banche e cooperative un mix per l’esercizio del potere economico e per condizionare l’economia del Paese, un mix che unito alla rete di informazione, già saldamente sotto controllo, si voleva trasmettere al nascente PD che si apprestava nelle intenzioni dei gestanti a diventare Partito Dominante. Altro che democratico! Se si pensa alla Gentiloni ed alla legge sul conflitto di interessi, in realtà la “taglia Berlusconi dalla politica”, ecco che si ottiene la discontinuità di Follini.
Vito Schepisi

09 giugno 2007

Ci mancava l'orgoglio pedofilo



C’era da aspettarselo! Oramai l’orgoglio per qualcosa non ha più freni e meno ne avrà in futuro. Tutto per un discutibile esempio che è stato dato anche con il contributo della politica e del mondo della cultura. Si ritiene, a ragione, che le manifestazioni di provocazione siano le spinte più dirompenti al dilagare dei tentativi di legittimazione dei fenomeni più disparati: alcuni, come nel caso in questione, di orrido spessore.
Se si vuole provocare il sorgere di una fazione non c’è che da ostentarne l’appartenenza ad un’altra: diventa un richiamo per coloro che desiderano legittimare condizioni e persino vizi e devianze. Non si è invece diversi, come individui, solo se si hanno gusti diversi. Si offre l’immagine della diversità al contrario se si volesse, rendere evidente la condizione diversa e su quest'ultima reclamare l’orgoglio della propria scelta. Di questo passo lo si potrà fare anche per i gusti in cucina e reclamare l’orgoglio per una pietanza o per un piatto tipico, o per un modo di assumere un cibo come può essere, ad esempio, per chi gradisce il pesce crudo.
Non si è diversi nella società, che ha altri valori da far emergere, se si preferisce la compagnia di una persona dello stesso sesso piuttosto che dell’altro. Si è invece diversi nella società se ci si organizza per marcare una separazione tra coloro che hanno gusti e tendenze differenti. La diversità è data dalla mancanza di integrazione, come avviene spesso per gli immigrati. Io non mi sento diverso da coloro che preferiscono la montagna ed il fresco, al mare ed al caldo, pur amando fortemente il mare ed il tepore del sole da non saperci rinunciare per nessuna cosa al mondo. Non sentirei mai, però, il bisogno di andare in piazza, vestito da sub magari, o sventolando una vela, ad ostentare il mio orgoglio per essere nato e vissuto in località marina.
Sembrano considerazioni semplicistiche. Qualcuno dirà che il problema è più complesso e che nella società ci sono sacche di remore e di contraddizioni. Si dirà anche che il perbenismo bigotto spingeva l’omosessualità a nascondersi, alla clandestinità, ai complessi di colpa, spesso alla vergogna. Anche le famiglie respingevano ed ostacolavano le scelte “diverse” dei figli.
Perché ora cosa è cambiato? Se qualcuno aveva fastidio per la presenza di omosessuali e travestiti e quant’altro, continuerà ad avvertire questo senso di fastidio. Nessuno può imporre a nessuno di frequentare chi non gradisce. Le famiglie continueranno a provare vergogna per i figli che escono la sera con le calze a rete, e le manifestazioni volgari di ostentazione e provocazione saranno sempre definite disgustose da chi non gradisce che le scelte individuali, nella sfera sessuale, siano ostentate con sfarzoso cattivo gusto.
Dal “Gay Pride” al passo dell’orgoglio pedofilo il tragitto è stato breve. Se la normalità è l’eterosessualità, e questo lo ha stabilito la natura, tutto ciò che non è normale non ha motivo di rappresentare orgoglio. Ciò non toglie che si debba avere comprensione e ritenere le scelte di ciascuno, purché non siano violente e non coinvolgano minori o meno dotati, come legittime e tollerate.
Per la pedofilia c’è qualcosa di diverso, di più marcato, perché invece coinvolge proprio i minori ed il concetto di violenza.
Il 23 giugno è stata stabilita la giornata per l’orgoglio pedofilo, il "Boy love day", e si è intrapresa la prevedibile strada in discesa per cattivo gusto e per l’ostentazione di "patologie" di ogni tipo. La pratica sessuale di un adulto con un minore, è bene ribadirlo con fermezza, è di una gravità estrema perché è violenza alla stato più infame e vile, violenza ai danni di coloro che non hanno la forza per difendersi, il carattere per imporsi e la maturità per compiere le loro scelte.
Non c’è assolutamente da soffermarsi sui mille modi per carpire la fiducia e la remissività dei minori e, pertanto, anche coloro che cercano attenuanti parlando di partecipazione e di accondiscendenza non possono pensare di giustificare alcunché.
In passato anche uomini della cultura e della politica, in particolare tra i fautori del pensiero debole e diverso, si sono lasciati andare ad aperture pedagogiche in cui si asseriva il diritto dei minori a vivere la loro sessualità. Questo tentativo è stato stroncato sul nascere da un’ondata di disapprovazione e di disgusto. I politici, si sa, cavalcano solo l’onda lunga del consenso, anche a discapito del loro intimo istinto. I voti sono sempre voti ed i vantaggi delle poltrone sempre più appetibili di quelli dell’ostentazione pubblica di un’indole privata. Hanno fatto marcia indietro, ma a chi non dimentica ed è più attento sono rimasti tutti gli interrogativi.
Tra la gente, la pedofilia è spesso collegata all’immagine di devianze collegate all’omosessualità, spesso si intreccia con essa ed è considerata una conseguenza di quella che generalmente è ritenuta un’anormalità sessuale. Sia ben chiaro, e non si vogliono destare equivoci, l’omosessualità è una condizione in cui prevale il desiderio sessuale con un partner omogeneo e non è per niente assimilabile alla pedofilia che invece è un istinto violento nei confronti di minori di un sesso e dell’altro.
E’ però una realtà che non si può sottacere quella che vede tra i pedofili una consistente fascia di omosessuali.
La preannunciata iniziativa nel mondo virtuale, il “Boy Love Day”, sta destando molte perplessità e catene di indignazione e protesta. E’ bene che sia così, perché sia evidente e forte lo sdegno di tanti. Gli orchi, è risaputo, sono dappertutto e penso anche tra coloro che hanno ruoli nella società e deleghe rappresentative degli elettori. Si presentano spesso come persone gentili e delicate, persino con le parvenze di persone dolci e colte, sono invece ipocriti e violenti, sono solo e soltanto feccia dell’umanità. E’ necessario smascherarli per spezzare le catene dell’omertà che si creano intorno: individuarli e renderli inoffensivi, perché è spesso dal condizionamento del loro potere che deriva la debolezza della lotta al fenomeno. Lo strumento democratico più idoneo a difenderci da questa piaga che prepotente emerge dalle barriere delle omertà, anche grazie al pluralismo ed al moltiplicarsi delle fonti di diffusione delle informazione, è la denuncia e la rinuncia alla rassegnazione, ma è anche il grido di disgusto che deve salire dalle coscienze di tutto il genere umano.
Vito Schepisi

07 giugno 2007

Bush vuole incontrare Berlusconi, a dispetto di Prodi



Se esponenti del Centrosinistra, leader e ministri, vanno negli Stati Uniti ed incontrano autorevoli esponenti del Partito Democratico, la circostanza a tutti sembra normale. Rientra nel giusto rapporto tra i soggetti della politica in una visione globale. Appare persino un segno di sviluppo e crescita del confronto politico: è sintomo di tolleranza al pluralismo ed anche necessità diplomatica nel segno del principio dell’alternanza, se non la testimonianza di un percorso politico comune e di convergenza di obiettivi.
Se invece il Presidente degli USA viene invitato in Italia ed alterna, ad incontri ufficiali con il Capo dello Stato, con il Presidente del Consiglio e con il capo della Chiesa Cattolica, la visita presso la Comunità di Sant’Egidio per la diplomazia italiana è già una “iniziativa disturbante”. Se poi si aggiunge la richiesta di Bush di un incontro con l’ex Presidente del Consiglio e Capo dell’opposizione Silvio Berlusconi , diventa un’iniziativa “inopportuna e sgradita”.
L’irritazione di Prodi è talmente evidente da aver spinto lo staff diplomatico italiano, impegnato ad organizzare la visita, ad esercitare pressioni perché l’incontro non ci sia. I tentativi di impedire l’incontro si sono spinti persino a minacciare di non garantire la sicurezza della visita del Presidente Usa in Italia.
Secondo la diplomazia italiana l’iniziativa di Bush sarebbe “inappropriata e sgradita”.
Solo dinanzi alla fermezza dei funzionari della casa Bianca ed al pericolo di veder annullata la visita di Bush in Italia, o limitata alla sola visita in Vaticano, gli emissari di Prodi hanno dovuto cedere e rassegnarsi all’idea. E’ stata necessaria, persino, una nota ufficiale dello staff diplomatico del Presidente Bush in cui si sosteneva che “Non c’è niente di inappropriato per il Presidente Bush nell’incontrare in un Paese il leader dell’opposizione, è una cosa che il Presidente Bush fa più volte nel corso dei suoi viaggi”.
Si è stati davvero sul punto di veder annullare la visita e di ricevere dalla diplomazia di George W. Bush una nota di ben altro tenore. Una nota che non avrebbe potuto evitare di far riferimento alla crisi della politica di questo Governo. Una vera emergenza democratica che riviene dalle difficoltà della maggioranza in Italia di sostenere con amicizia e disponibilità diplomatica i rapporti tra paesi alleati. Una nota che sarebbe suonata come severo monito contro il venir meno, nel nostro Paese, nell’era Prodi, della tolleranza e dell’effettivo pluralismo politico.
Il braccio di ferro tra la diplomazia italiana e lo staff della Casa Bianca è stata una vera battaglia. L’ha avuta vinta la ragione del Capo di Stato americano nel rifiutare di farsi strumentalizzare dalla sinistra italiana. L’ha spuntata il Presidente degli Usa che non si mostra infatti disposto a venire in Italia per farsi beccare da un flaccido Presidente del Consiglio e dal suo supponente Ministro degli Esteri.
La visita alla Comunità di Sant’Egidio a Trastevere sarà anche l’occasione per Bush per far sapere ai cittadini italiani quanto sia falsa l’immagine spesso data dalla maggioranza e da alcuni ministri che lo vorrebbero cinico e con la pistola fumante in mano. Il Presidente degli USA non vuol dar motivo alla sinistra alternativa, scomoda alleata di Prodi, e rappresentata nel suo Governo, per giustificare la prevista contrapposizione esasperata con chiassate di piazza contro Bush, l’America e la politica americana.
La Comunità religiosa, infatti, di fronte all’inerzia delle Nazioni Unite e dei pacifisti “pelosi” del mondo è in prima linea nella lotta all’Aids e contro lo sfruttamento minorile ed espande la sua attività nel mondo contro le guerre sconosciute sui media, i genocidi e gli squallori della fame e delle malattie.
L’azione degli Usa su questo fronte è di grande attenzione e di concretezza finanziaria. Questo messaggio che il Presidente americano intende lanciare, evidentemente, disturba le coscienze di coloro che vanno invece per Strada dove si annidano personaggi accusati dai legittimi governi locali di organizzare trappole, quasi sempre mortali, per incassare denari ed ottenere scambi con pericolosi terroristi.
Dopo l’incontro ufficiale con il Governo seguirà una conferenza stampa e non sarebbe davvero fuori luogo se il Presidente degli Stati Uniti chiedesse a Prodi ed al Governo Italiano il motivo dell’invito in Italia, visto che una parte della maggioranza ha rilasciato dichiarazioni molto critiche per la sua visita e scende persino in piazza per contestarla.
Se proprio volevano incontrare qualcuno Prodi ed i suoi potevano provare con Chavez. Avrebbero scambiato tra loro una serie di indicazioni utili, su informazione e libertà ad esempio, ma soprattutto sulla “destituzione” di persone sgradite.
Vito Schepisi

06 giugno 2007

Colpo di scena: come in una trama teatrale


Come in una trama teatrale che si rispetti, anche nel caso che vedrà impegnato questa sera il Senato c’è il colpo di scena. E’ bastata una dichiarazione di Clementina Forleo il Giudice per le Indagini Preliminari di Milano a rendere ancora più intensa la souspence . Già si faceva la conta e ci si informava sulla salute dei senatori a vita, quando questa mattina si diffondeva la voce che tutto ciò che non era più sottoposto al segreto istruttorio poteva essere reso pubblico, comprese le intercettazioni di Consorte. Tutto ciò che non è espressamente vietato - ha sostenuto il GIP di Milano - è consentito. Sembra la scoperta dell’acqua calda ma non lo è. In Italia si sa, fino ad ora, poteva essere pubblicato solo ciò che riguardava una parte politica ed una persona, fossero anche calunnie e teoremi non suffragati da prove, fossero anche avvisi di garanzia che l’interessato non aveva ancora ricevuto. Eppure l’On La Torre non più tardi di due o tre giorni addietro aveva sostenuto che le intercettazioni “non hanno alcuna rilevanza penale: non solo non saranno rese pubbliche ma non ci sarà motivo per conoscerle”. Forse era una speranza per il deputato pugliese dei DS vicino a D’Alema: una speranza che a quanto sembra andrà delusa.
Tanto lavoro per niente! Se fosse vera la tesi sostenuta da “Il Giornale” e dal centrodestra che il Vice Ministro dell’Economia, con la delega alla Guardia di Finanza, aveva tentato di rimuovere 4 ufficiali delle fiamme gialle che collaboravano con la Procura del capoluogo Lombardo sulle questioni Unipol, scalata Bnl, scalata Anonceneta, Fiorani e “furbetti del quartierino”, potremmo dire che l’impegno del Vice Ministro dei DS è stato mal riposto, oltre che per il gesto, anche per il risultato ottenuto.
Sulla questione è intervenuto l’On Giovanardi, Presidente della commissione per l’autorizzazione a procedere della Camera che sostiene che, secondo l’ordinamento in vigore, tutte le intercettazioni che vedono coinvolti parlamentari o passano per la Commissione da lui presieduta oppure vanno distrutte. Giovanardi farà pure il suo mestiere ma ci sono fatti che seppur non penalmente rilevanti hanno grosso rilievo politico. Attengono i metodi e lo stile di uomini e partiti.
Ad Andreotti, ad esempio, il famoso supposto bacio dato a Riina non era penalmente rilevante ma se si fosse provata la circostanza, magari attraverso una foto, il fatto sarebbe stato politicamente molto rilevante. Non è il cittadino che decide che Tizio o Caio debbano candidarsi per essere parlamentari e neanche il medico a stabilirlo: è una libera scelta. Se è questa la scelta fatta ci si deve sottoporre alla luce dei riflettori della gente che vota. La vita sociale deve essere trasparente, un libro aperto per tutti. E’ per questo che Giovanardi avrebbe fatto meglio a rivolgere la sua attenzione più agli aspetti morali che il caso ha sollevato, compreso gli strascichi e la rimozione del Generale Speciale, che agli aspetti formali.
Il giudice Forleo ha fatto una distinzione ben chiara: “Io non rendo pubblico niente - ha detto - non è un mio problema se vengono pubblicate (le intercettazioni - ndr) oppure no. Per l'articolo 6 della Legge Boato, la 140 del 2003, il Parlamento è chiamato ad esprimersi solo sull'uso delle intercettazioni a livello probatorio". L’interpretazione della Forleo equivale a dire che i fatti che non costituiscono reato, se non sono vietati sono leciti. Per le questioni che invece attengono a fatti penalmente rilevanti la Dottoressa Forleo ha dichiarato che le intercettazioni saranno regolarmente inviate alla Camera per l’autorizzazione al loto utilizzo. Non fa una piega.
Ora non so se la legge in vigore consenta interpretazioni diverse, se è così caro Onorevole Giovanardi si preoccupi di chiederne la modifica. In questo Paese è arrivato il tempo di chieder chiarezza a tutti. Si vogliono punti fermi. Si vorrebbero allontanati dal Parlamento e dal Governo e dalla vita politica coloro che ritengono di esser più furbi. Coloro che approfittano di un ruolo assegnato dal popolo perché ne interpretino le volontà ed esercitino alla luce del sole il loro mandato e non l’esercizio della loro furbizia. Per fare questo, però, il Paese ha bisogno di sapere, di avere certezze, magari anche ascoltando cosa dice un parlamentare ad un faccendiere, gli accordi che prende e cosa dispone all’attenzione di terzi come consiglio o come ordine impartito.
"Il consistente rafforzamento della tutela apprestata alla posizione di parlamentare - sostiene ancora la dottoressa Forleo - non può infatti espandersi al di là delle prerogative espressamente previste da tale norma". Una norma che definirà esser già di “carattere eccezionale”. La tutela dei magistrati secondo il magistrato c’è stata nel momento che le intercettazioni non sono state rese disponibili e quindi non utilizzate, prima delle perizie e delle trascrizioni. Quando, però, saranno trascritte e sottoposte a perizia, e questo dovrà avvenire entro lunedì della prossima settimana, saranno o trasmesse agli avvocati delle parti o rese pubbliche.
L’auspicio è che sulla base delle responsabilità politiche che dovessero emergere se ne prenda atto e si allontanino dalla gestione della cosa pubblica tutti coloro, a destra ed a sinistra, che dovessero mostrare un interesse diverso rispetto al mandato del popolo elettore. Sono belle parole, ma solo parole, ed è vero, ma è sulla base di queste scelte dei partiti e della politica che si sviluppa la soluzione della crisi politica evocata, magari da chi non ha titolo per farlo.
Vito Schepisi

05 giugno 2007

Una partita a scacchi


Se la maggioranza pensava di aver chiuso il caso Visco-Guardia di Finanza in due mosse ha sbagliato la sua tattica. Non è una partita di scacchi dove pedoni, torri a cavalli fanno quadrato intorno al re. Non è una partita in cui lo scacco matto lo si possa dare all’alfiere e ritenere d’aver vinto la partita. Si apre invece sulla scacchiera italiana un gioco molto più ampio dove si rischia lo scacco al re della parte che ha giocato per primo e che conduce le mosse. La competizione si allarga lasciando ampi spazi scoperti e le tattiche di gioco si intrecciano con le trappole e le strategie diversive.
L’intervento di Repubblica con la tesi complottistica della nuova P2 è un boomerang per la maggioranza e per quella parte della sinistra che compete per ritagliarsi uno spazio all’interno del nuovo soggetto politico in gestazione. Quel Partito Democratico che fa discutere e preoccupare prima ancora che nasca. Il bersaglio è Romano Prodi, considerato ora il tallone d’Achille della sinistra. Lo si vuole trasformare in parafulmine di un dilagante malcontento che i portavoce dei poteri che contano (Corriere della Sera e Repubblica) hanno ora fretta di scaricare, nella convinzione che sia diventato il supporter migliore di Berlusconi.
Il Presidente del Consiglio con le sue incertezze e la sua scarsa autorevolezza è riuscito a rimettere in sella il Cavaliere. Il Leader del centrodestra, meno di un anno fa, era dato per politicamente spacciato e senza più un ulteriore rilevante ruolo da leader. I sondaggi ora lo indicano al 52% del gradimento degli elettori.
Si aprono dunque scenari nuovi dove D’Avanzo, il Torquemada di Repubblica, mette in campo ulteriori motivi di scontro, trasformando il caso Speciale in un caso specioso, allarga i confini del dubbio, dilata l’incomprensione di tanti.
Delle due l’una: o il giornalista dei misteri rivelati gioca nel campo della confusione per intorpidire il pensiero di tutti e distrarre i lettori di Repubblica dalla constatazione che la sinistra “diversa” non esiste; oppure ha elementi di seria valutazione sui servizi, sulle connivenze, sui misteri e sui ruoli. Se così fosse lo dimostri e ci faccia conoscere gli indizi e se può anche le prove.
Da questo quadro in cui è difficile capire i contorni delle figure centrali, emerge una sinistra pasticciona ed incoerente, forse anche pericolosa ed inaffidabile. Le tinte sono fosche come torbidi e bui i ruoli e le responsabilità di tanti.
L’affare Unipol si mischia a strategie di gruppi, a colpi inferti dal basso, a lotte sotterranee. Registriamo sorpresi e preoccupati, e con tanti dubbi e sospetti, quanto afferma il senatore La Torre, molto vicino a D’Alema, che riferendosi alle telefonate intercettate sulla questione Unipol ed alle inchieste del PM Clementina Forleo afferma, con inusitata sicurezza, che le telefonate sulla scalata alla Bnl di Unipol “non hanno alcuna rilevanza penale: non solo non saranno rese pubbliche ma non ci sarà motivo per conoscerle”.
Si resta sgomenti dinanzi a parole così ferme, rilasciate a spregio della necessaria prudenza e con l’amara impressione di voler persino imporre limiti agli interventi della magistratura inquirente. Ci sarebbe invece da chiedersi quali argomenti abbiano trattato le telefonate intercettate e chi, assieme a Consorte e Sacchetti, sia stato addentro ai fatti e sia stato a conoscenza delle scalate e dei modi. Oltre Fassino sarebbe interessante sapere se altri ambissero a sentirsi padroni di una banca. Sarebbe anche interessante sapere se, oltre al desiderio, ci siano state anche azioni mirate o pressioni politiche esercitate. I sospetti di tanti restano e qualora fosse proprio vero che le intercettazioni, tutte o alcune, siano risultate penalmente irrilevanti, ma qualche dubbio sorge spontaneo, sarebbe anche giusto che i cittadini elettori sappiano quali siano state le interferenze politiche nelle scelte economico-finanziarie del Paese.
La questione Speciale-Visco ha innescato una lotta a tutto campo. Ha dato avvio all’inizio della caduta di Prodi o ne sarà persino l’epilogo. Si ha la sensazione che la nuova P2 evocata da D’Avanzo esista davvero, anche se è facile pensare che sia cosa diversa da quella ipotizzata dal giornalista di Repubblica, distintosi sempre per interpretazioni molto di parte. Brilla in tutto questo l’assenza dalla scena di D’Alema, il “marinaretto” italiano si tiene lontano dal campo di questa "nobile" gara. E’ impegnato a seguire le regate per la Coppa America e purtroppo lega la sua presenza sulla scena delle strambate e delle virate alla insoddisfazione per i colori azzurri. Da quando è lì, ad assistere alle regate, Luna Rossa non vince più. Come non pensare, pertanto, che sarebbe stato meglio se fosse rimasto in Italia? Meglio vederlo navigare nelle torbide acque di questa pur sempre crisi politica, che lui stesso ha ritenuto di denunciare nel Paese, anziché nelle acque delle regate con il suo piglio di sempre, a guisa di grande stratega e provetto navigante. Sarà pure così in acqua, tra le vele, ma lo conosciamo di più come stratega e navigante nelle acque politiche spesso melmose e torbide, come questa storia di malcostume politico, che una volta chiusa lascerà uno strascico indelebile di dubbi, incertezze e di palese ingiustizia.


Vito Schepisi
http://blog.libero.it/vitoschepisi/
http://illiberopensiero.ilcannocchiale.it/ http://www.loccidentale.it/node/2706

02 giugno 2007

La vittoria di Visco



L’epilogo della questione Visco è stato più dirompente di quanto si potesse immaginare. La si potrebbe definire un’opera di ingegneria per la minuziosa cura che Prodi ed il suo Governo hanno usato per dirimere una situazione divenuta esplosiva. Non era sufficiente, ad esempio, far rassegnare le deleghe a Visco. C’era una mozione di Calderoli della Lega che prevedeva la fiducia al comandante della Guardia di Finanza. La maggioranza di Prodi e di Visco avrebbero dovuto votare a favore di una mozione che suonava come sfiducia ed accusa di mendacio a Visco, oppure votare no e motivarne le ragioni. Cosa dovevano dire che il generale Speciale si era opposto ad un sopruso? O che l’azione di Visco era arrogante e illecita? O che il Vice ministro delle Finanze poteva consentirsi di rallentare ed impedire il corso delle indagini su uomini e soggetti finanziari legati da questioni di contiguità economica e politica ai DS? E se il generale Speciale non era meritevole di fiducia perché è stato mantenuto al vertice della Guarda di Finanza per quasi un anno ancora dai fatti?
La questione Unipol è la chiave di volta di un conflitto di interessi, la prova di una cinghia di trasmissione tra i Ds e la lega delle Cooperative, la chiara dimostrazione dell’intrecciarsi di precisi interessi con alcuni provvedimenti di questo governo, spacciati anche per liberalizzazioni.
Anche la mozione di Cossiga era interessante. La sfiducia a Speciale per aver ostacolato l’indirizzo politico del governo Prodi. Ma anche questa iniziativa non ha più senso, superata dalla rimozione forzata del Generale. Dopo che il tentativo di fargli rassegnare le dimissioni era caduto per la dignitosa ostinazione del Comandante Speciale, l’unica strada che rimaneva a “Don Rodigro ed i suoi Bravi” era la rimozione : e così è stato.
Hanno rimosso il generale, senza ritegno e con una concezione della gestione pubblica arrogante ed autoritaria. Rimosso perché ha opposto resistenza, perché non ha subito passivamente, perché non ha ubbidito alla violenza politica di un uomo che gli italiani hanno cominciato a conoscere con preoccupazione e timore. Un uomo che non si è mai preoccupato di svuotare le tasche degli italiani e della povera gente per servire la politica degli inasprimenti fiscali di un uomo piccolo e buffo, di scarso spessore, con esagerata protervia, ipocrita e vendicativo.
Nella lettera a Prodi con la quale Visco si autosospende dall’esercizio della delega alla Guardia di finanza, e c’è da ritenere che trattandosi di sola sospensione sarà solo un episodio momentaneo, il medesimo detta a Prodi ed al suo Governo la rotta da seguire e sostiene: “Resta il fatto comunque che dall’intera vicenda emerge che la situazione al vertice della Guardia di Finanza è diventata insostenibile”. Chiede quindi senza mezzi termini a Prodi la rimozione di Speciale. E Prodi lo serve come un esecutore di ordini. Dalla lettura dei contenuti diffusi della lettera di Visco si ha l’impressione di un mix di arroganza e di ostinazione. L’ancòra Vice Ministro delle Finanze, pur senza deleghe ora alla Gdf, continua a negare persino l’evidenza dei fatti ed è sordo ad ogni principio di coerenza e di dignitosa autocritica.
Un grave episodio di malcostume politico, un palese attentato all’autorevolezza delle Istituzioni ed ai sentimenti di giustizia, un ulteriore esempio di quella crisi tutta a sinistra della politica, divenuta strumento di privilegi e di autoritarismo di gestione.
Il grido all’emergenza democratica che si leva dall’opposizione non è che l’eco dello sdegno del Paese. Questa maggioranza da tempo sostiene un esecutivo che sembra più simile ad un regime che alla ragionata gestione della cosa pubblica in una democrazia parlamentare. L’espressione della volontà popolare, con questo Governo e questa maggioranza, non si esprime come previsto dalla Costituzione e cioè con un corretto confronto all’interno di Camera e Senato. Il Parlamento è divenuto un luogo formale in cui si ratificano decisioni prese altrove e senza il confronto con il Paese e con le altre forze politiche.
A nulla è valsa la batosta elettorale ricevuta dai partiti che sostengono il Governo, a nulla vale la consapevolezza di un paese che disdegna questa politica. L’azione arrogante continua e si arrocca in decisioni ed atteggiamenti preoccupanti che certificano una reazione scomposta, quasi da animali feriti, di una maggioranza discutibile ed ora ancor più discussa tra la gente e tra gli elettori, una maggioranza che viste le cose ed i metodi rende ancor più credibile il sospetto dei brogli elettorali nelle ultime elezioni politiche.