31 ottobre 2008

La sinistra italiana resta quella delle suggestioni

Anche la scuola come le altre questioni sollevate con tanto clamore svanirà dalla cronaca come una bolla di sapone. Questo governo ha appena 5 mesi di vita e si è già trovato dinanzi a più di un venditore di cilindri colorati con dentro acqua e sapone per bolle che si diffondono nell’aria, si alzano, cercando di prendere il largo, e poi scoppiano per la loro materiale inconsistenza.
Le bolle di sapone durano lo spazio di un momento, anche se in quel momento fanno la gioia dei bambini. Le balle della sinistra durano altrettanto, e non si può dire che nel loro spazio di vita facciano la gioia di qualcuno.
Prevale la spinta alle suggestioni, più che la sostanza conta la rappresentazione delle cose. Non a caso il PD si è fornito di un leader diplomato in fiction.
L’Italia per il divertimento della sinistra ha pagato prezzi altissimi, persino in vite umane, oltre a danni materiali. I risultati, però, lasciano tutti molto perplessi. Lo Stato, infatti, non solo ha servizi da terzo mondo, ma precipita anno per anno nelle classifiche in tutti i settori, scuola compresa.
Si è visto che per la sinistra non servono i confronti, non sono mai abbastanza i fondi stanziati, non è utile l’analisi economica delle compatibilità, non sono sufficienti gli spazi di controllo e la gestione della società attraverso i sindacati ed i patronati, e non sono mai congrui i fondi impiegati per la solidarietà e gli interventi per l’assistenza. Non bastano i trattamenti sociali e previdenziali al di sopra della media europea, e non basta neanche un numero di dipendenti in ogni settore pubblico in misura superiore agli altri paesi, c’è sempre qualcosa di più da imporre. Manca, però, e purtroppo, la percezione dell’efficienza commisurata a ciò che è ritenuto appena sufficiente.
Si ha l’impressione che il motivo sia rimasto quello di poter strumentalizzare l’irritazione dell’utenza. Si crea il disservizio per poter contestare al Governo di non essere capace di fornire risposte adeguate. Sarà per questo che la sinistra italiana, al contrario di quella europea, e dell’immagine che si ha della sinistra riformatrice, sembra essere più una forza conservatrice, persino con punte marcate di atteggiamenti reazionari.
L’inefficienza ed il bisogno creano una domanda non soddisfatta, soprattutto per le fasce più deboli che non possono permettersi di ricorrere a strutture private più costose. Questo vale per la sanità, i trasporti, la scuola e persino per la sicurezza e la previdenza. Non a caso a sinistra, tra i leader, si fa largo uso delle strutture private per i bisogni personali e per quelli delle proprie famiglie.
La sinistra italiana si è sviluppata in Italia nella serrata concorrenza, con le altre espressioni popolari, sulla ricerca del consenso attraverso i sistemi corruttivi - clientelari.
Dagli anni sessanta in poi c’è stato un braccio di ferro poco politico e molto populista. Mentre la destra e le espressioni liberali venivano marginalizzate, si rafforzavano le espressioni corporative in cui si insediavano caste organizzate a piramide. La gestione del potere comprimeva persino le libertà formali che non trovavano spazi di diffusione. Chi si chiamava fuori era indicato come appartenente alla destra fascista, anche se invece era democratico e liberale.
Il sistema politico-clientelare, soprattutto nel mezzogiorno, si è retto sull’organizzazione politica dei bisogni della gente. Il voto di scambio consisteva nell’offrire i diritti come se fossero concessioni elargite. I partiti di massa avevano le loro cinghie di trasmissioni nei sindacati, nei patronati, nelle associazioni di categoria. Questi organismi si trasformavano in centri di reclutamento e di orientamento politico, non fondato però sul consenso e sulle convinzioni sociali degli elettori, ma sulla capacità di sfornare lettere di raccomandazioni, di distribuire posti di lavoro, di nominare Cavalieri della Repubblica, di istruire pratiche per la pensione, di esercitare la difesa sindacale sui posti di lavoro, di sollecitare il trasferimento vicino casa dei giovani di leva.
Per molti versi il Paese è ancora strutturato su queste logiche. Le giovani energie dovrebbero impegnarsi a respingere una realtà di caste e di privilegi, invece che battersi contro il nuovo e l’efficienza. A che servono ad esempio 5.000 facoltà universitarie con tanto di personale, mentre mancano i fondi per la ricerca, se non all’esercizio del potere delle caste?
Per la scuola e l’università c’è un lungo elenco di abusi e di sprechi, come lo è uno spreco anche il modulo delle tre maestre per le scuole primarie.
Vito Schepisi su l'Occidentale

29 ottobre 2008

La sinistra soffia sul fuoco della protesta esagerata


Tutto come previsto! Sulla scuola la sinistra ha mostrato il suo vero volto. Svanisce così l’immagine del riformismo, della ragionevolezza e della moderazione: il PD, malgrado i successivi passaggi di denominazione, utilizzati per mescolare le acque, resta per i contenuti ed i metodi, che ne ricordano lo stile inconfondibile, l’erede storico del vecchio partito comunista italiano .
Prevale in questa sinistra post comunista l’istinto alla doppiezza ed alla ipocrisia che ne ha sempre tratteggiato la storia. Il mesto ritorno al passato, che poi è il riflesso della formazione di sempre, lo si è capito già dal tipo di opposizione che il PD ha adottato in Parlamento contro il governo Berlusconi . Nella circostanza del decreto sulla scuola ne ha dato solo la conferma, con i toni duri adottati, con il ricorso alla piazza e con l’escalation di una protesta esagerata, anche per la portata piuttosto contenuta dello stesso provvedimento legislativo.
Una protesta mossa da un decreto convertito oggi in legge dal Senato che prevede come forma più marcata di novità, in modo graduale a partire dalle prime classi dal prossimo anno, il maestro unico nelle scuole elementari. E’ davvero troppo poco rispetto alla reazione sortita. E’ un irrazionale soffiare sul fuoco finalizzato solo a creare disordini e violenze, come è stato e si paventa che sarà. E’ il ritorno alla logica di partito che prevale sulla ragione.
Su questo provvedimento si è detto di tutto. Sono stati armati i cannoni della disinformazione caricati a balle grandi quanto una casa. Si è fatto del vero terrorismo psicologico paventando il licenziamento di oltre 100.000 tra insegnanti, bidelli e personale della scuola, l’eliminazione del tempo pieno, il taglio degli insegnanti di sostegno, l’aumento delle ore di lavoro per i docenti e le difficoltà per le famiglie per la riduzione delle ore scolastiche degli alunni.
Si è detto anche che l’intenzione del Governo sia quella di affossare la scuola pubblica per privilegiare quella privata. Un cumulo di spudorate bugie che servono solo a nascondere la portata positiva del decreto come, ad esempio, il ritorno alla responsabilizzazione nella formazione degli alunni, il taglio di sprechi e privilegi, il reperimento delle somme da impiegare per l’edilizia scolastica e per le strutture tecnico-formative, il recupero delle risorse da destinare alla qualità ed al merito. L’opposizione, inoltre, ha del tutto ignorato l’introduzione di una norma che prevede la conservazione per 5 anni dei testi scolastici, e di un’altra che prevede, sin dalle elementari, l’insegnamento della Costituzione Italiana.
In sintesi il decreto, oltre al metodo didattico per le elementari con un riferimento prevalente di un maestro unico, che comunque sarà affiancato del maestro di religione e di inglese, prevede ancora il ritorno all’assegnazione dei voti con il sistema decimale ed il voto in condotta valido per la valutazione finale degli studenti. Ed è tutto qui il succo del famigerato decreto sulla scuola del Ministro Gelmini appena convertito in legge dal Parlamento!
Nessuno nella maggioranza ha mai preteso di definirla una riforma della scuola, perché è solo un provvedimento di rimodulazione delle risorse per ridurre gli sprechi, per razionalizzare la distribuzione del personale e per aumentare l’offerta formativa.
Ha persino esagerato la Gelmini nel dire “la scuola cambia. Si torna alla scuola della serietà”, perché, per la portata ridotta di questo provvedimento, la serietà e di là da venire. C’è un corpo docente che non è all’altezza e c’è, da parte degli insegnanti di ogni livello, una predisposizione politica alla strumentalizzazione dei ragazzi che, per serietà, andrebbe rimossa.
Una scuola seria la si potrà ottenere quando la reazione conservatrice di una sinistra senza riferimenti e senza valori lascerà il posto ad una diversa sinistra, veramente democratica e riformatrice, con la quale potrà essere possibile confrontarsi per ricondurre la scuola a luogo di confronto e di cultura plurale. La si potrà, inoltre, avere quando, dall’odierna centralità della funzione docente, si potrà trasferire l’attenzione alla centralità dell’utente della scuola e dell’università. Come per ogni settore pubblico e privato, l’efficienza si commisura alla capacità di soddisfare l’utenza e nel caso della scuola nella capacità didattica di trasferire conoscenza e formazione. La scuola italiana, però, ha gli stessi limiti del pubblico impiego a cui, malgrado la spesa ed il numero degli occupati, non corrisponde un servizio di qualità.
Vito Schepisi

21 ottobre 2008

Ma l'opposizione è costruttiva?

Ci sono accuse che vengono mosse verso chi sostiene questa maggioranza. Le accuse si sostanziano pressappoco in queste osservazioni:
- parlate sempre dei limiti democratici dell’opposizione, ma un osservatore obiettivo non deve prendersela con chi fa opposizione ma deve pungolare il Governo;
- parlate sempre di Veltroni e Di Pietro come se fossero loro a fornirci questo schifo di governo;
- avanza nel Paese l’intolleranza verso ogni voce dell’opposizione e voi state a criticare chi lancia segnali di allarme;
- c’è una istigazione al razzismo, viene fatta l’apologia del fascismo e voi continuate con la critica al comunismo che non esiste più.
Capita che ognuna di queste obiezioni possa lasciare perplessi chi si ostina a raccontare la politica con la pretesa di saperne leggere i motivi di fondo.
C’è in verità la prevalenza di un orientamento e di una provenienza culturale in cui le opzioni del pensiero si formano. Ma è normale che sia così! Esiste un nocciolo duro del pensiero che è anche sede di pregiudizio e di convinzioni così radicate da riuscire a mescolare con facilità torto e ragione. Ma non sembra che sia questo il caso! Non si può nascondere che ci sia comunque la presenza di un paletto nella coscienza di ciascuno che stabilisce la misura di ciò che sia tollerabile, separandolo da ciò che invece non si può accettare.
Per un liberale, ad esempio, è accettabile tutto meno ciò che causa la perdita della facoltà di pensare in libertà, nello stesso modo che per un socialista marxista non sia accettabile la teoria del salario come variabile dipendente, al contrario di un liberista, ovvero per un cattolico non sia accettabile una politica che confligga con l’etica cristiana. Sono convinzioni che se radicate in una forma di stabilizzazione culturale sono difficili da superare. Ma non siamo a questo punto!
Il programma presentato dal PD, e accettato dall’Idv di Di Pietro sulle politiche del controllo del territorio, della sicurezza, dello sviluppo economico e del sostegno alle famiglie non si distingueva in modo radicale da quello del Pdl. Anche le questioni del federalismo fiscale, della necessità della riforma costituzionale, degli interventi sulla giustizia hanno trovato spazio per una base di comune intento riformista. E’ vero che c’erano segnali preoccupanti come la mortificazione della sinistra riformista di Boselli, per privilegiare il rozzo antagonismo di Di Pietro, ma come per una rondine non si può dire che sia primavera, per un rumoroso arruffapopoli non si può dire che siano tutti arruffapopoli, che poi è come dire che per un imbecille non si può dire che siano tutti imbecilli.
I fatti però hanno smentito le speranze. La delusione dei democratici moderati è arrivata quando il PD ha preso la strada del pregiudizio verso la maggioranza ed ha cavalcato il giustizialismo di Di Pietro. E’ capitato che con l’intento di promuovere lo stile ed il metodo delle democrazie europee, nel confronto tra maggioranza ed opposizione, invece di omologare al dialogo ed alla moderazione Di Pietro ed il suo partito personale, siano prevalsi i toni dell’antagonismo e del pregiudizio, tali da far omologare alla rozzezza di Di Pietro i toni del confronto politico del PD.
Si fa, pertanto, un bel dire quando si afferma che negli interventi degli osservatori politici di certi ambienti liberali prevalgano le critiche all’opposizione anziché al governo. Quando accade non è per pregiudizio ma per l’osservazione razionale di ciò che accade.
C’è da osservare che il governo alle parole privilegia i fatti, come è giusto che sia, e che i fatti siano graditi agli elettori e che, invece, sembra piuttosto sbracata, se non incoerente, parolaia e strumentale, l’azione dell’opposizione. È l’esatto contrario di ciò che accadeva con Prodi.
Non si rendono contributi alla chiarezza ed alla funzione costruttiva, propria dell’opposizione, quando si diffondono notizie false o si lanciano allarmi irrazionali nel paese su questioni delicate come l’educazione dei giovani ed il razzismo.
Come poi si può pretendere un’azione di critica e di stimolo al Governo quando c’è un’opposizione che inquieta per i suoi toni e le sue posizioni? Preoccupa persino la cinica indifferenza con cui ora Veltroni, ora Di Pietro ricorrono a metodi ed azioni che nuocciono al Paese.
Vito Schepisi

20 ottobre 2008

Il Paese dei provinciali e dei complessati

Se in Europa si parla dell’Italia, nel nostro Paese c’è sempre un megafono pronto ad ampliare e strumentalizzare ciò che si dice. Se in Europa si eleva un appunto al governo italiano, il megafono diventa uno stereo assordante e la voglia di sceneggiare preoccupazione, sdegno ed incredulità raggiunge toni da melodramma. Accade anche se l’Italia, esercita il diritto di far valere le sue ragioni nell’interesse del Paese e si preoccupa del contenimento della spesa.
Lascia interdetti il ripetersi di una sceneggiata che serve più a ledere l’immagine italiana che a concedere attenzione e serietà all’opposizione. C’è un provincialismo becero che emerge puntualmente, come un modo di sentirsi figli di un dio minore. E’ presente nell’Italia politica un diffuso complesso di inferiorità nei confronti degli altri paesi europei, come se gli altri fossero tutti più belli, più bravi e più buoni. Per fortuna che l’Italia dei cittadini, invece, di questo complesso non soffre. C’è l’intelligenza del fare che impone la sua presenza con le opere e l’ingegno di cui è capace, anche in conflitto con chi vorrebbe invece imporre un ruolo secondario alla Nazione.
Per l’Italia dei complessati non si potrebbe mai dire niente in Europa, se non rimetterci alle idee degli altri, e mai sarebbe possibile far prevalere le opinioni o suggerire le proposte italiane.
Contraddire la Francia, la Germania, l’Inghilterra e persino la Spagna e la Grecia si trasforma sempre in colpa grave e fa muovere un insieme di accuse che vanno dal presunto sentimento antieuropeo, all’isolamento dell’Italia o alla più generica accusa di brutta figura. Questa è la sinistra italiana, se non fa ancora di peggio organizzando imboscate o gazzarre antinazionali.
Si ha l’impressione, a volte, che sia preallestita un’orchestra già pronta a partire. Le prese di posizione del nostro governo servono a far partire il concerto, ci si preoccupa solo dell’effetto annuncio della notizia, naturalmente segnalando le apparenze negative, mentre nessuno sembra disposto ad approfondirne i contenuti. Nessuno ha voglia di valutare l’opportunità e la qualità della proposta. A malapena si verifica che la notizia sia vera. E poi via e parte la banda.
Tutti parlano perché la stampa ne amplifichi la portata. Le notizie hanno l’effetto di colpire l’immaginazione della gente. Chi più, o chi meno, fra gli operatori dell’informazione ci mette qualcosa di proprio per ottenere l’effetto che si prefigge. Il mestiere e la correttezza professionale intervengono solo perché la notizia sia almeno vera ed il margine dell’agire si deve così limitare solo alle sensazioni che si vogliono trasmettere.
Il mestiere è difficile ed i confini dell’etica e della correttezza sono spesso impercettibili e lo sconfino dal principio della deontologia è sempre in agguato, anche per coloro che si prefiggono di fornire sempre con correttezza la notizia prima del messaggio da diffondere.
Fa naturalmente bene la stampa a diffondere tutte le notizie, anche quelle che agiscono contro gli interessi nazionali, o che diffondono comportamenti censurabili del governo del Paese. E si deve sostenere che sia anche un buon metodo quello di far seguire alle notizie gli approfondimenti ed i messaggi delle opinioni e delle scelte diverse rispetto a quelle rispettivamente proposte o adottate. La democrazia si regge, infatti sul pluralismo delle opinioni. Quello dell’informazione è un potere, ed esercitare questo potere non è solo un diritto ma anche un preciso dovere. E’ un potere che muove le opinioni, informa su vizi e virtù, stabilisce scelte, esalta uomini ed idee e stabilisce anche le sfortune degli uni e delle altre. Nell’era della velocità delle conoscenze, non può che essere così: l’informazione è il veicolo che anticipa il destino; è il giudice che irrora le sentenze della storia; è la scure del boia o l’aureola del paradiso.
E così la posizione dell’Italia sulla questione della difesa dell’ambiente ha avuto l’effetto della amplificazione della notizia, ha fatto partire le polemiche tra maggioranza ed opposizione, ma non ha trovato gli approfondimenti che servano a sostenerne o meno la portata, e solo pochi organi di informazione hanno tratto la dimensione delle obiezioni italiane. Tutto il resto solo per la polemica e per piangerci addosso. Ed è così che anche in questa circostanza è emerso il consueto provincialismo, è apparso l’atavico complesso d’inferiorità e si è manifestata la tafazziana predisposizione dell’opposizione di sinistra nel volersi far del male.
Vito Schepisi

15 ottobre 2008

La scuola in Italia non funziona

Non c’è niente di più facile che strumentalizzare gli studenti quando li si invita a far “sega” a scuola. Le difficoltà che sono state incontrate da ogni ministro della pubblica istruzione in Italia - di ogni colore politico - per attuare una riforma organica e seria della scuola, sono consistite sempre nella facilità con cui si riesce a strumentalizzare i giovani e spingerli verso la protesta.
Se la reazione alle modifiche richieste coinvolge anche gli insegnanti e se i sindacati mobilitano gli iscritti e diffondono bollettini di guerra, strumentalizzando ora un passo, ora l’altro dei provvedimenti, inserendo persino ipotesi strumentali che non esistono, diviene ancora più facile.
Negli studenti si scatena la sindrome di Stoccolma, quando si trovano a supportare le proteste dei docenti: sono portati persino a solidarizzare con il “nemico”. Per lo studente, infatti, il docente è sempre, scherzosamente o meno, la controparte.
Anche l’azione degli insegnanti molto spesso giova a facilitare il progressivo sfilacciarsi della funzione didattica e formativa della scuola. C’è nei docenti uno spirito conservatore che non agevola il coraggio di riprendere le redini dell’autorevolezza della loro funzione. Sembra che ci sia uno spirito di corpo che li spinge più a sottostare ad un ruolo di presenza passiva, che ad imporre comportamenti adeguati e dignitosi.
Non c’è proprio bisogno di leggere i dati dell’OCSE per capire che in Italia la scuola non funziona! E’, persino, ridicolo leggere che il Ministro Gelmini, e coloro che sostengono la necessità della riforma della pubblica istruzione, partendo dal ripristino di strumenti di valutazione tradizionali e seri, siano accusati di sottrarsi al confronto con il personale della scuola. L’attuale pubblico servizio educativo è quello che si arrocca dietro la conservazione di strumenti e metodi già ritenuti di cinica ed irresponsabile insensibilità.
La scuola di oggi ha la presunzione dell’autoreferenza e quella spocchia che deriva dallo status di insegnanti. Sono difetti che disperdono la sensazione della realtà, rendono endemiche le carenze del corpo docente e controproducenti le loro prestazioni.
La gestione per certi versi burocratica e per altri sindacale della scuola italiana è il perfetto contrario della funzione educativa. Nelle scuole tutto è finalizzato, ad esempio, a trarre profitto dalle attività e tutto senza il coinvolgimento, se non secondario, relativo e piuttosto indifferente, dei soggetti principali della istituzione scolastica. Si sposta così la centralità dagli studenti al personale. La funzione didattica si trasforma in “postificio” dove conta più il numero degli occupati che, appunto, le finalità dell’istituzione. Sarebbe necessario invece riqualificare la spesa e la qualità dell’istruzione, tenendo conto sia della finalità didattica che della qualificazione del personale, con un dignitoso trattamento economico ed un sistema premiante in funzione di comprovate capacità.
Da qualche anno si è scatenata la corsa ai progetti che consente a chi li appronta ed a chi partecipa benefici economici, spesso anche esagerati, nella completa assenza della partecipazione degli studenti, cioè in assenza dei veri protagonisti della scuola. Non sono, infatti, i maestri, i professori, il personale, le forze del futuro che il sistema dell’insegnamento si prefigge di promuovere, ma sono invece quei giovani a cui si presta attenzione oggi solo per strumentalizzarli. Nella scuola, come nel pubblico impiego, il personale (mi scuso per la generalizzazione - ndr) si prefigge due soli risultati: maggior guadagno e minor impegno.
Si vuole un esempio? Dopo il provvedimento del Ministro Brunetta sulle assenze per malattie nel pubblico impiego, c’è stata la corsa ad informarsi su cosa si perde se ci si assenta per malattia e su come si possono evitare le decurtazioni. La preoccupazione degli impiegati del pubblico impiego è stata quella di trovare, se possibile, il modo per aggirare l’ostacolo. Nelle scuole le segreterie sono state assalite dai docenti che si informavano. E non ci sarebbe da meravigliarsi se si arrivasse ad ascoltare il disappunto degli studenti per le minori assenze dei loro docenti.
Si parla di tagli. Ma come si possono nascondere le difficoltà economiche del Paese? I tagli sono necessari perché senza la riduzione della spesa non si può contenere la pressione fiscale e non si possono adottare provvedimenti di sostegno alle famiglie, al lavoro ed alle fasce più disagiate. Un’azione di governo responsabile ha così il dovere di tagliare gli sprechi, anche nella scuola.
Vito Schepisi

14 ottobre 2008

Quanto durerà questo partito democratico?



Leggendo l’articolo di Peppino Caldarola sul Giornale di questa mattina, ho risolto un enigma che mi ponevo da tempo. Se il Pd in definitiva abbia offerto alla politica italiana qualcosa di nuovo. La risposta è stata negativa. Anche la presunta unificazione, in un partito, delle due componenti interessate all’incontro tra marxismo e cattolicesimo, caro al sentimento di ineluttabilità di Aldo Moro, e che ha coinvolto i post comunisti ed i post confessionali cattolici italiani, sa tanto di antico.
E’ emerso il vecchio compromesso storico, inseguito da anni in piena prima repubblica e bloccato solo con la tragica scomparsa dello Statista cattolico. Lo stesso che è stato pensato allora per sbancare il tavolo della democrazia e mettere fuori gioco sia il socialismo riformista che il liberalismo pragmatico dello Stato necessario. Il nuovo partito è simile all’equilibrio sostanziale tra la maggioranza a centralità democristiana e l’opposizione a centralità marxista del vecchio consociativismo.
La particolarità si rispecchia soltanto nella riflessione che, con il venir meno del centralismo democratico dell’esperienza marxista, il nuovo partito è stato influenzato maggiormente dall’aspetto tattico della vecchia Dc, dove e quando non si risparmiavano munizioni nella lotta intestina, per compattarsi subito dopo in presenza della divisione degli spazi di potere.
La presenza all’interno di anime teoricamente così differenti, da sembrare persino del tutto inconciliabili impone, oggi come imponeva allora, il metodo dell’immobilismo nell’attività propositiva del partito e la chiusura culturale alle riforme ed alle novità in genere. Contava allora, come conta ora, più ciò che si lasciava intendere di ciò che si faceva. La politica delle parole, cara a Veltroni, anziché la politica dei fatti.
Il PD è un puzzle dove le tessere si scompongono su ogni questione, per ricomporsi solo al sopraggiungere della necessità dell’unità strumentale per conquistare il proprio spazio di interdizione. La forza di ciascuno consiste solo nella sua capacità di poter impedire. E’ un campo di battaglia dove la tensione si avverte a naso. Veltroni acquista consenso solo se riesce a dividere. La sua forza è in definitiva solo quella sua debolezza che lo mantiene in vita. “Sulla carta - sostiene Caldarola - più il Pd si divide in ex Ds ed ex Popolari, con altre correnti di contorno, più il segretario può sentirsi in sella. A meno di un patto doroteo fra diessini e popolari che lo butti per aria, la nuova divisione nel Pd lascia un po’ di tempo da vivere, politicamente, a Veltroni”.
Tutti sono di passaggio, a parte che nel cammino della vita, anche nell’impegno politico, ma per Veltroni i suoi passaggi sono caratterizzati soltanto da rappresentazioni prive di contenuto. E’ come se in un teatro il sipario si aprisse dinanzi ad una scenografia maestosa per sfarzo e luci, ma senza che il protagonista abbia poi mostrato di saper ben occupare la scena. Una comparsa. Solo una semplice comparsa! Quanto fugace si vedrà: per ora ha solo compiuto un anno.
Anche il governo ombra del PD è piuttosto un governo in ombra. E’ sterile, inutile ed inconsistente; è privo della fisionomia rigorosa che, invece, la serietà del momento richiederebbe.
Il Pd si è spaccato persino sulla manifestazione del 25 ottobre, su cui invece Veltroni ha puntato giocandosi anche le carte del dialogo e del confronto con la maggioranza. La manifestazione avrà successo solo se riuscirà a mobilitare l’antiberlusconismo militante, Di Pietro, girotondini e sinistra alternativa compresi. Saranno, però, sempre coloro che non hanno votato e non voteranno Pd a decretare il successo o meno dell’iniziativa. Il collante sarà sempre il solito, ma perdente, prodotto.
Per raccattare questa gente, Veltroni ha chiesto sostegno alla base ed al sindacato della Cgil e si è mostrato disposto ad ogni genere di linguaggio, anche il più aspro. Da Alitalia ai contratti nell’industria il leader Pd è andato via, via alla ricerca dei toni esasperati per accreditarsi credibile, rincorrendo Di Pietro ed i centri sociali e facendo ricorso ad ogni doppiezza e strumentalizzazione. Sono tornate le polemiche su fascismo ed antifascismo, sono emerse le accuse di putinismo; si è arrivati a strumentalizzare gli immigrati e lanciare accuse di razzismo. Veltroni ha speculato persino sull’ultima crisi finanziaria.
Quanto durerà questo Partito Democratico? Questa si che è una bella domanda!
Vito Schepisi su l'Occidentale

13 ottobre 2008

Di Pietro, il torturatore dolce

Gli argomenti che usa Di Pietro per motivare la sua opposizione in Parlamento e nelle piazze non sono dissimili da quelli che vengono usati per i consigli per gli acquisti. Il suo fustino, infatti, lo spaccia come migliore di quello che offre la concorrenza.
Se la politica, però, è generalmente ritenuta arrogante e impunita, non sembra che quella dell’ex magistrato sia da meno. Le vicende in cui i suoi ex compagni di storie politiche lo coinvolgono mostrano un usuale comportamento dell’attività politica usata come mezzo. Il suo protagonismo risulta persino più professionale ed attento nell’assicurarsi i vantaggi economici e le opportunità che gli strumenti della democrazia offrono al partitismo ed alle attività delle forze rappresentative della volontà popolare.
Il suo bucato è dunque solo unilateralmente ritenuto più bianco di quello della maggioranza ed è senza un vero confronto alla luce del sole. Non può esserci, infatti, democrazia del confronto quando ci si limita a criminalizzare l’espressione politica votata dalla maggioranza degli elettori. Quando, come fa Di Pietro, non si riconosce la legittimità di una proposta politica, ci si esime persino dal dovere di attivare un’opposizione costruttiva o di confrontarsi sulla base di un diverso programma. L’opposizione dell’Idv non è per niente costruttiva, anche perché è priva di un visibile programma diverso: l’opposizione di Di Pietro è, infatti, solo pregiudiziale.
Il trebbiatore molisano era al governo fino a pochi mesi fa e non sembra che abbia agito per rendere più pulita la vita politica italiana. Più che una continua e poco dignitosa litigiosità con Mastella, reo d’avergli precluso la strada al ministero della giustizia a cui ardentemente aspirava, di tracce della sua presenza non se ne ricordano e tanto meno si rammenta l’efficacia della sua azione.
Sappiamo che ogni pacchetto pubblicitario viene predisposto per colpire la fantasia dei consumatori. I consigli per gli acquisti sortiscono così l’effetto dell’illusione: i denti più bianchi, lo sguardo ammaliante, il corpo più snello, il profumo più giovane. Si cerca di solito con la pubblicità di offrire un’immagine di efficienza e di qualità immediata. Sappiamo però che non sempre ciò che si propone corrisponde alla sostanza, e non sempre ha un miglior effetto pratico.
Di Pietro è così da tempo. E’così sin da quando faceva il PM e da quando misteriosamente ha riposto in soffitta la toga per vestire panni diversi. Ha avuto sempre un atteggiamento molto opportunistico nel percorrere trasversalmente la scena, come il famoso fustino della pubblicità.
Lo si ricorda in televisione a respingere una legge improntata alla civiltà giuridica e tesa a limitare l’uso del rigore carcerario come mezzo di tortura “dolce”. Nel delirio della sua sensazione di onnipotenza aveva persino immaginato un golpe giudiziario con riferimento planetario in cui le toghe, quasi ispirate da una sommità giustizialista e ritenute supreme regolatrici degli egoismi terreni, potessero deporre i governi degli uomini, in quanto banali espressioni della democrazia, per uniformarsi ai supremi codici dell’ordinamento giudiziario.
Quando qualcuno gli ha fatto rilevare che con gli stessi codici poteva dover rispondere del suo operato come magistrato e come uomo, ha invece dovuto necessariamente rimettere i piedi per terra.
Ha dato di sé prove diverse di attenzione alla vita sociale ma univoche nella direzione di porsi dinanzi al suo competitore, anziché come leale avversario ed efficiente interlocutore politico, per svolgere una funzione di stimolo e di controllo, come, invece, un feroce ed aggressivo molosso, esaltato nei toni e violento nei propositi. Si ha l’impressione che tutti coloro che osino passare dinanzi alla sua strada e che gli contendano la scena siano meritevoli almeno di 20 fustigate alla schiena, a guisa del rigore della legge coranica.
Ma se il Corano ha una sua dottrina di fondo che richiama i musulmani fedeli ad uniformarsi, il dipietrismo in fondo, invece, non ha niente. Il dipietrismo è solo odiosa visceralità e violenza allo stato potenziale, come quella in cui si distingueva Di Pietro come magistrato quando alzava la voce coi deboli ed usava, con minacce e torture psicologiche, gli indagati come megafoni dell’inquisizione.
Se il capo dell’Idv definisce il Governo Berlusconi una “dittatura dolce” chi ci impedisce allora di poter definire Di Pietro come un torturatore dolce.
Vito Schepisi

10 ottobre 2008

La follia finanziaria

Sulla volatilità della borsa non sono mai stati sollevati dubbi. Il mercato della azioni è sempre stato considerato un gioco d’azzardo. Passa per una linea d’investimento ma è soprattutto una forma di rischio per i capitali. In borsa non ci sono mai tutti vincitori o tutti perdenti. Se c’è chi guadagna c’è sempre chi perde, ovvero chi trasferisce la sua possibilità di guadagno o di perdita a seconda dell’andamento successivo delle azioni negoziate. Ma un tempo, se non diretto verso società decotte per altre ragioni quali le difficoltà industriali, la contrazione della domanda o la cattiva conduzione aziendale, l’investimento in borsa nel medio e lungo periodo era considerato il più remunerativo.
Fino alla prima metà degli anni ’90 si sviluppava nell’andamento dei titoli azionari un trend ciclico: era luogo comune il consiglio di comprare in presenza di mercati depressi e vendere quando i mercati registravano record di rialzo. Questo principio da manuale del piccolo azionista, sapientemente impiegato, serviva a creare equilibrio tra domanda ed offerta e rendere stabili le quotazioni. Acquistare, infatti, in presenza dei mercati in discesa blocca le perdite, e vendere quando il valore delle azioni sale, invece, impedisce che i rialzi siano al di sopra dell’effettiva qualità e valore delle società quotate.
Ma è un metodo che vale ancora? Rispondere positivamente sarebbe azzardato perché la borsa da qualche anno, invece di rispecchiare la solidità patrimoniale delle aziende, si muove di più sulla capacità di far girare i titoli azionari. La valutazione del rischio si forma in modo preponderante sulla capacità del titolo d’essere richiesto sul mercato. E’ capitato che società con enormi fatturati, con buone strutture industriali, con costosi macchinari e con migliaia di operai fossero meno capitalizzate di altre prive di strutture, con fatturati modesti e con poche centinaia di dipendenti, e solo perché coinvolte in un giro di manovre finanziarie che facevano lievitare il valore delle azioni.
Verso la fine degli anni novanta le società quotate in borsa sorgevano come i funghi nelle stagioni umide, e c’era la ressa nelle banche per acquistarne le azioni. Si registrava quasi sempre una richiesta più larga dell’offerta e puntualmente l’emissione andava al riparto. Nel primo giorno di quotazione in borsa e nei giorni successivi si sviluppava un’irrazionale corsa all’acquisto che faceva salire il valore delle azioni in modo esponenziale. Tutto avveniva in modo così irresponsabile da consentire di far arricchire pochi ed impoverirne tanti. Sul mercato, infatti, arrivavano vere e proprie scatole vuote che venivano riempite di luccicante denaro a spese di sprovveduti risparmiatori. La beffa è che costoro, sognando di interpretare nel complesso mondo della finanza la parte degli astuti speculatori, perdevano invece i risparmi accumulati in anni di lavoro.
Sul tavolo verde della fortuna, la roulette l’azionavano i furbi “capitani d’impresa” e gli “eroi” della finanza. Le società di gestione dei fondi comuni di investimento si inserivano nei mercati spostando enormi quantità di denaro da una società all’altra, facendone così lievitare il prezzo per poi spostarne piccoli pezzi alla volta sul mercato e speculando sul plus valore che si andava creando, ovvero erano le stesse società che immettevano sul mercato grosse quantità di titoli azionari facendo scendere le quotazioni per ricomprare gli stessi titoli a prezzi più bassi. Ogni strumento finanziario, a danno dei semplici risparmiatori, è stato ampiamente utilizzato con l’esito di rendere la borsa non più una proficua fonte di finanziamento per l’impresa, ma un serbatoio di speculazioni che per alcuni industriali-finanzieri si andava a sostituire ai profitti aziendali.
Verso la fine degli anni 90, i capitalisti italiani erano diventati quasi tutti finanzieri ed invece di investire nelle imprese di famiglia, ereditate da nonni e genitori, per rinnovarle e rilanciarle, investivano in attività finanziarie. La finanza, come dice a ragione il ministro Tremonti, non produce ricchezza ma si limita solo a trasferirla. I subprime, i derivati, le obbligazioni subordinate, le scommesse sul rialzo o sul ribasso dei titoli azionari, sono stati gli ulteriori strumenti della follia finanziaria degli anni a cavallo tra il secondo ed il terzo millennio su cui sono scivolati milioni di ingenui risparmiatori.
Dopo la crisi industriale del 1929 c’era così da aspettarsela la crisi finanziaria del 2008
Vito Schepisi su l'Occidentale

08 ottobre 2008

Cacciari: Veltroni è "ridicolo" e "inadeguato"

Se Veltroni sperava di sgonfiare la bolla Di Pietro non c’è riuscito. Osservando i sondaggi, pubblicati da Affari Italiani il 7 ottobre, il tentativo di corrergli dietro ha sortito ben tre effetti opposti a quelli che il segretario del PD voleva ottenere: ha ridotto nelle intenzioni di voto degli italiani il consenso verso il PD, sceso al 28% dell’elettorato; ha favorito notevolmente la crescita dell’Italia dei Valori di Di Pietro, che ha raggiunto l’8%; ha incrementato il consenso al Pdl che si conferma stabilmente come primo partito italiano, raggiungendo il 41% delle intenzioni di voto.
Se poi la Lega resta stabile al 9%, il Movimento delle Autonomie di Lombardo, anch’esso stabile sull’1% e la destra di Storace mantiene il suo 2%, è la sinistra nel suo insieme che perde voti a favore del centrodestra.
Tra il Pdl e il PD ci sono ora due interi partiti di differenza: l’Idv + l’Udc che insieme fanno 13 di percentuale. Il solo partito di Berlusconi supera tutta insieme l’intera sinistra (quella che somma a Veltroni, Di Pietro, e la sinistra arcobaleno, attestatasi sul 4%).
Un autunno da dimenticare per il PD. In così breve tempo sta inanellando un’onda lunga di sonore sconfitte. Per sgonfiare un’azione politica inconsistente, quanto una bolla di sapone, per lo spessore molto contenuto di Di Pietro, Veltroni ha perso il fiato e non regge alla distanza.
Ha più di una ragione, quindi, il Sindaco di Venezia, Cacciari, a definire il segretario PD “ridicolo” e “inadeguato”. Ridicolo perché sforna il solito piatto dell’emergenza democratica. Se “Berlusconi è un'anomalia del sistema democratico”, come sostiene Veltroni, Cacciari osserva: “Ma se è dal 1994 che è in politica! E' una cattiva battuta, una cosa che fa ridere".
Il leader del PD è inadeguato perché alle iniziative della maggioranza, ritenute dallo stesso Cacciari semplici “spot”, non riesce a contrapporre niente e, soprattutto, blocca il confronto sulle riforme per cui il Paese corre il rischio di perdere ancora una legislatura. “Il governo sta facendo spot e l'opposizione manifestazioni. Chi ha più torto? Non lo so. Ma - conclude il sindaco di Venezia – nessuno dei due è adeguato al problema e alla crisi che stiamo attraversando”.
Alla politica prima dell’Ulivo, poi dell’Unione, costruita sulla delegittimazione di Berlusconi e dei suoi alleati (l’ultimo Governo di Prodi pervicacemente, invece di cavalcare la ripresa della congiuntura internazionale, disponeva prevalentemente controriforme che annullassero i provvedimenti del governo precedente), l’elettorato moderato e popolare ha risposto premiando il Pdl. Ha così legittimato la maggioranza che si è formata sui valori della moderazione e del riformismo. Anche se molti elettori hanno creduto alla svolta di Veltroni ed hanno sperato che anche in Italia prevalesse la normalità nel confronto politico, a prevalere nel PD è stato lo zoccolo duro dei post comunisti. C’è una consistente fascia di elettorato di sinistra che esaurisce il suo messaggio politico con la sola idea dell’eliminazione dell’odiato Berlusconi.
Perché Veltroni corre dietro allo zoccolo duro e rinuncia alla sfida al Pdl sul centro e sul riformismo? L’unica risposta è che sia confuso. Ma Di Pietro si sgonfia con la buona politica e non inseguendolo con la trebbiatrice.
Cacciari è certamente tra coloro che speravano “che potesse essere la volta buona per una certa intesa per fare riforme serie, condivise e bipartisan”. Ma se le parole di Cacciari possono starci in un confronto teso, ma legittimo, con la maggioranza; se sono osservazioni critiche e costruttive, come dovrebbero essere nel linguaggio di una opposizione democratica, le sue osservazioni devono, invece, essere considerate dei veri macigni scagliati contro il leader del suo partito.
Si ha l’impressione che all’interno del PD si va formando una fronda di aperta rottura con il segretario. Se il PD trovasse al suo interno una classe dirigente di estrazione democratica, liberale e riformista, si potrebbe anche sperare di rendere anche il nostro un Paese normale.
Vito Schepisi su l'Occidentale

07 ottobre 2008

Il Feroce Saladino

E’ uno strano partito quello Democratico. E’ stato voluto da Prodi e sembra che ora il Professore ne sia già fuori. La tessera numero uno di De Benedetti non è stata mai consegnata ed ora il finanziere e coeditore del gruppo Repubblica-L’Espresso mostra di non gradirla più. Il responsabile politico del Partito parla, ma c’è chi lo precede per dire cose diverse o lo smentisce prefigurando scenari e strategie differenti. Il Partito è frantumato in tanti di quei gruppi che è persino difficile contarli.
Rivendica scelte coraggiose Veltroni: “abbiamo fatto – sostiene – un’operazione di grande europeizzazione della vita politica italiana", ma ha il vizio di inciampare sugli esiti. Il coraggio, infatti, richiede la coerenza che è mancata quando ha scaricato Boselli per imbarcare Di Pietro e che non mantiene quando non chiede, anzi non pretende il tavolo delle riforme.
Se Veltroni non riesce a dare respiro europeo al suo partito non potrà mai contribuire a darlo alla politica italiana! Persino il rotocalco Newsweek qualche settimana fa lo ha ignorato nel far l’elenco dei leader contemporanei della sinistra Europea.
E’ uno strano partito. Sembra un partito omertoso. Alla ripresa dell’attività politica dopo l’estate, per parlare di strategie per l’autunno, nessuno ha preso la parola per tratteggiare i differenti punti di vista, tranne Parisi che ha definito il PD un “partito schizofrenico e depresso”.
Il nuovo partito della sinistra italiana sembra, così, più un luogo di chiacchiericcio e di pettegolezzi che una forza politica che si prefigge obiettivi ambiziosi. Si ha l’impressione che la fusione tra ispirazioni e tradizioni diverse consigli a tutti di tenere a freno la bocca, anche se non riesce a smorzare delusioni e preoccupazioni. E c’è chi già pensa a scissioni.
Non ha fatto in tempo D’Alema, alla conferenza dei giovani di Confindustria a Capri, ad esprimere apprezzamenti a Tremonti ed al Capo del Governo sulla cautela e prudenza nella gestione della crisi finanziaria mondiale che altri, come Bersani e lo stesso Veltroni contestano, invece, al Governo la sottovalutazione della crisi ed il pericolo di un fenomeno più pericoloso della crisi del ’29.
L’impressione è che la guerra sia totale e che le battaglie vengano affrontate senza esclusione di colpi anche se investono questioni delicate, come si è visto per Alitalia, o se finiscono col soffiare sul fuoco della crisi finanziaria che è, e deve restare, invece, al di fuori del confronto politico.
La Legislatura è ancora lunga ed alla fine emergerà solo la capacità di adeguare il Paese alle mutazioni sempre più veloci di una società globale. L’invidia ed il risentimento possono poco se confrontate con la strategia delle riforme e con le rivoluzioni sociali; ed a nulla valgono le accuse di autoritarismo se il Governo va avanti per la sua strada sostenuto dal consenso degli italiani.
D’Alema, ad esempio, sembra abbia compreso che col 25 ottobre non si esaurisce l’attività del PD, al contrario di Veltroni, che dovrebbe essere un po’ più smaliziato del Di Pietro che prova ad inseguire. Pensiamo che non sia a torto che si accredita capacità intellettuali più raffinate.
Un furore quello del ’buonista” del vecchio pci che appare sproporzionato, se alimentato solo dalla manifestazione del 25 ottobre. E’vero che la politica è fatta per gran parte di episodi ma è anche vero che alla politica non possano mancare obiettivi ed indicazioni di più largo respiro. Un grande partito non può limitarsi a vivere alla giornata e preoccuparsi solo degli effetti speciali, perché ci sono anche quelli normali. Le emozioni che una formazione politica fa emergere finiscono con essere la sostanza di una credibilità più duratura. Le ragioni dei riferimenti ideali sono le fondamenta su cui un partito d’origine popolare deve costruire il nocciolo duro del suo consenso.
Anche i sillogismi verbali richiedono allo stesso tempo dell’effetto immediato la logica della loro interpretazione futura. Il fatto che in piazza scendano solo quelli più inclini alle parole d’ordine ed ai messaggi forti non può far esimere il segretario di un partito responsabile dal riflettere sulla preclusione nei futuri rapporti e sull’opportunità o meno di condurre lo scontro verso un punto di non facile ritorno. Nessuno gradisce sedersi a discutere intorno ad un tavolo dove uno dei presenti usa arringare la folla contro gli altri partecipanti.
C’è già Di Pietro, dentro e fuori del Parlamento, ad occupare lo spazio dell’intolleranza e della opposizione pregiudiziale, e Veltroni deve saperlo che Di Pietro come “Il Feroce Saladino” è più credibile di lui.
Vito Schepisi

06 ottobre 2008

Consulta e Vigilanza Rai sullo stesso piano?

L’iniziativa dei radicali, con i digiuni e gli scioperi della sete di Pannella, come anche quella strumentale di Di Pietro, l’intervento dei Presidenti delle Camere e finanche quello del Presidente della Repubblica, non possono porre sullo stesso piano le questioni del plenum dei componenti della Corte Costituzionale con la nomina del Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai.
Sono due cose ben diverse che devono restare anche ben separate.
Dall’aprile del 2007 non è stato possibile alle Camere, riunite in seduta congiunta, integrare la Consulta con l’elezione del quindicesimo Giudice della Corte Costituzionale. La motivazione conduce ad una sola responsabilità: l’ostruzionismo della sinistra.
Il Plenum della Corte era venuto meno per le dimissioni del 30 aprile 2007 (18 mesi fa) del Professor Romano Vaccarella. Questi le aveva rassegnate per protesta contro il Governo. Prodi, a suo dire, era rimasto sordo e muto per le pressioni dei suoi ministri sulla Consulta, perché si esprimesse contro l’ammissibilità costituzionale del referendum di iniziativa popolare proposto sulla abrogazione di alcuni articoli della vigente legge elettorale. Leggendo dalla lettera del Professore Vaccarella, le dimissioni, divenute poi irrevocabili, venivano, infatti, proposte «sia con riferimento a dichiarazioni in materia di ammissibilità di referendum elettorali attribuite da organi di stampa ad alcuni Ministri e ad un Sottosegretario offensive della dignità e della indipendenza della Corte stessa, sia con riferimento all’assenza di smentite ed al silenzio delle Istituzioni». Una motivazione molto pesante accolta con inspiegabile indifferenza da Prodi.
La nomina del Professor Vaccarella rientrava tra le cinque previste, su quindici, per indicazione parlamentare. Nel 2002 il Professore era stato eletto in quanto designato dalla Casa delle Libertà Ora PDL. Quella, infatti, della designazione di un terzo dei componenti la Consulta - gli altri due terzi sono nominati per un terzo dal Capo dello Stato e per l’altro terzo dalle tre Magistrature superiori (3 Cassazione ed uno ciascuno Corte dei Conti e Consiglio di Stato) – avviene attraverso l’indicazione delle forze politiche. L’uscita, quindi, di un componente, per prassi, motiva la designazione da parte dello stesso gruppo che già aveva designato l’uscente. Questo metodo, utilizzato anche nel passato, è servito ad evitare la paralisi dell’Organo preposto alla verifica costituzionale di norme e leggi.
Se il metodo vale per tutti, un po’ meno sembra che valga quando la designazione non sia in quota alla sinistra ed in particolare se debba provenire dal partito di Berlusconi.
Il metodo adottato per la formazione della Consulta è brutto, è squilibrato, e può condurre alla creazione di fazioni, ma è quello previsto dall’art. 135 della Costituzione e si deve rispettare così com’è, e si ravvisano come necessari anche i criteri che evitino contrapposizioni paralizzanti.
Da questo braccio di ferro non si riuscirà a venir fuori se non con il riconoscimento al Pdl, nel frattempo diventato anche maggioranza nel Paese, del suo diritto di designare un componente. Una soluzione diversa andrebbe a rompere la consuetudine raggiunta per le designazioni di provenienza parlamentare e sarebbe motivo di ulteriore squilibrio all’interno della stessa Consulta, sia per il dilagante prevalere di un area politica e sia per l’innesto di ulteriori contrapposizioni in futuro.
E diversa, invece, la questione della Commissione di Vigilanza Rai, e non solo perché di diversissimo spessore. E’ differente perché in questo caso nessuno sostiene che la designazione non debba essere espressa dall’attuale opposizione, come è prassi consolidata.
Una commissione di garanzia, come quella della Vigilanza Rai, però, necessita che abbia nella sua figura più responsabile, cioè nel Presidente, l’autorevolezza di una scelta improntata al massimo dell’equilibrio e della correttezza. Nessuna squadra accetterebbe che ad arbitrare la partita ci sia una delle espressioni più esagitate della squadra avversaria. Se il candidato deve essere scelto per la garanzia di tutti, non può esserci una parte che dubita che il candidato risponda a questi requisiti.
Leoluca Orlando Cascio ha trascorsi molto intensi e coloriti per essere una garanzia per tutti. In passato ha persino fatto uso della tv pubblica per infangare, senza contraddittorio, onesti servitori dello Stato: in particolare un maresciallo dei CC che per le sue parole si è tolto la vita per il disonore.
Sono precedenti inquietanti, e non si possono ignorare.
Vito Schepisi

05 ottobre 2008

Il problema non è il colore della pelle ma la legalità

La sinistra ha il gusto della ciclicità negli argomenti della sua polemica. Come si alternano le stagioni, a sinistra si alternano i temi delle contrapposizione più nette. Nessuna proposta, nessuna idea ma solo l’intenzione di fomentare divisioni nel Paese.zione di fomentare dsmo
re della pella ma è la legalitàmini di colore e di origine diversa tributi all'di intolleranza fossero Si ha l’impressione che ci sia una cernita tra gli episodi che maggiormente possano motivare polemiche ed esacerbare i toni del dibattito. Veltroni, però, dovrebbe ormai sapere che il limone è stato già spremuto e che l’acre succo è ben che consumato.
Non sono affatto cambiati i metodi della sinistra tradizionale di estrazione marxista. Lo spirito ed il metodo restano invariati: il fine è sempre lo scontro. Tra gli argomenti sono scelti quelli che possono incidere in modo più marcato, per creare disappunto e criminalizzare l’avversario politico che per l’occasione, tanto per coerenza, viene indicato come il nemico. A sinistra, malgrado le bandiere arcobaleno, c’è sempre clima di guerra, a volte da ultimo fronte.
Il tentativo è quello di far sembrare che da una parte ci sia gente rozza e dall’altra invece uomini buoni ed anime candide. In verità, invece, è che da una parte c’è stata la ferocia e l’odio di sempre e dall’altra, invece, l’istinto alla tranquillità ed alla tolleranza. Da una parte c’è un’azione politica fatta di parole d’ordine e di pregiudizialità, mentre dall’altra di ragionamento e di prudenza. Se da una parte c’è dialogo e moderazione, dall’altra non demordono il massimalismo e la violenza.
Il fascismo e l’antifascismo, la legalità e la giustizia, il conflitto di interessi, l’informazione televisiva, il dialogo e le riforme ed ora la xenofobia ed il razzismo sono i luoghi in cui, a tavolino, viene organizzato lo scontro. E’ come dal capello di un prestigiatore da dove non escono conigli o colombe bianche ma arcigni motivi di odio.
L’ultimo focolaio è stato acceso sulla supposizione che la politica del Governo sia foriera di sentimenti di rifiuto della diversità. Alcuni episodi della cronaca nera, in cui si sono trovati coinvolti uomini di colore, sono stati presi a pretesto per alimentare una nuova odiosa campagna di accuse verso la maggioranza ed il governo.
Questa però si può rivelare una campagna scellerata. Può far sortire il pericolo di creare fenomeni di xenofobia quando, invece, in Italia non esistono se non in quantità fisiologiche e del tutto trasversali al quadro politico. Non si è cattolici, ovvero liberali o socialisti, e neanche fascisti o comunisti e nello stesso tempo razzisti per definizione.
La paura, invece, per gli episodi di violenza in cui ogni giorno vengono coinvolti extracomunitari e clandestini può, infatti, favorire fenomeni di reazione. Tanto più se le forze politiche soffiano sul fuoco delle criticità avvertite. Non sono da sottovalutare le tesi di coloro, come anche quella del Presidente della Camera Fini, che sostengono che il fenomeno del possibile e pericoloso emergere del razzismo possa aver origine dalla preoccupazione degli italiani per la presenza di extracomunitari, per lo più clandestini, dediti al malaffare.
Se si pensa che l’intolleranza, come se fosse una diversità, esiste anche nel tifo per le squadre di calcio e persino all’interno delle stesse città, e solo per mera rivalità sportiva, si capisce che questi episodi sono tributi da rimettere alla stupidità ed all’ignoranza più che sentimenti di vero razzismo.
Saggezza e prudenza vorrebbero che siano abbassati i toni e che gli episodi di intolleranza e di illegalità siano perseguiti con l’applicazione puntuale della legge, attraverso l’impegno rigoroso e responsabile della magistratura e delle forze dell’ordine.
Il ruolo della politica è quello di supportare, con l’attività legislativa, il compito degli organi dello Stato chiamati a garantire la sicurezza ed a sanzionare e reprimere il crimine. I partiti, come per tutti gli interventi per il ripristino del buon senso e della civile convivenza, devono invece trovare le opportune convergenze tra maggioranza ed opposizione, nel comune interesse, con lo scopo di motivare il Paese sulle scelte della civiltà e del diritto e non fomentando spaccature con pretestuose contrapposizioni finalizzate ad accendere focolai di scontro.
Le politiche di umanità e di solidarietà, il dovere all’ospitalità e la lotta alle discriminazioni si attuano con l’offerta di sicurezza per tutti, anche per coloro che provengono da altri paesi.
Il vero problema non è quindi il colore della pelle ma la legalità.
Vito Schepisi

03 ottobre 2008

La politica del tanto peggio, tanto meglio

A corto di argomenti seri e di proposte su ciò che è utile al Paese, l’opposizione non trova di meglio che rilanciare il vecchio metodo del tanto peggio, tanto meglio. Il leader dell’opposizione moderata - che poi tanto moderata non appare - recupera i toni dello scontro, contraddicendo i propositi con cui alle elezioni ha cannibalizzato la sinistra alternativa.
L’idea è che siano prevalsi più i toni da opposizione al sistema, che la serenità dell’opposizione nel merito dei provvedimenti. Non emerge affatto lo spirito di una opposizione costruttiva, come avviene nelle democrazie più evolute. Sembra più una gara di fuochi d’artificio incrociata con Di Pietro per chi la spara più in alto.
Gli italiani dinanzi alla cagnara di questa inconcludente opposizione avvertono la sensazione di vivere in un Paese diverso da quello in cui consumano le abitudini della loro quotidianità.
Tra accostamenti senza senso a uomini del passato, tra sindacati che rischiano di mettere in mezzo alla strada migliaia di lavoratori, tra accuse di putinismo, fascismo, autoritarismo ed evocazione del regime argentino, in Italia sembra di vivere tra colpi di fucili sparati dai tetti e tra le autovetture riempite di tritolo.
La verità è che la gente ha davvero paura, ma non di questo governo che si possa trasformare in regime autoritario, ma ha paura di uscire di casa. L’attenzione dell’opposizione è rivolta più ai casi in cui la stupidità dei singoli possa far emergere sospetti di razzismo, che ai soprusi ed alle violenze a danno dei cittadini italiani da parte di una popolazione clandestina che riempie le piazze delle nostre città e che si rivela spesso coinvolta in attività criminose.
Le carceri italiane sono piene di extracomunitari ed il numero è davvero preoccupante se si pensa che in valore assoluto sfiora il 35% della popolazione carceraria.
Il sindacato italiano si è nuovamente spaccato. Dopo la questione Alitalia e la strana faccenda di Epifani e Veltroni, con cui si è sfiorato il dramma per migliaia di famiglie, la spaccatura ora emerge nel confronto tra la Confindustria e la stessa Cgil di Epifani, impegnato solo ad accentuare i motivi dello scontro.
Immaginare che ci sia una regia contro il governo, per partito preso, e che questa regia sia portata avanti con cinica indifferenza contro gli interessi dei lavoratori e quelli del Paese, non può definirsi come una maligna dietrologia politica, perché è la risultante chiara di un ragionamento semplice.
L’Italia ha passato due anni in cui il sindacato si è appiattito silente su un governo, quello di Prodi, che sembrava governasse contro gli italiani. La scure fiscale sia diretta che indiretta, per gli effetti dell’aumento dei costi, ha massacrato il potere d’acquisto dei lavoratori. La mancanza di investimenti, il blocco delle politiche di innovazione e delle grandi opere, unite allo sperpero delle risorse per provvedimenti di spesa, come lo scalino anziché lo scalone previdenziale, ad esempio, hanno depresso lo sviluppo e reso ancora più incerto il mondo del precariato.
Ora tra le difficoltà di una congiuntura finanziaria internazionale; pur in presenza di un lavoro costante del Governo sui diversi fronti della accorata domanda sociale di sicurezza; dinanzi ai successi registrati e persino al tributo di sangue pagato; nonostante gli sforzi del Governo nell’agire per qualificare la produttività ed isolare coloro che sfruttano il lavoro degli altri; malgrado il ripristino del decoro di una città come Napoli, il successo del rilancio di Alitalia, la volontà di riportare su percorsi di qualità e di efficienza la scuola, la giustizia, i servizi del Paese; con un governo che si attiva su tutti i fronti per recuperare serietà ed efficienza, la Cgil pensa a colorare di pregiudiziale politica antigovernativa la sua attività sindacale.
Anche questa volta interviene Veltroni a proporsi come facilitatore. Il proposito di rendersi protagonista, dopo aver ispirato il boicottaggio, come è sucesso per Alitalia, il leader del PD ora lo ripropone per l’ipotesi di rottura tra Confindustria e Cgil. Il terreno dello scontro è sull’inflazione programmata per il recupero del potere d’acquisto dei salari. Confindustra accusa la Cgil di voler ripristinare la scala mobile di cui ancora si ricordano i danni al Paese fino alla sua abolizione col Governo Amato nel luglio del 1992.
Vito Schepisi

02 ottobre 2008

Di Pietro alza il tiro verso il Quirinale


Non ha fatto in tempo Veltroni a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di Di Pietro che questi subito ha alzato la posta. Il tentativo di Veltroni di correr dietro all’Italia dei Valori ed ai gruppi dell’antipolitica giustizialista e forcaiola può però essere di corto respiro per il PD e per la leadership del suo segretario.
Di Pietro pur di non farsi intrappolare nell’omologia di una opposizione coesa e compatta, in cui il suo ruolo in Parlamento si renderebbe del tutto inutile, trascinerebbe l’ex sindaco di Roma persino nei centri sociali, nelle piazze del v-day e forse fino alla lotta armata e, se il caso, anche tra elmetti e svastiche.
Non sembra uomo che si ponga scrupoli l’ex magistrato ideatore di un sogno giustizialista negli anni ’90, che è parso piuttosto simile ad un golpe di magistrati.
Il gioco al rialzo può andar bene ad un partito di assalto che non ha niente da perdere perché poco rappresentativo. Può andar bene a Di Pietro che rischia di non raggiungere la soglia elettorale per entrare in parlamento e che ha bisogno della visibilità che gli deriva dal gusto dell’astio e dalla contrapposizione netta. Il gioco al rialzo, invece, non è utile ad un partito che aspira a diventare maggioranza nel Paese e che dovrebbe mostrarsi responsabile e maturo per governarlo.
E’ stato un grosso errore di Veltroni alle ultime elezioni quello di voler mortificare, come ci provava il vecchio pci con il psi, la concorrenza riformista dei socialisti per imbarcare la visceralità antipolitica di Di Pietro. Ora la concorrenza dell’ex magistrato sta trainando il PD su un sentiero impervio e pericoloso. Veltroni avrebbe dovuto saperlo che sulla lealtà politica di Di Pietro non si può fare alcun affidamento.
Di Pietro ha in se la sicumera tipica del tiranno che stabilisce rapidamente le sue mutevoli certezze.
Gli avversari interni del segretario del PD ora lo aspettano al varco, come Mao sulle sponde del fiume nell’attesa dei cadaveri dei suoi nemici.
Nessuno, però, deve pensare che Veltroni sia così sprovveduto. E’ scenico ed illusionista, è l’uomo che prova a muovere le emozioni, è un campione della letterina a Babbo Natale, ma non si deve pensare che sia stupido. Sarebbe necessario tener sempre ben presente che arrivare a sedere sulla sedia di direttore de l’Unità e competere per la segreteria del Pds, quando questo partito era ancora una formazione di ex pci che aveva solo cambiato nome, perché dopo la caduta del muto di Berlino si vergognava del vecchio nome, non è da stupidi ma da uomini con sufficiente arguzia. Ed anche tanto arguti, nella tipica astuzia leninista, da arrivare finanche a rinnegare la sua militanza nel pci.
Non bisogna mai dimenticare che la selezione del vecchio partito della sinistra internazionalista era dura e stringente. Tra le sue maglie non passava niente senza l’attenta analisi sul passato, senza la valutazione nel merito delle capacità per il futuro e, soprattutto, senza consolidate prove sulla certezza della fedeltà politica verso il partito.
Veltroni intende solo riscaldare la piazza per la manifestazione del 25 ottobre prossimo contro il governo e contro Berlusconi e prova a spuntare le armi di Di Pietro per le prossime regionali in Abruzzo. Ma deve stare attento perché non mette in conto né la popolarità del Governo e neanche il disgusto del Paese per questi giochetti.
L’accentuazione della sua opposizione, infatti, sarà solo di breve durata, perché l’autore de “La scoperta dell’alba” sa bene che con le posizioni piazzaiole non può bucare il consenso del Paese che è una platea, seppur più silenziosa e più pigra, molto più ampia ed incisiva della rumorosa piazza che oggi Walter Veltroni vorrebbe contendere a Di Pietro.
L’attacco al Presidente della Repubblica dell’ex magistrato è non solo gratuito e fuori luogo ma anche mal riposto perché non è il Capo dello Stato che stabilisce le volontà del Parlamento. E’ un attacco che odora di provocazione e di sfida. Sia la scelta di un Giudice della Consulta di indicazione parlamentare, che quella del Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai, attengono a prerogative del Parlamento. Di Pietro sa che è in atto un serrato braccio di ferro sia per l’una che per l’altra questione. Mentre la nomina del Giudice, nella prassi corrente per la ricerca dell’equilibrio, spetta ad un candidato indicato dalla maggioranza, quella del Presidente della Vigilanza, sempre per prassi consolidata, ad un parlamentare dell’opposizione. Mentre per la prima v’è stato un veto alla nomina di Gaetano Pecorella, indicato dalla componente di Berlusconi, per la seconda c’è stato un veto per la nomina di Leoluca Orlando, rappresentante della formazione dipietrista dell’Italia dei Valori. E se viene chiesto un passo indietro per Pecorella, Di Pietro non sembra disposto a fare un passo indietro per Orlando. Cosa centra allora il Presidente della Repubblica in questa questione se non per la volontà di accentuare lo scontro?
Mentre per la Consulta si tratta di una chiusura pretestuosa dal sapore della vendetta contro il leader del Pdl, per l’altra c’è la constatazione che una parte dell’Italia non gradirebbe la nomina alla presidenza della commissione interparlamentare di vigilanza della Rai di Leoluca Orlando Cascio da Palermo. Questi è già stato alla ribalta per il suo arcigno giustizialismo e per l’uso sconsiderato dei canali televisivi pubblici nell’infangare la reputazione di persone innocenti. C’è, infatti, chi ritiene che abbia già mietuto troppe vittime il giustizialismo puntiglioso e sommario di coloro che considerano che “il sospetto sia l’anticamera della verità”, per poter consentire di far presiedere questa commissione di garanzia da chi ha sostenuto e sostiene queste convinzioni. La verità giuridica avviene sempre alla fine delle fasi di un processo. La colpevolezza si forma infatti con le sentenze e non con le fasi inquisitorie. Il Pubblico Ministero che insinua il sospetto della colpa, come in più circostanze è accaduto, non è assolutamente infallibile.
Vito Schepisi