07 aprile 2008

Un voto contro il declino e per la libertà

Le sintesi e le semplificazioni politiche non sempre sono espressioni di rigoroso metodo interpretativo delle realtà. Per pigrizia intellettuale e per opportunismo, spesso si vuol far credere, ad esempio, che esistano spazi in cui si possano privilegiare esclusivamente le scelte verso la società che lavora e produce, ed altre verso la società che intraprende ed investe, senza che il sistema in un caso e nell’altro ne venga compromesso.
Ciò che è fuori dai tempi, e dalla comprensione di tanti, è il modo un po’ arcaico di far aleggiare l’idea che il confronto sia posto alla stregua di un conflitto sociale: come se le due scelte fossero in antitesi e prive di ragionevole interdipendenza tra loro. In nessuna delle società moderne che si sviluppano al di fuori dei regimi statalisti è così.
Quanto sia sbagliato questo modo di porre le questioni lo si rileva dalla esistenza di blocchi politici popolari in cui interagiscono, in modo eterogeneo, rappresentanze dello spaccato sociale del Paese.
Le sintesi e le ragioni di un cammino comune emergono attraverso la definizione di programmi condivisi, sebbene siano il minimo comune multiplo di accentuazioni e priorità diverse.
Le società democratiche, poi, sono quelle che pongono, in quanto multilaterali, con pari attenzione problematiche economiche e soluzioni getionali. Sono le sole che ne favoriscono l’integrazione e che si preoccupano di offrire ai due mondi, attraverso il confronto e le contrattazioni sociali, le opportunità di sviluppo solidale.
Il rapporto compatibile in una società produttiva ed industriale è quello che assicura, in termini di intese contrattuali e di provvedimenti legislativi, sia le scelte di crescita che le garanzie richieste da una comunità socio-politica indifferibilmente pluralista.
Questa maggiore ispirazione alle forme della democrazia liberale, con l’esigenza di un’espressione plurale, è una opzione che nell’Italia post fascista e repubblicana è sempre stata presente, tanto da non aver mai consentito, in oltre 60 anni, a quelle forze che si sono richiamate, con diverse espressioni e con varia intensità, alla lotta di classe, ed alla forme esclusivamente dirigistiche, di occupare il potere e di modificare le strategie dello sviluppo nella tradizione occidentale del Paese.
Il voto conservatore, di conseguenza, ha rappresentato sia l’opzione liberale della salvaguardia delle forme umanistiche e democratiche delle nostre istituzioni, sia la conferma della univocità delle scelte di civiltà radicate sui modelli occidentali e sulle rivoluzioni liberali del diciannovesimo secolo.
Il voto conservatore in Italia ha così ricercato le sue radici nel ripudio delle scelte ideologiche e delle intolleranze del ventesimo secolo.
E’ per queste ragioni che l’azione di Prodi, sia nella sua precedente esperienza del 1996, fallita per giochi di palazzo, sia in quella recente, con il suo Governo ancora in carica, è risultata anacronistica e fallimentare laddove rappresentava scelte ideologiche, antiproduttive, vessatorie verso il mondo del lavoro e della produzione, demagogiche e fuori dall’interesse generale del Paese.
Per conservatrice è stata così definita quella parte della società che ha svolto l’unica rivoluzione popolare del secolo scorso. È stata così definita tale la radicata convinzione politica di voler difendere le libertà ed il percorso anche della civiltà delle forme: valori che, insieme, rappresentano i solidi pilastri dell’Occidente, della democrazia liberale e della società degli uomini.
Di converso sono state definite progressiste e rivoluzionarie tutte quelle scelte nei contenuti e nei metodi che, al contrario di quella degli individui, sono andate ad indicare come soluzione politica la società delle masse e del pensiero collettivo.
Anche la difesa delle diversità, assunta come spazio dei privilegi, è un modo illiberale e strumentale di misurare il progresso.
Nella mentalità collettiva le minoranze e le diversità si utilizzano quando servono e si annettono ovvero si reprimono quando diventano scomode.
La società di massa è machiavellica perché è un contesto in cui il fine giustifica il mezzo, senza che l’individuo, reso un mero numero, abbia ragioni e pensieri da addurre.
Se, dunque, per conservazione si intende la spinta diffusa dal basso per il rispetto delle origini e delle tradizioni dei popoli; se si intende per tale l’affermazione e la conferma della identità nazionale; se si può definire conservatrice la volontà di dar continuità alla volontà della crescita ed all’attitudine a voler rafforzare, attraverso il lavoro e l’impegno, la soddisfazione dei bisogni, quale mai, allora, sarebbe il valore del progresso e della rivoluzione?
Di converso coloro che, invece, si sono battuti per la trasformazione delle forme sociali del Paese e che, in continuità con le ideologie deformanti ed illiberali dell’inizio del secolo scorso, nazionalsocialiste, ovvero socialcomuniste, hanno mirato a trascinare nuovamente il Paese nell’alveo delle intolleranze, della dittatura di classe e della privazione delle libertà economiche e culturali, si sono collocati, per unilaterale scelta, tra i progressisti e gli innovatori.
Dove sta, però, in un siffatto contesto politico, il presunto progresso e dove la presunta rivoluzione?
Non si può certo dire che stia nelle forme spesso reazionarie di imporre, con la pesantezza delle espressioni verbali, con la disinformazione e spesso con la violenza fisica, alcune soluzioni involutive rispetto al pluralismo,. alla democrazia ed alle libertà conquistate!
Non possono definirsi progressiste le scelte che mirano ad allontanare il Paese dalla vocazione di origine e di cultura acquisita nei millenni di storia con l’unità realizzata su quei valori risorgimentali che hanno cementato la solidità della sua identità nazionale.
Non può essere considerato di per se un valore assoluto, ed essere utilizzato come motivo di riscatto di un temperamento reazionario e delittuoso, esser stati dalla parte vincente nell’ultimo conflitto mondiale ed essersi trovati, a combattere l’efferatezza liberticida e totalitaria del nazifascismo.
Non lo può essere tanto più se la collocazione politico culturale, constatate le follie ideologiche condivise e fatte proprie nel passato, ma anche nel presente, rappresenta solo un mero caso storico motivato dalle divergenti ispirazioni egemoniche dei due grandi dittatori del ventesimo secolo.
E’ il caso di dire che nella storia non sono importanti le parole, come sosterrebbe l’egocentrico Moretti, ma i fatti.
E’ così necessario riflettere sui contenuti che stabiliscono la capacità di esser adeguati ai tempi, cioè sulle politiche capaci di promuovere effettivo progresso sociale e di diffondere opportunità di effettiva crescita.
Il progresso ha oggi bisogno, anche culturalmente, di connotati di più ampio respiro che restituiscano dignità e sostanza a quanti attraverso la fermezza della conservazione dei valori hanno consentito e reso fruibile sia i vantaggi del progresso in assoluto, che i valori connessi alla maturazione culturale dell’uomo ed alla civiltà dei popoli.
Tutto questo contribuisce a farci dire che il vero sostegno alla crescita ed allo sviluppo sia quello che viene definito, sebbene a torto, “voto conservatore”.
L’esperienza del governo di Prodi, il peggiore dell’Italia repubblicana, in cui le forze illiberali cooptate alla guida del Prese si sono battute contro l’innovazione e la crescita, impone la necessità di ripristinare l’azione della modernizzazione dello Stato attraverso la stabilità e la coerenza dell’azione politica.
Un compito gravoso e difficile, soprattutto per la necessità di abbattere quelle caste in cui si muovono poteri diffusi, privi di legittimazione popolare, che mortificano i diritti e comprimono le risorse economiche e finanziarie.
Questa volta si impone un voto contro il declino e per la libertà.

Vito Schepisi