25 ottobre 2012

Nasce RinasciBari



Si è costituito RinasciBari. E’ un movimento di confronto politico-amministrativo di area moderata liberale con lo scopo di contribuire a creare un’alternativa all’attuale amministrazione cittadina. Il metodo individuato è quello dell’approfondimento di scelte amministrative e dell’aggregazione dell’area di riferimento. 
RinasciBari è un richiamo al rinascimento della Città e trova i suoi impulsi nella constatazione del degrado di Bari e nella presenza di un sistema opaco di gestione.
Il movimento si è formato attorno alla redazione di un manifesto che è sintesi di approfondimenti sulle emergenze della Città, individuate in: sviluppo, lavoro e burocrazia amica.
Il movimento si è dotato di una struttura snella di gestione attraverso l’indicazione di un portavoce nella persona di Giovanni Giua e di due suoi sostituti Dante Leonardi e Roberto Telesforo. Ha inoltre costituito un gruppo di consultazione e di elaborazione formato da Paola Cristiano, Mariella Lipartiti, Alex Monaco, Enzo Monterisi, Egidio Pani, Vito Schepisi, Gianvito Spizzico, Ugo Summaria, Canio Trione. 
Rinascibari ha indicato anche le aree tematiche su cui articolare l’elaborazione di un programma articolato in tre macro indirizzi progettuali da cui poter poi discendere alle questioni più specifiche:
1) Economia, bilancio, sviluppo; 2) Urbanistica e gestione delle risorse del territorio; 3) Scuola, formazione e cultura. 
Le tre aree - è stato detto – dovranno tutte interagire con la forte richiesta popolare di trasparenza e di legalità, e con i principi di civiltà e di sicurezza.
 
                                                     
Il manifesto di RinasciBari

Dopo un decennio di immobilità amministrativa e prendendo atto del degrado odierno, Rinascibari vuole essere una base di ripartenza dalla quale lanciare nuove iniziative ed un nuovo programma per la Città di Bari.
Cardini fondamentali per tornare al benessere ed al prestigio del passato sono Sviluppo e Lavoro.
Come ottenere sviluppo e lavoro? Ripartendo dalle attività tradizionali della città (commercio, industria, edilizia e servizi) in un quadro più moderno di Città Metropolitana, Capoluogo di Regione e di Città aperta agli scambi culturali, commerciali e finanziari verso e dalle altre nazioni del Mediterraneo.
Principali attori del rinnovamento devono essere gli imprenditori baresi e le imprese ( piccole o grandi) che possono generare occupazione e ricchezza.
Oggi a Bari è tutto fermo: muore il piccolo commercio (sia per la mancanza di capitali che per la concorrenza di esercizi dal capitale riciclato); muore la zona industriale nel degrado delle sue strutture e nell’incapacità di attrarre nuovi investimenti; l’edilizia langue stretta tra il malcostume, la corruzione e l’oppressiva burocrazia.
Cosa fare? Aprire all’impresa i canali del finanziamento, incentivare la progettazione anche con sgravi fiscali e soprattutto la sicurezza di una burocrazia non vessatoria ma, anzi, amica e stimolatrice.
Non sono tempi per pensare di far ricorso a risorse pubbliche ma all’impegno del capitale privato anche in project financing con idee che concorrano a fare di Bari il centro dei servizi per la regione e per i paesi esteri fornendo strutture ed infrastrutture per raggiungere lo scopo ultimo : Sviluppo e Lavoro.
Ci vuole intelligenza, inventiva, creatività, progettualità : qualità che ai Baresi hanno permesso di costruire una “grande città” punto di riferimento per l’intero Meridione.
Partendo da questi presupposti un gruppo di amici ha cominciato a confrontare le idee per stimolare energie nuove ma anche per risvegliare quelle stanche di subire. Vorremmo ridare coraggio a chi cede alla rassegnazione e tornare a pensare alla politica come indispensabile strumento di democrazia.
Un programma per Bari è la nostra meta e la discussione continua con tutti i cittadini che vogliono contribuire al rinascimento di Bari.

Chi volesse dibattere con noi e fornire il suo contributo di idee e di entusiasmo lo può fare tramite il sito Facebook “Rinascibari”  http://www.facebook.com/groups/236899103081502/?ref=ts

20 ottobre 2012

Nessuno tocchi Sallusti



Il carcere può essere il luogo in cui si sconta una pena per un crimine commesso, ma può anche essere il luogo che separa con le sbarre, la luce del sole dalla libertà di godere sia della luce, che del sole.
Il carcere non interrompe ciò che è fuori, non separa il processo costante della natura dalla vita in ogni luogo, impedisce invece di vivere con la gente con cui si vuole farlo, nel luogo, tra le intimità e nella sfera privata che ciascuno è libero di scegliere. 
Il carcere interrompe la gioia, smorza il sorriso, separa la libertà dei pensieri dalla forzata costrizione del corpo. Mortifica la dignità dell’individuo, per chi la possiede e per chi opera e vive nel giusto.
Il carcere senza una colpa è un abuso, è esso stesso un crimine.  
C’è un’opinione di quei democratici e liberali, che per formazione sono garantisti, che asserisce che sia preferibile avere 100 colpevoli in libertà che un uomo innocente in carcere.
Se s’incatena, invece, un innocente per le sue idee, e se ciò avviene con pervicace consapevolezza e con cinica indifferenza, sono in pericolo le garanzie della democrazia.
Traballa, così, ancor più la Giustizia del nostro Paese, già messa male di suo, e con essa tutti i principi fondamentali della democrazia, e quindi la libertà stessa del nostro popolo.
Dove sono i democratici?
Dove gli antifascisti in attività professionale che, nostro malgrado, per dire sciocchezze e per asserire ovvietà, abbiamo coltivato e nutrito per anni?
Trovarsi privati della libertà, per gli innocenti, è la cosa più drammatica che ci sia: è una violenza contro l’onestà; è la contraddizione di ogni radicato principio di lealtà.
Se tra i valori degli uomini c’è anche quello di esprimere serenamente le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano, l’ingiustizia annulla d’un colpo tutti i valori con cui gli uomini onesti hanno regolato la propria vita
Quanti non hanno mai citato Voltaire che sosteneva “Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere”?
Per Alexis de Tocqueville la stampa era la garanzia stessa della libertà: “Amo la libertà della stampa più in considerazione dei mali che previene che per il bene che essa fa”.
Ed infine Luigi Einaudi che a difesa del pluralismo delle opinioni diceva che “il solo fondamento della verità è la possibilità di negarla”.
La libertà è soprattutto pluralismo, garanzie, opinioni diverse. E’ vero che è anche responsabilità, è lecito che si paghi per i propri errori, per i danni che si provocano agli altri, ma non si può pagare col carcere un’opinione, né si può pensare che, per quanto esagerata e paradossale possa essere un’opinione, costituisca un danno così irreparabile per chi la subisce.
Quattordici mesi di carcere per un’opinione che non ha fatto del male nessuno, non è solo un’esagerazione ma un’ingiustizia: non è accettabile.
Non lo sarebbe un sol giorno di carcere, ma subirlo perché si ha solo la responsabilità oggettiva dell’opinione di una terza persona è da regime autoritario: è fuori dal mondo civile.
Chi tocca Sallusti, ci toglie 65 anni di democrazia, ed è una nuova  vergogna che vorremmo che sia risparmiata a questo nostro già sventurato Paese.
Vito Schepisi

19 ottobre 2012

Un po' di dignità, basta bugie



Questa vicenda ha superato ogni limite di decenza.
Tra le tante cose dette, ce n'è una che appare limpida e inoppugnabile: un appartamento a Montecarlo, in zona di prestigio, è stato sottratto al patrimonio immobiliare di AN, per essere svenduto attraverso un'opaca transazione d’incroci societari.
In questa grigia operazione, su cui la magistratura si è astenuta dall'approfondire, compaiono personaggi legati in qualche modo al Presidente della Camera Fini. Personaggi non del tutto trasparenti.
Sono spuntati recentemente, e l'Espresso ne ha dato ampio rilievo, tra le carte di un indagato, tale Francesco Corallo, documentazioni che coinvolgono direttamente la moglie e il cognato di Fini.
E’ limpida e inoppugnabile anche la circostanza che il cognato di Fini, tale Gianfranco Tulliani, all'epoca in cui è scoppiato lo scandalo abitasse la casa di Montecarlo e che ne avesse curato la ristrutturazione. Gianfranco Tulliani risultava affittuario della casa, come si  è rilevato da un contratto reso pubblico in cui, però, la firma del proprietario (una società di Saint Lucia) e quella del conducente, cioè il cognato di Fini, apparivano le stesse.
Per Fini erano solo spiacevoli coincidenze. L’ex leader di AN negava persino d’essere a conoscenza della circostanza e negava, soprattutto, che il cognato fosse il proprietario dell’immobile di Montecarlo. Per Fini e i suoi sostenitori era tutto fango che gli “sgherri di Berlusconi” riversavano sulla sua persona.
Dall'inchiesta del Giornale spuntavano persino gli interessamenti della Signora Tulliani e dello stesso Presidente Fini per alcuni arredi che poi i coniugi acquistavano: gli stessi mobili che appaiono nelle foto degli interni della casa di Montecarlo.
Fini non poteva non sapere.  Tutti i fatti che emergevano, escludevano l’ipotesi della sua estraneità, ma, ciò nonostante, Fini dichiarava che se la casa di Montecarlo, svenduta a un quinto del suo valore commerciale, fosse stata effettivamente acquistata dal cognato, attraverso quel circolo vizioso di società e di prestanomi nel paradiso fiscale di Saint Lucia, si sarebbe dimesso dalla Presidenza della Camera.
Non l’ha mai fatto!
Arrivavano persino documenti ufficiali dello stato di Saint Lucia che provavano che la Società proprietaria della casa di Montecarlo apparteneva al cognato di Fini.
Il Presidente della Camera continuava, però, a sostenere che era tutto falso e che era una montatura a suo danno. Parlava di macchina del fango.
In questa vicenda compaiono uomini che a suo tempo erano già stati collocati nella cerchia delle conoscenze di Fini, tra questi James Walfenzao, mediatore e uomo di affari con vocazione da faccendiere, e Francesco Corallo, imprenditore, indagato per corruzione e latitante.
Qualche giorno fa Fini, in una trasmissione televisiva, ha anche accusato Berlusconi di essere un corruttore per aver corrotto l’ex direttore dell’Avanti, Lavitola, con lo scopo di infangarlo sulla casa di Montecarlo, motivando così una pronta querela dell’ex premier Berlusconi.
Nel numero oggi in edicola, l’Espresso riprende l’argomento, dopo il ritrovamento, negli uffici di Corallo a Roma, della copia del passaporto di Elisabetta Tulliani e di una dichiarazione firmata da Giancarlo Tulliani, in cui il cognato di Fini attesta di essere il beneficiario al 100% di una società di Saint Lucia che svolge attività immobiliari.
Questi documenti erano stati spediti per fax dallo studio di Corallo a quello di Walfenzao a Montecarlo quando, nel gennaio 2008, Giancarlo Tulliani aprì nello Stato di Saint Lucia una società finora sconosciuta, la Jayden Holding, agente nelle compravendite immobiliari.
Ma i Tulliani non avevano sempre negato di avere rapporti di affari nel paese caraibico?
Fini conosceva sia Walfenzao che Corallo da prima della sua relazione con la nuova moglie e con la famiglia Tulliani.
Ma è coincidenza anche questa?
E’ coincidenza la relazione di conoscenza, di affari e di collaborazione che si è creata tra i Tulliani, il faccendiere e il latitante?
Non resterebbe che fare due domande al Presidente della Camera:
- non pensa che la farsa sia durata anche troppo e che gli italiani siano meno imbecilli di quanto Lei suppone?
- cosa aspetta a dimettersi?
Vito Schepisi

18 ottobre 2012

Gli Stati Uniti d'Europa si, la grande Germania no



Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica Italiana, On.Giorgio Napolitano, aveva accennato a “trasferimenti di poteri decisionali e di quote di sovranità” alla Ue da parte dell’Italia.
In una prospettiva di unione politica e della creazione degli stati uniti d'Europa si potrebbe anche pensare, con il consenso del popolo, di cedere parte della nostra sovranità, unitamente agli altri stati europei, con regole condivise, giammai imposte.  Stati Uniti d'Europa significa, però, uno stesso corso della moneta; significa debito sovrano dei singoli stati dell’Unione garantiti da tutti, come un vero nuovo Paese sovranazionale.
Un Paese dove ci siano gli stessi diritti e gli stessi doveri per tutti, con pari dignità e con la libera circolazione delle idee, degli uomini, delle merci, del lavoro e del denaro.
Un unico Paese significa anche servizi, costi e salari allo stesso livello.
Cedere sovranità per farci governare da altri sarebbe, invece, impensabile.
Ma ora si capisce perché Napolitano abbia aperto la strada. E’ la solita Merkel che lo domina.
Al Bundestag, alla vigilia del vertice europeo, infatti, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha scoperto le carte. Ha ripreso le tesi del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble per sostenere che la Germania è favorevole a "un effettivo diritto d’ingerenza sui bilanci nazionali".
La Merkel vorrebbe affidare al commissario europeo agli affari economici un diritto di veto sui budget nazionali degli stati membri
.
Sarebbe il primo passo verso il sogno hitleriano della grande Germania.
Cosa le succede Presidente Napolitano?

11 ottobre 2012

L'albero delle riforme è fiorito?



Del capogruppo del gruppo Pdl della Regione Lazio, Fiorito si è già detto tutto.
Si conoscono le sue abitudini, i suoi metodi, la sua vita lussuosa, la sua esuberanza, il suo soprannome, la sua mole fisica, la sua arroganza, le sue spese folli con i soldi pubblici, la sua dote di voti ed anche i suoi sponsor politici.
Si sa che all’ingordigia non c’è limite, se nel conto c’è anche un sistema che consente di far entrare il goloso nel laboratorio del pasticciere.
Si dice sempre che si vuole cambiare il “sistema”, ma poi si fa sempre tutt’altro.
Nell’Italia repubblicana non è mai fatta una riforma seria in nessun campo, tanto meno nell’architettura dello Stato, per la semplificazione burocratica e per la trasparenza.
Dell’esercizio responsabile dei poteri e della riforma dello Stato non se ne può neanche parlare, senza scatenare una guerra.
Parlare di ruolo e d’indipendenza della magistratura o pensare di snellire il percorso parlamentare delle leggi o di attribuire maggiori facoltà di scelta al capo del Governo o, ancora, pensare di poter arrivare all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, in Italia, sarebbe come parlare delle corna del diavolo.
Eppure negli altri paesi è così, c’è maggior spazio per la democrazia e per le scelte del popolo, e questi stati funzionano decisamente meglio del nostro.
Tutti, solo a parole, sostengono che l’Italia dovrebbe essere girata come un calzino. Le regioni, ad esempio, distribuiscono soldi in misura esorbitante ai gruppi politici. Tutti lo sapevano ma nessuno se n’è mai occupato. Poi è arrivato Fiorito e tutti ora ne parlano.
Si sa da sempre che girano troppi soldi in politica e che se ne faccia un suo improprio, ma non è previsto che qualcuno controlli. E ora cadono tutti dalle nuvole. Tutti sembrano come Alice nel paese delle meraviglie.
Vado contro corrente, ma dico che è sbagliato parlare di ritorno alle preferenze. Beninteso, è sbagliato anche l’attuale sistema delle nomine, ma le preferenze sono ancor più pericolose.
Con le preferenze vincerebbero gli Zambetti, adusi al voto di scambio, e vincerebbe chi ha più soldi da spendere o più potere da gestire.
Si facciano le primarie, si facciano i collegi uninominali, ma il ritorno alle preferenze sarebbe un altro errore.
L’Italia, invece, ha bisogno delle riforme, come un qualsiasi edificio ha bisogno delle manutenzioni periodiche, perché di eterno non c’è niente sulla Terra, se non la stupidità, l’incoerenza e la presunzione degli uomini in ogni tempo. E i risultati si vedono.
Se non c’è un sistema che individui chi è responsabile e di che, e che metta in trasparenza ogni atto pubblico, compresi gli spostamenti di denaro e i costi della macchina burocratica e della gestione politica, ci saranno sempre i Fiorito, gli Zambetti e i Maruccio.
Il mariuolo non è una categoria antropologica ed è anche diverso dal criminale che intraprende la strada del crimine.
Le motivazioni del criminale sono direttamente proporzionali all’ambiente in cui cresce, al degrado in cui vive, alla scarsa cultura, alla mancanza di valori di riferimento, alla cattiva educazione ricevuta, ai cattivi esempi, al culto del lusso, alle frequentazioni, all’abitudine alla violenza, alla ricerca del piacere materiale, ovvero all’ostentazione di ciò che il criminale individua come il potere di imporre le sue regole.
Il mariuolo, invece, è una persona scaltra che fiuta l’opportunità e s’impegna a coglierla. E quando la coglie allunga le mani e s’ingegna per trarne vantaggi. La politica per il mariuolo diviene lo strumento migliore per raggiungere il suo fine. Lo vediamo anche con la compravendita dei parlamentari, con la frammentazione dei partiti e con la partitocrazia che spinge a mettersi in proprio, lo vediamo con l’abitudine degli italiani a cambiare giacchetta e a salire sul carro del vincitore.
Un ostacolo alla linearità e alla trasparenza è sempre la burocrazia. Fiorito si è anche giovato del disastro della cancellazione della lista Pdl a Roma nelle ultime consultazioni regionali. Come sappiamo, a due allocchi funzionari delegati del Pdl romano, presenti nei locali della Corte di Appello di Roma, fu impedito di presentare la lista del Pdl. I due, nell’attesa di essere ricevuti dal funzionario addetto per il deposito degli atti della lista, si erano appartati a mangiarsi un panino.
Dura lex, sed lex. E se la motivazione lascia ancora increduli, quando ci si mette d’impegno prevale sempre la forma, mai la sostanza. E in quel caso la forma prevalse.
Attenzione, però, il Fiorito è solo la punta dell’iceberg di un sistema che coinvolge tutti. Nel Lazio ora è entrato nel ciclone anche un uomo di punta di Di Pietro, Maruccio ,avvocato di fiducia dello stesso Di Pietro e coordinatore dell’Idv laziale. Un uomo molto più vicino ai vertici della politica italiana di quando non lo sia stato Fiorito. Si è dimesso da tutto, ma oramai questo trucco lascia il tempo che trova.
Non c’è, dunque, nessuno che può chiamarsi fuori, ci potrebbe essere, però, un impegno per le riforme: solo quelle possono cambiare civilmente il Paese.
Vito Schepisi

09 ottobre 2012

Le primarie e la strategia del potere


Sarebbe utile capire cosa siano in definitiva le primarie della sinistra. 
Questa volta, come sostiene Panebianco sul Corriere, sono “vere e competitive”, non sono una farsa com’è stato con Prodi e con Veltroni. 
Chiariamo le cose. A parte Tabacci che non si sa cosa rappresenti - Il suo partito, l’UDC, ha dichiarato che, qualora nel gioco ci fossero anche Vendola e Di Pietro, avrebbe chiuso le porte all’ipotesi di accordi con il PD - gli altri candidati in competizione vera rappresentano almeno due diverse ipotesi politiche. 
Potremmo dire: due partiti contrapposti, come scelte, come strategie, come visioni d’insieme, come idee, anche se con molti slogan tra rottamatori e controrottamatori e se mancano, invece, i contenuti e i programmi. 
Renzi e Vendola hanno indubbiamente due anime diverse e contrarie. Hanno un differente modello sociale di riferimento, con altrettante opposte strategie da adottare: due modelli di sviluppo, come si diceva una volta, tra loro inconciliabili. 
E’ Vendola che lo conferma parlando di Renzi: ” Subalterno al liberismo che fa male all’Italia”. Come si può pensare che l’elettorato di Renzi voti per Vendola candidato premier, e come si può pensare che possa farlo l’elettorato del pugliese per il rottamatore toscano?
Nel mezzo c’è il segretario del PD Bersani, sintesi, a dire dei sostenitori, quando non sono solo impegnati a criminalizzare Renzi, delle due altre opzioni. Il segretario, però, è in conflitto con ciò che dice di volere, con la sua storia e, ancor di più, con ciò che rappresenta.
Vediamo perché non è possibile che Bersani sia la sintesi. 
Vendola dice: “Io gioco le primarie per battere Monti”. Il PD, invece, sostiene Monti. Non c’è sintesi che tenga: sono due cose opposte. 
Bersani sta giocando due partite: quella interna con Renzi e quella esterna con Vendola. 
La prima per difendere la sua leadership nel PD, per legittimare l’area post comunista a proporsi, senza controfigure, come con Prodi e Rutelli, per governare l’Italia e per esorcizzare l’immagine del “peccato originale” di un partito che non ha mai fatto i conti con la sua storia, né “outing” sul suo passato. 
L’altra partita, esterna con Vendola, per affermare la centralità del PD nella variegata sinistra italiana, dopo aver perso, a catena, il confronto in più parti d’Italia e per allontanare l’immagine di un partito schiacciato sull’area moderata nel momento in cui la base scalpita e chiede vendetta. 
Bersani si è trovato in una fase favorevole e pensa di coglierne i frutti. La semina d’odio nell’opporsi a Berlusconi, con la nuova stagione giustizialista a senso unico, come per Occhetto nel 1994, l’hanno collocato ai blocchi di partenza di qualche metro più avanti. 
Ha lavorato sin dall’inizio per questo risultato:
- ha versato benzina sul fuoco in un’Italia sconvolta da una crisi recessiva che si è riverberata sul lavoro, sulla precarietà e sulle fasce più deboli, cioè su quelle più facilmente utilizzabili per propalare il malcontento popolare; 
- ha fatto un’opposizione molto dura al Governo “legale”, sostenuta anche da giochi di palazzo e da alcuni nemici storici che diventavano amici eroici. E’ stata un’opposizione pregiudiziale, spesso rivolta contro il Paese, che ha trovato terreno fertile in un momento di evidente difficoltà per i lavoratori, per le famiglie, per le imprese e per i giovani. 
Bersani ha cercato ad ogni costo lo scontro, ma ha congelato l’Italia in un sistema incrociato di delegittimazioni che non consentono a nessuno di governare, se non con sistemi autoritari, come stiamo oggi vedendo con Monti. 
Non solo. La conseguenza è che sono stati i più deboli a pagare il prezzo più alto: proprio quelli che oggi sono più incazzati. Il vento dell’antipolitica, in prospettiva, è diventato il nemico più pericoloso di Bersani, anche per l’imbarazzo del sostegno a Monti, tollerato dalla base PD come alternativa a Berlusconi, ma non per le sue scelte antipopolari. 
Bersani è così nello stesso vicolo cieco in cui si è posto. 
Se Renzi e Vendola hanno tutto da guadagnare, lui ha tutto da perdere. Comunque vada ha già perso in immagine, perché i due competitori veri sono il sindaco e il governatore. Lui non è sintesi di niente. 
Le primarie sono “vere e competitive”, come sostiene Panebianco, solo tra il toscano e il pugliese. Bersani non è una sintesi, ma un imbroglio. E’ un emissario. Senza essere il referente di un servizio da rendere a quei poteri che volevano liberarsi dell’indomabile Berlusconi, Bersani non sarebbe. 
E’ solo l’avamposto della strategia del potere in Italia. 
Vito Schepisi

04 ottobre 2012

Bersani prova a disinnescare il pericolo Renzi



In quella che era l’altra parte dell’Europa, prima del 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, c’era la “democrazia popolare”. L’Europa dopo l’ultimo conflitto mondiale, e fino a quella data, era divisa idealmente in due blocchi per una conseguenza politico-diplomatica dell’ultimo conflitto mondiale. Tra i due c’era la cosiddetta “guerra fredda”, cioè un conflitto ideologico, di sfere d’influenza internazionale e di alleanze.
L’Italia - è la nostra storia, anche triste - è stata terra contesa fino all’ultimo dalla Jugoslavia di Tito. Agli slavi l’Italia ha lasciato i territori dell’Istria, della Dalmazia e parte di quelli della Venezia Giulia e di Trieste. Rischiava di lasciare tutta Trieste se gli alleati non avessero fermato i massacri titini e se fosse riuscito il tentativo del cinico Togliatti di scambiarla con Gorizia. Togliatti brigava contro gli interessi dell’Italia. L’Italia gli faceva schifo, come affermò in un Congresso del PCUS.
Sul confine slavo l’Italia ha lasciato diverse vittime, anche dopo la guerra, partigiani liberali e cattolici, molti infoibati, altri scacciati, massacrati dalle milizie di Tito e dai comunisti italiani di Trieste, servili e sciocchi alleati del sanguinario Maresciallo croato. Alcuni di loro scelsero la Yugoslavia e mal gliene colse perché Tito si sbarazzò anche di loro.
In quella parte d’Europa, i regimi che si erano instaurati celebravano le elezioni per eleggere i rappresentati del popolo. Il partito era unico, ma aveva sempre un buon successo, registrando consensi che a volte superavano il 95%.
Nella Costituzione sovietica si esaltava la partecipazione popolare all’organizzazione dello Stato (leggi, governo, amministrazioni locali, giustizia, partecipazione, lavoro). Il partito, però, era unico. Non c’era scritto, ma era così. Solo l’art.126 ne citava la funzione in un capolavoro di architettura costituzionale per un regime burocratico e autoritario.
Stabiliva così l’art.126 della Costituzione Sovietica: “
In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l'iniziativa delle masse popolari nel campo dell'organizzazione e la loro attività politica, è assicurato ai cittadini dell'U.R.S.S. il diritto di unirsi in organizzazioni sociali (sindacati, cooperative, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, società culturali, tecniche e scientifiche), mentre i cittadini più attivi e più coscienti appartenenti alla classe operaia e agli altri strati di lavoratori si uniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S., che è l'avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista e rappresenta il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di Stato.”
Il Partito Comunista, nella Costituzione Sovietica, rappresentava così “il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di Stato.”. Cioè tutto!
Il sistema Bersani, cioè quello che ha in mente il segretario del PD per le primarie, non arriva a tanto nella forma, però ci arriva nella sostanza.
La prossima assemblea del PD dovrà, infatti, stabilire le regole per le primarie. Le ipotesi della segreteria, cioè di Bersani, per ciò che se ne sa, sono queste:
- registrazione (schedatura) degli elettori delle primarie;
- due turni elettorali, con il ballottaggio fra i due maggior suffragati nel primo turno;
- secondo turno aperto solo a chi ha votato al primo.
La scelta delle primarie, dallo scopo di scegliere chi ha i maggiori consensi all’interno di un’area politica, si trasforma nel sistema per trovare gli accordi per la lottizzazione della gestione del potere e per far fuori chi è scomodo.
In sostanza ciò che si propone sarebbe il sistema anti-Renzi, ovvero il sistema pro-Bersani, nel caso che Bersani fosse uno dei due più suffragati, ma anche pro-Vendola, se i due più votati fossero Renzi e il leader di SEL. L’eretico Renzi fa paura a Bersani e alla sinistra “ideologica” post comunista e rischia, così, d’essere neutralizzato con un sistema creato apposta per farlo fuori.
Cambiano i tempi, ma la mentalità e i sistemi sono sempre quelli da democrazia popolare in cui conta solo ciò che stabilisce il partito. 
Un po’ come per la democrazia popolare, la Costituzione Sovietica ed il suo articolo 126!
Vito Schepisi

01 ottobre 2012

Dove eravamo rimasti?


Con la giustizia italiana non è possibile fornire una risposta. E’ come se non si fosse mossa di un millimetro. Qui i concetti di spazio, d’inizio e di fine non esistono. 
Quello della Giustizia giusta è un processo che, invece di svolgersi, s’involve col tempo. Più una marcia indietro che una in avanti. L’idea è quella di un movimento continuo che va da su in giù e viceversa e che si abbatte martellante: un congegno diabolico che schiaccia chi si trova nel mezzo. 
A volte nulla è peggio del niente, perché il “niente” è offensivo. 
Siamo rimasti al punto di partenza. Siamo su un binario morto. La Giustizia nell’Italia “democratica” non esiste ancora, e si hanno seri dubbi che mai ci sarà. 
C’è una fiction in tv che, riprendendo il Caso Tortora, ripropone sempre la stessa domanda. Tortora dopo anni di persecuzione giudiziaria, già minato nel fisico dalla malattia, ritorna in tv e chiede al suo pubblico: “Dove eravamo rimasti?” 
E’ la stessa domanda che la gente si pone dinanzi alle sentenze della magistratura italiana, dinanzi alla Giustizia spettacolo, al carcere per gli innocenti, alle faide nelle Procure, alle condanne durissime per chi esprime opinioni, all’irresponsabilità di chi usa il potere e l’autonomia giudiziaria per fini diversi dagli atti di Giustizia, all’uso dei pentiti nelle mani di pubblici ministeri che inseguono i loro teoremi. 
Tortora è diventato l’uomo simbolo della malagiustizia italiana. Enzo Tortora era un uomo gentile, un uomo liberale, un padre e un marito esemplare, era un uomo amato dal pubblico per la sua signorilità, era un uomo mite, sincero e leale. Ma Enzo Tortora era anche l’uomo che la tv di stato italiana, monopolista e lottizzata, aveva messo in naftalina per anni perché indomabile, perché non plasmabile, perché non assimilabile. Era l’uomo sgradito ai partiti, di maggioranza e di opposizione, consociati per l’esercizio del potere mediatico-formativo. 
Il conduttore di Portobello, fortunata trasmissione televisiva che faceva record di ascolti, aveva la colpa di essere un uomo libero. 
Dove eravamo rimasti? 
Caro Tortora, siamo rimasti alla fine perché niente è mai iniziato. 
Le motivazioni della sentenza del Tribunale di Napoli che condannava nel settembre del 1985 Enzo Tortora a 10 anni di carcere sono un capolavoro della letteratura forcaiola: "L'appartenenza del Tortora alla Nuova Camorra Organizzata è stata provata attraverso le dichiarazioni di Pandico, D'Amico, Federico e, principalmente, di Barra, D'Agostino ed Incarnato. Tutte queste accuse hanno trovato adeguati e convincenti elementi obiettivi di riscontro. L'attività di spacciatore di stupefacenti (cocaina) del Tortora è stata dimostrata anche attraverso le testimonianze di Castellini, Margutti, Villa e la chiamata in correità di Melluso, tutte prove sorrette da ulteriori elementi di riscontro: il quadro che esce fuori al termine della presente esposizione, ci fa indiscutibilmente vedere la vera faccia di Enzo Tortora, un pericoloso spacciatore di sostanze stupefacenti"."Il Tortora ha infatti dimostrato di essere un individuo estremamente pericoloso, riuscendo a nascondere per anni in maniera egregia le sue losche attività ed il suo vero volto, quello di un cinico mercante di morte”. 
Dunque, dove eravamo rimasti? Gli accusatori di Tortora erano criminali incalliti, camorristi, assassini, spacciatori, imputati nello stesso processo, pentiti che si ricordavano i fatti a distanza di tempo, a catena, senza veri riscontri, in contraddizione tra loro e con alcune situazioni oggettive. Alcuni dichiaravano cose inverosimili o incontri con personaggi che erano in posti diversi, alcuni in galera. 
Niente! Enzo Tortora doveva essere un mostro, un “individuo estremamente pericoloso”, un “cinico mercante di morte”. Eppure in una relazione dei carabinieri al processo si leggeva: "in ogni caso non è emerso alcun collegamento fra il presentatore Enzo Tortora e gli elementi indicati”. E’ stato condannato, però, ed è stato tenuto in carcere. 
Gli è stata distrutta la vita. Il colpo di grazia, ancor più mostruoso, gli è venuto dalla gran parte dei suoi colleghi giornalisti, alcuni veri mercanti di morte della giustizia e del pluralismo. L’uomo si è trovato improvvisamente isolato, incredulo, afflitto. A difenderlo in pochi, tra questi da ricordare Giuliano Ferrara, i radicali di Pannella ed i liberali di Zanone e di Biondi. 
Pannella lo candidò e fu eletto Parlamentare Europeo. Tortora rinunciò all’immunità e andò in carcere e poi ai domiciliari, quando la salute iniziò a minarlo nel fisico. Al processo il PM lo accusò di essere stato eletto con i voti della camorra. Partì la reazione indignata di Tortora che gridò “ E’ un’indecenza” e gli valse un’ulteriore incriminazione a cui il Parlamento Europeo, dignitosamente, all’unanimità, respinse l’autorizzazione a procedere. 
Enzo Tortora, innocente, fu condannato a 10 anni, andò in carcere e si dimise da Parlamentare Europeo. In Appello emersero tutte le falsità e le contraddizioni. Fu assolto e l’assoluzione fu confermata definitivamente in Cassazione, ma era già troppo tardi. 
Poi non è successo niente. Tutto continua come prima nell’Italia gattopardesca. 
Vito Schepisi