27 febbraio 2007

L'Italia di Prodi



“Non deve sorprendere che la coalizione arcobaleno italiana si sia frantumata la scorsa settimana, ma che continui a governare”.
E’ una frase tratta da un pungente articolo sulla crisi politica italiana del prestigioso Financial Times di Londra.
Uno di quei modi di dare la notizia da scuola di giornalismo, in cui si stabilisce che niente di ciò che è ovvio costituisce notizia, ma se si verifica una cosa folle questa si che è notizia.
Un po’ come dire che non sia una notizia se un cane morde un uomo ma è notizia che questi morda un cane.
Così nell’articolo di commento molto critico sulle vicende italiane, l’autorevole quotidiano britannico punta il dito osservando che l’Italia avrebbe bisogno di una svolta e non di continuare con l’esecutivo uscente.
L’autore dell’articolo, Wolfang Munchau, avverte così la necessità delle larghe intese per realizzare le riforme che consentano il risanamento della economia italiana.
Le cosiddette riforme strutturali che vedrebbero l’ala della sinistra estrema della coalizione di Prodi, che l’articolista britannico definisce ala conservatrice, del tutto dissidente e contraria.
Il Financial Times osserva ancora che l’economia italiana sia in ripresa soprattutto perché è in forte ripresa il mercato tedesco, bacino di grossa diffusione della produzione italiana.
Se dovesse, però, rallentare la domanda tedesca, l’Italia avrebbe grosse difficoltà nel procedere verso la ripresa.
Per il Financial Times il problema di Prodi non è solo la politica estera ma anche e non meno le preoccupanti divergenze sul modello di sviluppo e sui contenuti della politica di risanamento e sull’intera politica economica.
I richiami del commissario europeo Almunia sulla manovra taglia deficit, richiederebbe una rigorosa politica della spesa.
I dodici punti di Prodi, in cui si indica per la spesa previdenziale l’accorpamento degli enti come misura per il taglio delle risorse economiche assorbite, è considerata insufficiente.
Anche le notizie di stampa che danno l’impressione di cedimenti del ministro del lavoro Damiano, su pressione dell’ala radicale della maggioranza e delle organizzazioni sindacali, sullo scalone previdenziale giustificano le preoccupazioni per il venir meno degli impegni di Prodi in sede europea di dar corso entro marzo alla definitiva riforma sulle pensioni.
E’ preoccupata l’Ecofin ed il suo responsabile, tanto da far predisporre un documento, alla discussione dei ministri europei dell’economia, in cui si afferma che “l’Italia dovrà dare piena attuazione alla riforma delle pensioni compresa le revisioni dei coefficienti”.
Nel documento Almunia non si sottrae dal porre in evidenza la natura della manovra finanziaria italiana recentemente varata, tutta sbilanciata sul piano dell’aumento delle entrate anziché sui contenimenti della spesa.
Il Commissario europeo nella stesura del documento ammonisce l’Italia a destinare tutte le maggiori entrate (leggi tasse aumentate) alla riduzione del deficit.
L’Italia è sotto procedura di deficit eccessivo e non è in condizione di permettersi di disattendere i suggerimenti della Commissione Europea.
Di questo passo altro che 2009, come detto da Padoa Schioppa, per la riduzione delle tasse e ci si prepari invece alla finanziaria 2008 ancora lacrime e sangue.
Bisognerà dire addio agli investimenti ed a salire sul treno dello sviluppo.
Niente innovazione, niente modernizzazione del Paese, niente infrastrutture, niente investimenti, niente sviluppo e occupazione.
Sarà questa l’Italia di Prodi.
La notizia è dunque che ritorni il Governo di Prodi!

Vito Schepisi


26 febbraio 2007

Una crisi nell'equivoco



Questa crisi si è risolta nell’equivoco.
E’ vero che il Parlamento non si è ancora pronunciato e che Napolitano sembra aver chiesto una fiducia che convincesse, non solo coi numeri ma anche con l’allargamento del fronte del consenso.
Prodi ha, stranamente, trovato il voto di Follini, dopo che il 2 febbraio scorso il Consiglio dei Ministri aveva rinnovato per tre anni alla moglie del senatore dell’Italia di Centro l’incarico di Direttore dell’Agenzia del Demanio.
E se pensiamo che nel 2000, la signora Follini era stata nominata da Visco, allora Ministro del Tesoro, con un compenso annuo di 650.000.000 milioni di lire!
Anche il peggior Presidente della Repubblica Italiana, Scalfaro, ha espresso il suo parere ed ha sostenuto che una maggioranza ottenuta con i voti dei senatori a vita debba indurre Prodi e trarne le conseguenze.
Non è scritto da nessuna parte che la maggioranza al Senato si debba ottenere in modo autosufficiente e senza contare sui senatori a vita.
Sembra però che alcuni passaggi di Napolitano ed i suoi richiami a maggiori consensi abbiano fatto intendere ed indotto Prodi a optare per la ricerca di una maggioranza ottenuta coi voti dei senatori eletti dal popolo.
Senza apporti, da intendersi solo aggiuntivi, di senatori nominati o di diritto, che possano falsare la legittimità sovrana degli elettori di determinare col voto le maggioranze parlamentari.
La crisi si è risolta nell’equivoco perché è stato acquisito il 157esimo voto, quello di Follini, ma manca il 158esimo per essere maggioranza dei senatori eletti, posto che per prassi e per legittimare uno "status super partes" il Presidente del Senato Marini non vota.
L’argentino Pollaro, l’abbiamo lasciato convinto che la soluzione della crisi debba essere rivolta verso la ricerca delle ampie convergenze.
E’ anche probabile che Pollaro possa essere il 158esimo, ma tirato per il collo, con una sua nota e differente convinzione politica, anzi assertore di una tesi sostenuta in modo autorevole ed ampio nell’opposizione.
Anche la convergenza di Follini è equivoca, a parte l’opinione che se ne possa trarre sul personaggio.
E’ equivoca perché parte da un presupposto irrealizzato che è quello di riequilibrare sul centro la maggioranza: presupposto che non esiste per numeri e per contenuti politici.
Il Governo Prodi è stato rinviato alle camere alla ricerca della fiducia che il Professore ha sostenuto di avere.
Deve essere quindi lo stesso governo e senza nessuna modifica della sua piattaforma programmatica, politica estera compresa, e tanto meno senza modifica dei partiti che lo sostengono.
L’aggiunta o la sottrazione di un partito implicherebbe per prassi e per chiarezza parlamentare una vera crisi ed un nuovo governo.
E’, invece, la stessa coalizione di centrosinistra già capeggiata da Prodi, e con lo stesso programma di governo della proposizione elettorale dell’Unione contro cui Follini ha svolto la sua campagna elettorale in contrapposizione.
La piattaforma programmatica della Cdl era antagonista ed alternativa rispetto a quella del centrosinistra.

Follini così ha ingannato i suoi elettori.

Se ci fosse un Prodi bis con altre dichiarazioni programmatiche e con altra prospettiva e strategia politica, la posizione di Follini potrebbe apparire meno moralmente scandalosa ed inopportuna.
Il suo passaggio nelle fila della maggioranza avviene, invece, senza che questa abbia modificato di una virgola la sua piattaforma politica e la strategia del consenso e del peso dei partiti e delle spinte di questi.
Un cambio di giacchetta bello e buono, uno squallido trasformismo.
E sarebbe ancora più equivoca la svolta della crisi se fosse vera la fandonia che il voltagabbana Follini voglia accreditare di voler rappresentare la spinta per invogliare i centristi dell’UDC a sostenere il governo per attenuarne la deriva verso la sinistra alternativa e radicale.
Motivazione senza capo né coda in quanto numericamente insufficiente l’UDC ad essere alternativo ai gruppi della sinistra comunista al governo.
Anche il metodo ed il tentativo di coinvolgimento è offensivo se rivolto verso l’autonomia politica di un partito.
Lo sconforto e la nausea per il comportamento di Follini si accentua per le sue precedenti innumerevoli dichiarazioni che negavano sdegnate l'eventualità del suo tradimento e la contrarietà etica al gesto politico da lui invece appena compiuto.
Parole e metodi che danno la misura dello squallore con cui spesso la Politica deve confrontarsi.
Vito Schepisi

23 febbraio 2007

Lettera aperta al Presidente della Repubblica On. Giorgio Napolitano




Inviata al Quirinale all'indirizzo: https://servizi.quirinale.it/webmail



Illustrissimo Presidente,
in questi giorni è sottoposto ad uno stress che immagino avrebbe pure evitato. Uno stress derivato dalla caduta dell'esecutivo. Il Presidente Prodi, indotto alle dimissioni dalla consapevolezza dell’inesistenza di una vera maggioranza politica che lo sostenga, sembra voglia essere riproposto sulla base di un documento riportante 12 perentorie condizioni. Punti programmatici o proposizioni d’intenti che appaiono così vaghe da poter essere accettate dai partiti del centro sinistra. Gli stessi che avevano già accettato il più vasto programma dell'Unione, così vago e così diversamente interpretabile da poter essere paragonato alle profezie di Nostradamus. Un programma che esordiva con la frase "Per il bene dell'Italia" e che oggi si dimostra così beffardo verso tutti quegli italiani che non sono riusciti ad avvertire, in nessun momento, la volontà promessa. La maggioranza dell’Unione non ha retto ed è andata in frantumi dimostrando l'inconsistenza politica del collante utilizzato per metterla insieme. Un mastice valido solo per una campagna elettorale ma non adatto al più articolato sostegno parlamentare. I patti, come è giusto che sia, saltano anche per questioni di coscienza, ed in effetti così è stato.
Affidando nuovamente il mandato all'Onorevole Prodi, Lei si renderebbe responsabile di una riedizione di un Governo che non ha più la fiducia del Paese. Non può non avvertirne l'aria! Non Le può sfuggire, neanche, che in nessuna materia importante un Prodi bis avrebbe una vera maggioranza politica e neanche parlamentare, se non sarà per rigide imposizioni di partito. Il nuovo governo nascerebbe all’insegna della più deprecabile partitocrazia ed ispirato a respingere l’opposizione anziché proporre soluzioni per l'intera nazione, come le dichiarazioni dei capo partito tengono ripetutamente a ribadire. In ultima analisi, vorrei che valutasse la legittimità costituzionale di un capo del governo che si propone di imporre un rigido comando sia sull’azione del Governo che sul sostegno dei partiti che lo sorreggono e valuti quanto tutto questo strida con la tradizione democratica e parlamentare del nostro Paese.
In conclusione, signor Presidente, Le chiedo di mostrare il Suo amore per L'Italia e per le Istituzioni e sia - come già ha iniziato a fare - il Presidente di tutti e non si presti a soluzioni precarie e senza chiari e legittimi sbocchi politici. L’Italia ha bisogno di una rinnovata fiducia; ha bisogno che vengano meno odio ed intolleranza; ha bisogno che si dia sbocco alla voglia di dialogo che è pur presente tra la gente italiana che lavora e che investe. Una soluzione come quella proposta da Prodi porterebbe ad alimentare le incomprensioni ed esacerbare gli animi. L’Italia nelle ultime elezioni non ha avuto né vincitori, né vinti. Sia interprete dunque di questa realtà. Dia vita ad un Governo del Presidente, un esecutivo di pacificazione che possa sembrare il governo della parte sana, democratica e liberale dell’Italia e che possa dar soluzione ad alcune questioni che vanno dalla legge elettorale alla riforma dello Stato e che, esaurita la sua funzione, possa, al più presto, riportare gli Italiani al voto per fornirli di una maggioranza politica.
Caro Presidente, tocca a Lei. Non deluda gli Italiani.
Cordiali saluti.
Vito Schepisi

22 febbraio 2007

Prodi bis? Che senso ha!?



Prodi è caduto per mancanza di omogeneità politica.
La sua presunta maggioranza diverge su più di una questione.
E' unita solo dall'antiberlusconismo e dalla gestione del potere.
Un nuovo Governo Prodi con questa maggioranza non avrebbe senso e sarebbe una prova di presunzione e di arroganza, oltre a non poter esser compresa dagli italiani.
E’ vero che Prodi ha vinto le elezioni, sebbene col solo 50% dei voti e con sospetti di brogli, ma è anche vero che le ha vinte più che su di un programma politico chiaro e condiviso, su un collante fuori programma: l’antiberlusconismo.
C'è però ora una stragrande maggioranza di elettori che di questa maggioranza, ed anche di Prodi, non vorrebbe più sentirne parlare.
Un Prodi bis, pertanto, significherebbe solo perseverare nell'errore.
Sulla politica estera, prima che su altre questioni, le divergenze sono così macroscopiche da non potersi pensare alcuna forma di mediazione.
C'è una maggioranza di italiani che chiede continuità nelle scelte e nei riferimenti, che sente gli USA paese amico e fidato, che condivide il patto atlantico e la politica della diffusione della democrazia.
C'è una maggioranza di italiani che ritiene pericolosa la troppa accondiscendenza verso il fondamentalismo arabo e che ritiene Israele uno stato assediato e minacciato.
Italiani che attribuiscono al mancato riconoscimento dello stato ebraico, alla doppiezza ed alla corruzione della dirigenza palestinese ed ai gruppi terroristi arabi, tollerati anche dal nostro ministro degli esteri, le responsabilità storiche della tensione in medioriente.
Altri italiani, invece, ritengono di dover mutare il rapporto con gli USA e di dover dar credito alle politiche che privilegiano il rapporto con Hezbollah e con Hamas e persino con Amhadinejad.
Questa Italia è quella che scende nelle piazze e che trova contiguità con gruppi eversivi confinanti con le rinate Brigate Rosse e che si infiltra in partiti della sinistra radicale ed alternativa, nel sindacato di sinistra, maggioritario nel Paese, nei centri sociali e che, seppure a volte frenata, si lascia andare nelle città italiane in devastazioni, furti chiamati “spesa proletaria”, violenze e scontri con la polizia.
Atti tutti perpetrati inneggiando alla pace.
Una parte del popolo italiano che ha in odio gli USA ed Israele e che nelle piazze ne incendia le bandiere e si lascia andare a slogan violenti e di odio verso tutto ciò che è americano.
Questa realtà è all'interno del centrosinistra.
E’ all’interno delle forze parlamentari che hanno concesso la fiducia a Prodi, è stata all’interno del suo Governo.
Nelle ultime elezioni dell’aprile del 2006 è stata determinante per raggiungere la risicata presunta maggioranza.
I loro rappresentanti in Parlamento sono perfettamente consapevoli del loro indispensabile apporto, tanto da imporre in ogni circostanza la linea al Governo.
Esiste nel centrosinistra ancora un’altra realtà.
Quella dei post comunisti, orfani dell’URSS, che hanno avuto in odio da sempre la democrazia liberale e che oggi per trasformismo politico e ragioni di partito (classico nella storia marxista), per non essere fuori dalla scena per incompatibilità politica con l’Europa e le sue direttive di sviluppo, dopo aver scippato anche la storia del socialismo democratico ed autonomista, nascondono l'antiamericanismo e l'antisionismo col "multilateralismo" e la "equivicinanza".
Anche quest'ultimo è un termine cinicamente coniato per confondere le intenzioni e nascondere la diversa collocazione.
Non si può essere equivicini tra terrorismo e democrazia e non si può essere equivicini tra un paese alleato ed un altro che si porge minaccioso.
Non si può certo verso coloro che non perdono occasione per mettere in discussione i valori della nostra civiltà.
Un Prodi bis, pertanto, non avrebbe proprio senso.
Vito Schepisi

20 febbraio 2007

Si va a casa?



“Se viene meno la maggioranza parlamentare sulla politica estera il Governo va a casa”.
E’ stato D’Alema ad esprimersi in questi termini e non Fini o Berlusconi.
In attesa del dibattito domani al Senato sulla missione italiana in Afghanistan, il capo della Farnesina lancia segnali espliciti e , per rendere concreta la minaccia, aggiunge:
“è un principio costituzionale”.
Cosa sta a fare allora Prodi a Palazzo Chigi?
Sulla politica estera, infatti, in Parlamento non c’è maggioranza.
E’ già capitato una volta sulle dichiarazioni di Parisi per la missione militare italiana in Afghanistan, sotto l’egida delle Nazioni Unite.
E’ stata l’opposizione ad approvare la mozione favorevole alle dichiarazioni del Ministro della Difesa: la sua maggioranza ha votato contro.
Non può esserci maggioranza politica se deputati e senatori della maggioranza ed i partiti della sinistra radicale contestano apertamente la politica estera dell'esecutivo e marciano, persino, contro le decisioni del Governo di cui fanno parte.
Non può esserci maggioranza in politica estera retta sulla confusione e sull’equivoco: non è dignitoso.
I rapporti con gli altri paesi del mondo non sono i conti di Padoa Schioppa che si allungano e si allargano a coprire vergogne e menzogne, o le lenzuolate di Bersani fatte di doni ai compagni spacciate come liberalizzazioni.
I fatti son chiari e sono sotto gli occhi di tutti, nonostante gli artifizi verbali e diplomatici del “marinaretto” ministro degli esteri italiano, interprete ancora una volta di una disonorevole sceneggiata.
Questa non è la “missione arcobaleno” fatta di cibi avariati, medicinali scaduti, spese gonfiate o di containers abbandonati sulle banchine del porto di Bari.
Di mezzo ci sono i nostri soldati e la credibilità internazionale e non gli sporchi commerci di un gruppo di faccendieri nominati dall’allora Presidente del Consiglio D’Alema a “nutrire” ed “aiutare” la popolazione Kosovara.
Ci sono i nostri interessi economico-politici nell’aria del Mediterraneo
C'è, soprattutto, la nostra posizione logistica e strategica che ci vede a rischio per un ampissimo fronte scoperto da ogni parte: di fronte al mondo arabo che si arma e si dota anche della tecnologia nucleare e non certo per procurarsi le fonti energetiche essendo produttori di petrolio.
Un fronte che richiede un’adeguata difesa fatta di strategie politiche e di adeguato deterrente militare.
Il pacifismo unilaterale non ferma le armi ma le richiama per facilità di aggressione, e quello italiano è tanto peloso da sembrare solo antiamericanismo e "antisionismo".
Non possiamo con indifferenza consentire che un governo di illusionisti, attaccati alle poltrone da un collante fatto di intrecci di poteri, possa pregiudicare il futuro e la collocazione politica del Paese.
E' davvero indecente che uomini come Prodi e D’Alema demoliscano le nostre certezze di pluralismo e di civiltà, per correre dietro a personaggi sinistri del tipo di Diliberto e Giordano.
Vito Schepisi

15 febbraio 2007

La ripresa economica


Il Prodotto interno lordo per effetto di una migliorata struttura internazionale, dell’aumento dell’occupazione e dell’ incremento della domanda sia interna che esterna è cresciuto nel 2006 del 2%.
L’incremento ci riporta ai periodi antecedenti l’11 settembre, prima della guerra in Afghanistan e di quella in Irak.
Una tendenza che gli analisti avevano ampiamente prevista e che ha trovato il Paese preparato a cavalcarla.
La finanziaria di Berlusconi per l’esercizio economico-finanziario 2006 ha sortito i suoi effetti e le previsioni sono state ampiamente rispettate.
Anche il rapporto deficit/Pil si mantiene al di sotto del 3% ben al di sotto dei catastrofismi preelettorali di Prodi e compagni.
Inutile dire che a cose fatte, incassata la posta, il centrosinistra attribuisca alla sua politica i risultati raggiunti.
Difficile dire con quale logica.
E con quale faccia tosta!
Già per le entrate del 2006, superiori di poco meno di 30 miliardi di Euro a quelle del 2005, l’accoppiata Prodi-Padoa Schioppa, con la coda di Visco e Bersani, se ne voleva attribuire i meriti, arrivando persino ad ipotizzare la crescita delle entrate per il timore degli evasori di essere scovati da Visco.
I risultati raggiunti, invece, erano ampiamente previsti.
L’incremento del 2,4% della produzione industriale e la crescita dell’export dell’8,6%, assieme alla crescita del numero delle imprese, favorita da una minore pressione fiscale e l’attuazione delle norme previste dalla legge Biagi, che ha favorito in modo sorprendente l’occupazione, facendo emergere anche buona parte del sommerso, non potevano che ampliare le misura delle entrate.
Hanno accresciuto la base imponibile.
La ripresa economica che si è diffusa in ambito mondiale (non è solo in Italia che il Pil è cresciuto) era da tempo prevista e già si sapeva che il nostro Paese non poteva che beneficiarne, come in effetti è stato.
In Italia tra l’altro il Pil è cresciuto in misura inferiore rispetto al resto d’Europa per la minore competitività.
Anche i vituperati condoni hanno reso i loro effetti.
I condoni sono provvedimenti iniqui, anche immorali, ma sono serviti a sfoltire i ricorsi, a rendere certe le entrate, anche se in misura ridotta rispetto al dovuto, ad evitare le prescrizioni che sarebbero state ancora più inique ed a regolarizzare per il futuro la dazione fiscale.
Ora si gira pagina e si deve prendere coscienza che non perché la congiuntura internazionale ha invertito la marcia sia possibile allentare la guardia e inficiare i risultati che le riforme di Berlusconi, hanno iniziato a sortire.
Il monito ed il richiamo è autorevole e viene da fonti diverse.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale:
“L'Italia continua a perdere competitività - da quanto si legge nel rapporto degli ispettori - tra rigidità economiche, e una specializzazione storica su settori industriali a basso valore aggiunto”;
ed ancora:
“Segnali incoraggianti, che si basano interamente su un aumento delle entrate - avvertono gli ispettori - tanto che su orizzonti di tempo più lunghi le previsioni sui conti pubblici italiani segnano netti deterioramenti.”
Anche la Commissione europea in riferimento al tavolo di trattativa con i sindacati previsto per il prossimo marzo afferma:
“non deve compromettere le riforme strutturali già realizzate, compresa la riforma Maroni, che prevede l’aumento dell’età pensionabile a partire dal 2008”.
La crescita dunque va supportata e l’aumento della pressione fiscale non giova agli investimenti ed alla riduzione dei costi: non favorisce la competitività.
Servirebbe una politica di rigore nelle spesa pubblica ma assistiamo, invece, al suo ampliamento ed al moltiplicarsi degli interventi a favore di enti e ministeri, di aumenti sconsiderati a magistrati, parlamentari e ministeriali ed il moltiplicarsi delle poltrone e dei servizi dello Stato.
Servirebbe mantenere le potenzialità di contenimento della spesa previdenziale, previste dalla riforma Maroni, ed invece si parla addirittura di riduzione dell’età pensionabile e di cancellare i provvedimenti sulle pensioni del Governo Berlusconi.
Servirebbe l’effettiva riduzione del cuneo fiscale attraverso una riforma seria del costo del lavoro, invece si rischia di vedersi respinti dalla Commisione europea i previsti interventi governativi, in quanto in contrasto con l’art.87 del Trattato di Roma che recita:
“Salvo deroghe contemplate dal presente Trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidono sugli scambi fra gli Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma, che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza».
Occorrerebbe favorire l’occupazione e la mobilità, mantenendo le norme previste dalla legge Biagi e magari introducendone altre sulla produttività e sulla lotta ai fannulloni, come suggerisce il giuslavorista di sinistra Pietro Ichino.
Invece c’è chi parla di soppressione della Biagi e figuriamoci per le misure contro i fannulloni.
Ho timore che con questo Governo che “si pavoneggia con penne non sue”, come dice Cicchitto, non si riuscirà a prendere il treno dello sviluppo ma solo a pedalare in salita.
Vito Schepisi

13 febbraio 2007

Violenza!



Se un’organizzazione di tutela e sviluppo delle relazioni sociali si fosse fatta sorprendere ripetutamente in situazioni di accoglienza e formazione di azioni eversive contro lo Stato e contro gli attori del confronto democratico del Paese, sarei tra quelli che chiederebbe di indagare approfonditamente sui metodi di conduzione e di organizzazione dell’associazione, qualsiasi sia il suo colore politico.
Ove, ancora, fossero evidenti metodi di disinformazione e di istigazione a forme eversive e di contrasto violento allo sviluppo di una normale dialettica democratica, ne chiederei lo scioglimento.
Chiederei persino l’incriminazione per associazione sovversiva di stampo fascista, di coloro che si fossero resi responsabili di istigazione alla violenza ed alla sovversione delle istituzioni democratiche.
Ebbene dopo il delitto Biagi ci saremmo aspettati che all’interno della CGIL qualche riflessione fosse stata fatta, che il richiamo alla vigilanza, che è temine loro consueto quando si parla di casa d’altri, potesse avere concreto significato nel controllo al suo interno della finalizzazione democratica del movimento.
Abituati come siamo a sentirci dare o meno patenti di democraticità dalla CGIL e dalla sinistra in genere e di sentire parlare di legittimità a governare, ci verrebbe da chiedere se si possa discutere sulla legittimità di un sindacato sempre distintosi per esasperazione in chiave politica delle lotte e dei diritti dei lavoratori.
Perché allora all’interno della CGIL non si è vigilato?
Perché il sindacato trasforma ed esaspera in chiave politica ogni rivendicazione contrattuale o di diritto dei lavoratori?
Non può non sfuggire che il giuslavorista ucciso dalle BR, consulente del ministero del Lavoro, impegnato ad approfondire, con il leghista Maroni, ministro del Governo Berlusconi, le tematiche dell’ingresso dei giovani nel mondo dell’impiego e le normative relative alla mobilità ed alla riforma dei rapporti di lavoro, sia stato assassinato dalle Brigate Rosse in conseguenza di una feroce campagna di disinformazione, di criminalizzazione e di accuse di tradimento alla causa dei lavoratori.
Questa campagna vedeva la CGIL e Cofferati, allora leader del sindacato, tra i più agguerriti accusatori di Biagi.
Non ci meraviglia neanche oggi sapere che tra gli obiettivi, oltre Berlusconi, Mediaset, Libero, bersagli simbolo dell’odio comunista, c’era anche il giuslavorista Ichino, già sindacalista della CGIL e deputato dell’ex pci e da sempre vicino agli ambienti di sinistra.
I suoi recenti interventi, gli articoli ed in particolare il suo ultimo libro “I nullafacenti” sul mondo del lavoro e le sue tesi relative al licenziamento dei fannulloni, non devono essere piaciute a quella parte sindacale che ritiene il lavoro un diritto, il salario una certezza e l’impegno nel lavoro un elemento di scarsa importanza.
Ichino ha recentemente affermato che il mondo del lavoro sia saturo di fannulloni e di sacche di privilegi e di ozi a spese di chi lavora.
Anche le sue osservazioni sulla riduzione del ventaglio di garanzie che premia i comportamenti poco virtuosi a discapito del costo del lavoro e dei salari di coloro che sono più onesti, devono essere state viste in modo rabbioso.
Non deve esser stata mandata giù neanche la sua uscita sul licenziamento dei dipendenti pubblici improduttivi per ridurre la spesa pubblica.
C’ è una parte del mondo sindacale, come c’è una parte della politica, che è fucina della violenza e dell’intolleranza.
In questa sacca si annida un focolaio di rancore e di odio che sfocia in trame eversive.
Gli artefici della strategia dell’odio e dell’intolleranza non solo sono arrivati in parlamento ma anche nell’aria di governo.
Ne condizionano e ne determinano le scelte.
Ritengono di doverci essere a pieno titolo per aver dato il loro contributo alla campagna di odio e di disinformazione alimentata contro il precedente governo.
Mantengono in piedi una maggioranza che trova linfa vitale solo nella consapevolezza di perseguire la durata della gestione del potere.
Non è forse è giunto il momento per le forze democratiche del Paese di prendere decisamente le distanze da tutte le formazioni politiche che fomentano l’odio, adottano incivili forme di protesta ed offrono coperture politiche alla violenza ed all’intolleranza?
Vito Schepisi

09 febbraio 2007

Foibe

tombe senza nomi e senza fiori dove regna il silenzio dei vivi e il silenzio dei morti...


Il 10 febbraio del 1947 a Parigi viene firmato il “Diktat”.
Così è stato definito il trattato in 90 articoli che sancisce per l’Italia ed i cittadini della Dalmazia e dell’Istria l’inizio di una nuova storia fatta di drammi umani, di ingiustizie, di privazioni e di umiliazioni.
Ed il 10 febbraio è la “Giornata del Ricordo”.
Il ricordo dei martiri delle foibe e dell’esodo dei 350.000 italiani, giuliani, istriani e dalmati.
Una tragedia inflitta a cittadini colpevoli di sentirsi italiani.
Tra i tanti episodi di squallore politico e di indecente cinismo basti ricordare, oltre alle foibe, ed a Porzus, anche la vile doppiezza comunista.
Il 6 novembre 1946 in una intervista all’Unità, Togliatti, rendendosi portavoce del maresciallo Tito, compagno comunista, meschinamente propone la cessione di Gorizia alla Jugoslavia contro il rilascio all’Italia di Trieste.
La nostra Trieste a quel tempo era oggetto di aggressioni e soprusi delle truppe di Tito con la complicità dei comunisti italiani.
Anche l’esodo dei profughi registrò atti di odioso cinismo politico.
I profughi istriani, come si può facilmente immaginare, lasciavano le loro terre ed i loro averi per sfuggire dal comunismo e dalla privazione della loro dignità di cittadini liberi.
Trovavano in Italia, indifferenza ed a volte odio ed ostacoli.
Ad un treno di profughi, ad esempio, diretto a La Spezia, fu impedita la sosta a Bologna, per un pasto caldo e per assistenza, per la minaccia dei comunisti bolognesi di scioperare contro la sosta di quel treno.
Un atteggiamento di spietata inumanità che può trovare pari riscontro solo nei metodi nazisti.
Le foibe sono delle cavità carsiche molto diffuse nella zona di Trieste, nell’Istria e nella Dalmazia.
La profondità di queste fessure a forma di imbuto rovesciato è varia e raggiunge anche i 200 metri.
Il metodo usato dai criminali comunisti slavi consisteva in molti casi nel legare con filo di ferro gli italiani del luogo, già torturati e privati di ogni loro avere, e di porli al limite della buca per poi sparare al primo della fila che cadendo trascinava con se nella foiba tutti gli altri.
Gli altri naturalmente erano ancora vivi.
Solo a leggerle e raccontarle certe cose viene la pelle d’oca!
Tutto questo avveniva anche con la complicità dei comunisti italiani.
I compagni italiani pronti a condannare ogni cosa, e soprattutto la violenza degli altri, ma sempre ciechi e muti dinanzi alla spietata condotta dei crimini del comunismo.
Il partito comunista che nel tempo cambia nome e (dice) riferimenti ma che non ha mai sollevato neppure un debole grido contro questa atroce infamia.
Per anni hanno insabbiato ogni cosa, hanno nascosto, deriso, ingiuriato quanti osavano ricordare.
I processi si sono tradotti in farse oscene con magistrati che si preoccupavano solo di nascondere, sminuire ed insabbiare.
Non si conosce il numero dei morti gettati nelle foibe, ma parlare di oltre 10.000 può essere una base di partenza.
Da fonti diverse si presume che di certo non siano stati di meno.
La polizia politica e l’esercito di Tito dal 1943 al 1945, ed anche oltre fino al trattato di Parigi del 47, e forse oltre ancora, operarono una vera pulizia etnica, un genocidio che comprendeva anche donne e bambini e spesso per il solo fatto di essere italiani.
Tristemente nota è la Foiba di Bassovizza una frazione del Comune di Trieste, ora monumento nazionale.
La Foiba era una vecchia miniera in disuso profonda 228 metri prima del 1945.
Non si conosce il numero delle persone gettate nella fossa ma circola una tesi secondo cui dopo il 1945 i metri erano diventati 198.
Ben 30 metri in meno che si dice siano stati colmati da resti di corpi umani.
Con le foibe non si può non ricordare la strage di Porzus del febbraio del 1945.
Un gruppo di circa 25 partigiani non comunisti della brigata Osoppo trucidati dalla brigata Garibaldi e dai Gap comunisti, in intesa con i comunisti di Tito.
Ne è stato tratto un film nel 1997, con la regia di Renzo Martinelli, prodotto dalla Rai, un film onesto, documentato e forse per questo mai messo in visione.

"La storia fatta di silenzi, di falsificazioni, di mistificazioni, non è maestra di vita".
Vito Schepisi

07 febbraio 2007

Uniti nella confusione



Diciamolo subito!
Perché sia chiaro e non ci si nasconda dietro indecenti distinguo di orgoglio e di sovranità.
Diciamo subito che ciò che ci obbliga ad essere presenti a Kabul non è questione di multilateralismo o di unilateralismo.
C’ è un alleanza a cui l’Italia aderisce: la Nato.
Andar via dall’Afghanistan equivarrebbe a denunciarne il trattato, comporterebbe una diversa strategia politica internazionale e la conseguente fuoriuscita dall’Alleanza.
Già l’equivicinanza di D’alema è una formula azzardata, al limite della diplomazia, servita a mascherare vicinanze sospette ma non a sancirle.
Le posizioni assunte nell’aria mediorientale ne sono una testimonianza inequivocabile.
La formula dalemiana serviva ad avvalorare la discontinuità richiesta dalla sinistra alternativa alla politica estera del precedente governo, ad incrinare la solidità delle alleanze tradizionali del Paese: l’Italia amica degli USA e di Israele.
Per la sinistra radicale la guerra fredda non è finita e la spinta verso il neutralismo, che è poi l’anticamera della politica antiamericana, non si è mai attenuata.
Alle frange estreme si è sempre accostata buona parte della sinistra ex pci e frange del cattolicesimo sociale di ispirazione illiberale: il mix di Prodi e D’alema.
La lettera degli ambasciatori in Italia di sei Paesi (Usa, Gran Bretagna, Olanda, Australia, Canadà, Romania) impegnati assieme all’Italia a Kabul non ha niente di “irrituale” e rappresenta un invito al rispetto degli impegni sottoscritti ed un monito al contributo che i paesi civili devono tributare alla lotta per la libertà, la democrazia e la convivenza civile.
L’Italia insieme a circa altri 30 paesi del mondo è lì per il ripristino delle condizioni di vita civile di una popolazione vessata prima dalla occupazione e repressione comunista sovietica e poi dal fondamentalismo islamico dei talebani.
Senza dimenticare che dall'Afghanistan, e su ispirazione di Bin Laden, è partito l’attacco alle Torri gemelle di New York e che da quel paese è partito l’attacco al mondo civile attraverso azioni di terrorismo internazionale.
Dal regime fondamentalista instaurato in Afghanistan, divenuto un inferno per i diritti dei popoli, i talebani, sostenuti dai proventi della commercializzazione sui mercati criminali occidentali della produzione di oppio e con il sostegno politico ed economico di Bin Laden, esportavano i più rigidi principi islamici.
Sollecitavano nei paesi arabi ed a prevalenza musulmana la formazione di regimi ispirati dalla più rigida interpretazione della legge coranica.
L’aver dovuto scrivere quella lettera ha rappresentato per i paesi sottoscrittori il giusto contributo al dibattito ed alla discussione politica tra i cittadini italiani nel momento in cui la politica estera italiana rischiava di subire un mutamento di rotta.
L’onestà di un popolo e di un Paese consiste anche nel rendere partecipi i cittadini e gli alleati del mutamento di una linea politica e delle ispirazioni di un governo che va a mutare i suoi riferimenti internazionali.
Significa richiedere chiarezza e lealtà.
Altro che “interferenze inopportune” come sostiene D’Alema!
I governi di 5 paesi rappresentati dagli ambasciatori firmatari, motivati dall’accusa di “irritualità” di D’Alema, hanno ribadito la legittimità e l’opportunità del contenuto della lettera.
Solo la Romania si è sfilata attribuendo l’iniziativa al suo ambasciatore.
L’Olanda dinanzi alla doppiezza italiana ha pure precisato che l’iniziativa era stata preannunciata e che il Governo ne era a conoscenza: smentendo Prodi, D’Alema e Parisi che affermavano, come al solito, di non saperne niente.
Per Prodi è la terza bugia pubblica da quando è Capo del Governo ed è la terza volta che viene smentito, senza che ne tragga le conseguenze e se ne assuma le responsabilità.
Naturalmente dal vertice di maggioranza convocato d’urgenza per la crisi latente del Governo è emersa solo compattezza e solidità della maggioranza, “unita nel sostegno alla politica estera e di difesa del Governo”.
E dire che Prodi prima del vertice abbia denunciato “un avvitamento pericolosissimo del dibattito interno” naturalmente della sua maggioranza.
Uniti si ma solo per occupare il Paese!
Vito Schepisi

04 febbraio 2007

Rapidità di pensiero



L’organo di informazione vicino a Romano Prodi non poteva lasciare che la stampa si occupasse della signora Berlusconi e dei suoi rapporti con il marito, senza che fosse posta un’alternativa alla curiosità della gente.
Sarà per questo che il Corriere della Sera nel suo inserto “Io Donna” si è occupato del sacrificio politico della Signora Flavia Franzoni, moglie del presidente del consiglio Prodi.
Costei si dice innamorata della politica ma è costretta a rinunciarci perchè consapevole che l’impegno in questa attività richieda decisione rapide:
“Non sono veloce a decidere, lì invece bisogna andare in fretta”.
Ricordo una dichiarazione rilasciata da Sircana, portavoce di Prodi, in cui questi spiegava alla stampa che il Professore aveva difficoltà nei rapporti con i media in quanto abituato a “dispiegare” i suoi concetti.
Il pensiero di Prodi necessitava di uno spazio di tempo più largo per essere esposto, e questo spazio non poteva circoscriversi ad un tempo al di sotto dei 20 minuti.
Mi ha così colpito questo profondo concetto del portavoce del Presidente del Consiglio e ricordo che subito ebbi un flash di pensiero, il mio non “dispiegato”, di appena un attimo in cui ho pensato che il pensiero fosse circoscrivibile in spazi di tempo.
A parte le mie difficoltà a comprendere il pensiero temporizzato, fui colto da una riflessione spontanea.
Pensai al pensiero a cottimo, ad esempio, come se fosse la costruzione di una manufatto da richiedere uno spazio quantificato di tempo in cui comprendere ogni cosa: materiale, mano d’opera, costi fissi, ingegno, uso della parola, ammortamenti e quant’altro.
Sircana descriveva il suo datore di lavoro come un imprenditore della parola: un venditore di parole.
Subito un’altra idea!
Pesando le parole, le incomprensioni, le gaffes, le reazioni, l’intolleranza, le ispirazioni, le pause, i toni, la gestualità, le bugie:
un venditore di chiacchiere.
Un’idea così ben riposta da incrociarsi con quella che già avevo formulato nell’esperienza trascorsa nell'osservazione del personaggio.
Leggendo il pensiero della signora Prodi, però, mi convinco che, similmente alla famiglia Berlusconi, anche nella famiglia Prodi ci siano motivi di incomprensioni e forse anche di comunicazione.
Le difficoltà, infatti, della signora Prodi non sono avvertite da suo marito che avrebbe, secondo i suoi collaboratori, necessità di tempi lunghi per “dispiegare” il suo pensiero.
Di questa sua necessità noi ce ne eravamo già accorti.
Possibile che la moglie non se ne sia accorta?
E la signora Franzoni, consapevole che per far politica sia necessario essere svegli e rapidi, perché non lo dice al marito consigliandogli di lasciar perdere?
Vito Schepisi

02 febbraio 2007

Economia e politica estera

Sono due i pilastri su cui si costruisce una credibile azione di governo.
Economia e Politica Estera.
Su questi poggia l’architrave che rende credibile il solido supporto.
Dall'entrata attraverso questa porta passa la gestione di un Paese.
Se viene a mancare uno dei due pilastri l’architrave si incrina e rischia di crollare, travolgendo coloro che passano sotto.
L’economia di un Paese è un meccanismo complesso nelle sue articolazioni ma anche di una semplicità estrema.
Niente di diverso dai principi della gestione finanziaria di un buon padre di famiglia.
Questi ha introiti periodici ma ha anche spese periodiche e la necessità di provvedere alle esigenze quotidiane.
Distribuisce il proprio reddito a seconda delle occorrenze, tenendo presente la necessità di far rientrare la spesa corrente all’interno della sua capacità di reddito e la spesa straordinaria (ad esempio, acquisto di una casa o di una automobile o di altro bene di consumo da poter dilazionare in uno spazio di tempo più ampio) attraverso la potenzialità residua delle possibili economie.
In caso di difficoltà il buon padre di famiglia, cosciente di non potersi aumentare autonomamente le entrate, a meno di azioni delittuose, non assume debiti e stabilisce politiche di rigore.
Uno Stato virtuoso dovrebbe fare altrettanto.
Ma un Governo se è presieduto da Prodi non la pensa così.
Ha aumentato la spesa corrente, speso risorse non disponibili, bloccato gli investimenti produttivi, assunto mezzi, strumenti e uomini per soddisfare i piaceri della sua corte, prelevato i risparmi dei lavoratori, allargato il suo debito, coltivato ed intensificato privilegi e favori.
Per finanziare tutto questo, ha inasprito il prelievo fiscale alle famiglie ed alla piccola e media impresa, tassato il risparmio, scoraggiato gli investimenti.
Ha lesionato, cioè, uno dei pilastri su cui poggia l’architrave che ci consente di avere sviluppo economico, occupazione, politiche sociali e ricchezza.
L’Economist, il famoso quotidiano economico inglese che ai tempi di Berlusconi, quando muoveva critiche al suo Governo, era la “Bibbia” dell’economia, qualche giorno fa nella sua edizione settimanale a cura del suo ufficio studi, parlando delle difficoltà della politica italiana, affermava:
«Come risultato dell’instabilità politica, sono improbabili importanti riforme economiche. La debolezza dei conti pubblici resta un altro problema, e le misure di consolidamento da parte del governo, man mano che verranno approvate, avranno come risultato quello di appesantire la pressione fiscale piuttosto che tagliare la spesa, deprimendo i consumi privati».
Anche il Wall Street Journal, altro quotidiano pilastro dell’analisi economica mondiale, non è tenero con Prodi.
Soffermanodosi sulla politica economica italiana ed anche sulle cosiddette liberalizzazioni, nell’edizione del primo febbraio, si esprimeva in questi termini:
“Tutto il potere ai soviet? Sembra questa la via seguita dal governo per realizzare le sue cosiddette riforme a favore del libero mercato”
ed ancora:
“ L’unico mercato che il governo sta aprendo è quello del favore politico, che le imprese devono conquistare se vogliono lavorare in questo paese.”
Lesioni quindi, gravi lesioni al pilastro dell’economia.
Se consideriamo che sulla politica estera, in seno alla maggioranza, ci sono così tante crepe da farsi votare dall’opposizione un Ordine del Giorno che approva l’azione del governo sull’allargamento della base americana di Vicenza, e con la maggioranza che vota contro, vuol dire che l’architrave non regge proprio più.
Abbia allora Prodi la dignità di dimettersi.

Vito Schepisi