30 luglio 2009

Il Partito del Sud


Se c’è una cosa di cui gli italiani non sentono assolutamente il bisogno questa è la creazione di un nuovo partito. Se nell’Italia repubblicana, per ogni nuovo partito fondato, fosse stata invece realizzata un’opera pubblica non staremmo ancora oggi a denunciare le carenze infrastrutturali, la precarietà degli edifici, la mancanza di strade, scuole, ospedali, linee ferroviarie, porti, aeroporti, verde pubblico, carceri e case popolari. I costi dei partiti sono enormi. Tutti sanno o sospettano che questi costi vadano sempre a carico dei contribuenti, anche di quelli a cui viene l’orticaria solo a sentir parlare di un nuovo partito.
In questo scorcio d’estate in cui il Mezzogiorno, per mostrare le sue straordinarie bellezze, si illumina con il cielo più terso ed il sole più limpido d’Italia, le voci insistenti della formazione di un Partito del Sud, tolgono la tranquillità ed il sonno, più dello scirocco che, di sera, soffia dall’Africa.
Chi è meridionale conosce quali siano davvero le politiche per il Sud. Sa molto bene che la soluzione non è nei soldi, alimento spesso di mafie e clientele. La sicurezza, le strutture adeguate, i trasporti veloci ed i servizi efficienti sono invece i bisogni primari. I diritti e la legalità devono subentrare alla gestione arrogante e clientelare del territorio.
Chi è meridionale rifletta sui soldi spesi per anni a Napoli per l’emergenza “monnezza”, o a Bari con l’affare “sanità” ed avverta il bisogno della fiducia nelle funzioni dello Stato, perché siano sempre al servizio della legalità, perché sappiano erogare giustizia con rapidità, senza sollevare polveroni che finiscono col celare le responsabilità, intorpidire le acque o favorire una parte politica.
La gente del sud chieda Giustizia!
Non servono alla trasparenza le gesta erotico-sputtananti di compiacenti “signorine” se finiscono per coprire, con le pruderie di una cultura provinciale, la questione morale del centro-sinistra pugliese. Il Meridione ha bisogno di liberare le sue energie dalle catene dei soprusi e dalle acque melmose di interessi, vendette e ripicche. Il Mezzogiorno deve affrancarsi dalle furbizie della burocrazia, della politica e del malaffare.
Il Sud deve liberarsi dall’usura, dal pizzo e dall’abuso.
Bisogna essere chiari, anche a costo di sembrare sbrigativi e rozzi. Il Partito del Sud nasce, se nasce, per chieder danaro. Attorno all’idea si sono subito formate cordate, più o meno palesi, tra chi fiuta l’opportunità e chi mira al riciclaggio. Nell’un caso e nell’altro, sarà sempre una raccolta differenziata. E’ bene che si sappia, però, che la politica non è solo spesa e gestione, ma soluzioni.
La lotta tra poveri, ed il braccio di ferro per contare di più, è stato il risultato di oltre 60 anni di politiche con la questione della “centralità del mezzogiorno” in piedi. Questa “centralità” è stata tra gli obiettivi primari di quasi tutti i 66 governi italiani del dopoguerra . La Questione meridionale ha saturato la letteratura politica, sociale ed economica, come sosteneva Leonardo Sciascia: “Sappiamo bene che c'era già una "Questione meridionale: ma sarebbe rimasta come una vaga leggenda nera dello Stato italiano, senza l'apporto degli scrittori meridionali”.
Niente è cambiato, però, da quel “c’era già”: perché non è cambiato il modo di affrontarla la "Questione".
Basterebbe riportare la contabilità dei costi di questa politica per il mezzogiorno e dimostrare che con la spesa sostenuta sarebbe stata assicurata una vita agiata a tante generazioni di meridionali. La classe dirigente doveva solo astenersi dal fare qualsiasi cosa, per non combinare ulteriori guai, come è accaduto all’Ospedale di Agrigento, posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria, con le strutture portanti di calcestruzzo realizzate con la sabbia.
Lombardo e Miccichè, anziché al Partito del Sud, pensino ora ai 1400 degenti che non si sa dove potranno essere diversamente dislocati!
Vito Schepisi

27 luglio 2009

"NON IN MIO NOME"

Le federazione mondiale della stampa ha espulso dall’associazione la federazione israeliana. L’espulsione è avvenuta per una questione di quote associative, ma nelle more di una trattativa in cui Israele ne lamentava l’esosità, rispetto alle quote pagate da altri paesi dell’area mediorientale.
Sembra che l’accordo, a detta dei rappresentanti israeliani, fosse stato già raggiunto, ma che sia comunque prevalso il sentimento antisionista dei diversi rappresentanti della federazione. Ciò che è incomprensibile (e ci sgomenta) è che alla fronda anti-israeliana abbia aderito anche la federazione italiana rappresentata da Paolo Serventi Longhi.
Per iniziativa di “NON IN MIO NOME”, un gruppo su FB composto da giornalisti italiani, tra cui Sergio Stimolo, Onofrio Pirrotta, Pierluigi Battista, per citarne i primi in elenco, e circa 1500 firme di blogger, lettori, cittadini comuni, (le firme sono ora diventate quasi 2000) è stata inviata una lettera alla FNSI in questi termini:
All’attenzione di: Franco Siddi , Segretario della Fnsi e Roberto Natale, Presidente della FnsiEgregio Segretario, egregio Presidente,dopo lo scandaloso e vergognoso voto con il quale i membri dell’esecutivo della Federazione internazionale dei giornalisti hanno espulso i colleghi israeliani, senza ascoltarne le ragioni, vi chiediamo:a) Il voto del rappresentante italiano, Paolo Serventi Longhi, è stato concordato con la segreteria e/o con la giunta della Fnsi?b) Dopo la polemica vicenda delle quote (sollevata dai colleghi israeliani in seguito alla costante esclusione da momenti importanti della Federazione internazionale, come l'aver tenuto all'oscuro i giornalisti israeliani di una missione investigativa sugli eventi di Gaza. E che in ben due occasioni, a Vienna e a Bruxelles, i giornalisti israeliani sono stati esclusi dagli incontri sul Medio Oriente), pensate anche voi, come Serventi Longhi, che l’unica soluzione fosse quella burocratica, invece che avviare finalmente un chiarimento politico al vertice della Fig?c) E’ utile per noi italiani far parte di questo organismo non democratico che costa alla Fnsi – quindi alla tasche di tutti gli iscritti – circa 100 mila euro l’anno?d) Sono stati mai esaminati dalla Fig e dai suoi vertici gli omicidi di colleghi in Iran, in Cecenia, e in altre parti del mondo?e) E’ mai stata presa una posizione ufficiale su questi tragici avvenimenti?f) La Federazione internazionale è mai intervenuta sui giornalisti di quelle tv arabe che reclamano “la morte di tutti gli ebrei”?A nome di oltre 1.500 aderenti (giornalisti e lettori) vi chiediamo di prendere pubblicamente le distanze da una decisione vergognosa e inaccettabile dalla società civile. E di promuovere, contemporaneamente, un’indagine sull’intera attività della Federazione internazionale, con una commissione di cui faccia parte qualcuno degli amministratori di questo gruppo, sospendendo , nel frattempo, la partecipazione della FNSI alle attività della Federazione Internazionale. Vogliamo saperne di più, poiché funziona anche con i nostri soldi. Sergio Stimolo, Onofrio Pirrotta, Pierluigi Battista, Silvana Mazzocchi, Cinzia Romano, Mariagrazia Molinari, Gianni de Felice, Paola D'Amico, Nicola Vaglia, Enzo Biassoni, Paola Bottero, Luigi Monfredi , Antonio Satta, Maria Laura Rodotà, Stefania Podda, Marida Lombardo Pijola, Daniele Repetto, Dimitri Buffa, Emanuele Fiorilli, Antonella Donati, Paola Tavella, Anna Maria Guadagno, Monica Ricci Sargentini, Maria Teresa Meli, Giovanni Fasanella, Mirella Serri, Stefano Menichini, Marina Valensise, Gloria Tomassini, Franca Fossati, Mariella Regoli, Claudio Pagliara , Daniele Renzoni, Daniele Moro (seguono altre 1.500 firme)ROMA 22 luglio 2009

La risposta della FNSI è arrivata 4 giorni dopo sul sito dell’associazione
http://www.fnsi.it/Esterne/Pag_vedinews.asp?AKey=10100
Sarebbe solo sufficiente rilevare la diversità dei caratteri (quasi illeggibili quelli della lettera di protesta) per comprendere il fastidio della risposta (arrivata dopo che la casella e.mail della FNSI era stata inondata dai messaggi dei lettori indignati). La lettera del gruppo “NON IN MIO NOME” è prima apparsa, priva di commenti, sul sito FNSI e poi scomparsa, per ricomparire nuovamente nel pomeriggio di domenica 26, accompagnata dalla risposta con caratteri in grassetto del Presidente della FNSI, Roberto Natale.
Parlare della fiera del nulla, rispetto alle questioni poste dai richiedenti di “NON IN MIO NOME” può sembrare un eufemismo. L’impressione che se ne ricava è che si tratti di ben altro. E ciò che se ne ricava è una vergogna che non ci fa onore.
Solo la seguente semplice riflessione ci porterebbe a conclusioni di estrema gravità. Se - come afferma il Presidente della FNSI Roberto Natale - "L’uscita di Israele, naturalmente, non può essere ridotta a burocratica lettura dei libri contabili", due sono le cose: o c’è ben altro (antisemitismo della FNSI?) o c’è incoerenza. La prima ipotesi sarebbe gravissima, ma la seconda … altrettanto!
Per quale delle due ragioni, dunque, Serventi Longhi ha votato per l'esclusione della federazione israeliana?
Vito Schepisi

23 luglio 2009

Qualcosa di serio


Se c’è qualcosa dei vecchi partiti che andrebbe conservato questo è il regolamento delle assemblee e dei congressi. Il momento congressuale di un partito è tra i più importanti della sua storia ma anche il più delicato. Attraverso i congressi, infatti, si delineano gli assetti politici, le strategie, le alleanze, le ragioni dello stare insieme di una formazione politica.
Un partito si forma per qualcosa, per realizzare un modello di società, per far sviluppare una serie di iniziative nella vita civile e sociale del Paese. Una formazione politica propone una strategia in cui gli individui o le popolazioni possano meglio ritagliarsi gli spazi della propria soddisfazione.
Un partito, per definizione, rappresenta una parte più o meno vasta di popolazione che indica un modello di società e che privilegia una progetto di forme di rapporti tra cittadino e Stato. Più un partito incarna gli umori e la forza del sentimento comune e più si afferma attraverso l’espressione democratica del consenso.
Questo modo di regolare i rapporti tra stato e cittadino, questa facoltà di libertà associativa, di pluralismo delle idee e delle forme, di rispetto delle regole e delle leggi e di partecipazione alla vita politica si chiama democrazia. Per inciso andrebbe sempre ricordato che nella sostanza la democrazia è questa e niente altro.
Non esiste una dittatura democratica e neanche una dittatura dal basso del popolo del web (Grillo) che possa sostituire le regole di civiltà di una democrazia rappresentativa. E’ la democrazia dei partiti che, organizzata nelle sue diverse forme istituzionali, ha consentito nel mondo occidentale di far sviluppare condizioni di civiltà e di benessere diffuse tra le popolazioni. Ogni partito ha la sua storia, anche quelli che, di nuova formazione, assimilano culture ed origini diverse o integrano i valori essenziali dei più importanti comuni ideali per essere riferimento di un’area di proposta più vasta per il governo del Paese.
Il dibattito politico avrebbe dunque la funzione del confronto tra le diverse istanze sociali e le diverse prerogative dei valori che emergono dai bisogni della popolazione, dalla sua emotività ideale, dalla sua tradizione e memoria storica, dalla sua esigenza di crescita culturale, ed ancora dai rapporti economico-sociali tra il mondo della produzione e quello del lavoro e dagli impegni di natura finanziaria, fiscale, diplomatica e/o istituzionale dello Stato.
Non sempre, però, questo dibattito riesce a svilupparsi compiutamente. C’è una sorta di disconoscimento reciproco della legittimità di rappresentare il Paese. Il tatticismo finisce per coinvolgere un po’ tutti. Ci sono, inoltre, anche elementi estranei alla democrazia che si assumono il compito di ostacolare tutto: dal dialogo, alle riforme; dai provvedimenti legislativi, ai corretti rapporti istituzionali. Ci sono protagonisti che si intromettono nel dibattito interno di un partito, in modo invasivo e spesso mortificante, falsandone i contenuti e rendendo ancor più complesso il travaglio di una scelta ragionata.
Accade anche questo! Ed è la ragione per la quale i regolamenti delle assemblee e dei congressi, che hanno sempre stabilito le modalità per le iscrizioni e per le candidature ed i termini del tesseramento per la partecipazione attiva e passiva ai lavori congressuali, devono essere conservati. Qualcuno nel PD ha detto, giustamente, che un partito non è un tram o un taxi o un qualsiasi mezzo di trasporto. Un partito, e la sua conduzione, in tutta onestà, non può essere lasciato agli umori di avventurieri dell’ultima ora.
Questi uomini contro, protagonisti di politiche dai tratti sommari, estranei alla democrazia, si sono assunti la responsabilità di ostacolare quel proposito, che in certi momenti è sembrato condiviso, di rendere normale la vita politica del Paese. L’antipolitica, benché inserita nel sistema dei partiti, impedisce l’abbattimento dei vecchi steccati ed ostacola l’avvio di un corretto confronto tra maggioranza ed opposizione.
Se la mancanza di un leale rapporto democratico tra gli opposti schieramenti politici rappresenta un grosso ostacolo nel rendere, anche il nostro, un paese normale, la reazione dell’antipolitica fomenta forme di pericoloso dissenso. I toni e gli atteggiamenti dirompenti e le campagne di stampa diffamanti, benché prive di contenuti politici, ma miranti alla delegittimazione del Governo, invece suffragato dal consenso popolare, costituiscono un serio pericolo per la democrazia.
Dal Congresso del PD, pertanto, è doveroso aspettarsi qualcosa di serio: una strategia politica più visibile, più autonoma e meno confusa. Le comiche le abbiamo già viste!
Vito Schepisi su il legno storto

20 luglio 2009

Grillo ed il PD: niente nasce per caso

Una domanda, se viene posta, esige una risposta. Ed è giusto che sia così, se si discute lealmente di metodo, di democrazia e di rispetto delle opinioni di tutti. Non merita risposta solo la domanda posta in modo subdolo, quando non si chiede un’opinione, ma soltanto la semplificazione in un giudizio secco. Non merita risposta tutto ciò che è provocazione tendenziosa, come avviene con una domanda retorica, propedeutica ad un giudizio sommario.
L’interlocutore serio, dinanzi ad una domanda precisa, ha un solo modo per rifiutarsi di rispondere: dire con lealtà di non saper rispondere. In altri termini di non essere in grado di valutare la portata e l’implicita legittimità sostanziale delle motivazioni che sono alla base della scelta su cui si chiede una risposta.
E’capitato così di sentirmi chiedere in modo diretto: “Scusa, se fossi tu a dover decidere, accetteresti la candidatura di Grillo alla segreteria del PD?”.
Non è affatto una bella domanda! E’ una simpatica carognata di domanda, posta da chi mi conosce e sa che cosa penso di Grillo e di altri protagonisti dell’antipolitica. Ed è ancor più una furba carognata, se chi mi pone la domanda sa quanta delusione sia in me per la deriva populista e confusa presa dal PD, per il suo affanno nel correr dietro a Di Pietro, per la sua opposizione rozza e pregiudiziale e per la sua contiguità al mondo dell’antipolitica.
Sono tra coloro che sono rimasti delusi, dopo aver creduto - da avversario - ad un nuovo partito democratico e riformista della sinistra italiana, nel vedere il PD inseguire i toni dell’odio politico e nell’osservare la sua indifferente complicità al pericolo della violenza. E’ deludente veder rispolverare i vecchi metodi della demonizzazione dell’avversario e, persino, quelli dell’ insinuazione sulle sue precarie condizioni psichiche, nel tipico stile stalinista. Siamo alle solite, come col vecchio pci e come nella favola di Esopo, in cui la volpe che non arriva all’uva dice che è acerba.
La questione è tutta qui: questa sinistra non arriva ad elaborare un progetto politico coerente ed afferma che sia acerbo quello della maggioranza di centrodestra. Il Pd dovrebbe, invece, rendersi conto che il suo limite stia proprio nell’incapacità di elaborare proposte. Si ha l’impressione che sia persino difficile che si renda conto d’essersi salvato dal tracollo, nell’ultima tornata elettorale, grazie alle truppe corazzate dei poteri amici (magistratura ed editoria) che hanno montato scandali, di cui ancor oggi è difficile individuare i contorni.
“Grillo? Non sono fatti miei! Non sono in grado di rispondere - E’ stata questa la mia risposta a caldo – La questione se la sbrogli il PD e la sua dirigenza. Chi semina sciocchezze, raccoglie risate”.
Il PD sembra che sia stato creato apposta per vivere in confusione, come accade, ad esempio, per la scelta del gruppo del Parlamento europeo a cui aderire. Sono strani personaggi quelli del PD! Non sono capaci di darsi un’identità tra di loro, sopravvivono tra mille contraddizioni, ma parlano di alleanze strategiche con gli altri. Sostengono di non lasciarsi trascinare nell’antiberlusconismo, ma sono nel coro diretto da Di Pietro. Prendono persino “ordini” dall’ex poliziotto.
Grillo, in verità, non lo candiderei neanche a gareggiare nella trasmissione televisiva “La sai l’ultima?”, per la sensazione di viscido che emana il personaggio.
Grillo è inquietante, anche nella sua comicità, perché il suo modo d’essere comico appare avaro di umanità – sarà che da buon genovese l’avarizia gli sia congenita! E’ rozzo, razzista, spietato (ci sarà pure una ragione per vederlo legato a Di Pietro!). Il comico genovese è l’uomo che sostiene la fine della democrazia e che lancia, come modello politico, la dittatura del popolo del web … quello dei “k” e dei “x”, dei “copia - incolla” e delle ingiurie sparse come concime dell’odio.
La politica, al contrario, è pazienza, ragione, ispirazione, programmi, strategie, prospettive, responsabilità, coraggio ed impegno. La politica con la “P” maiuscola è confronto e democrazia, ma dal vero, non dall’anonimato del web. Se mancano questi requisiti, e nel PD sembra che manchino, perché meravigliarsi se un guitto voglia candidarsi alla sua segreteria, con la pretesa di colmarne il vuoto con la sua acquisita cultura virtuale? Cos’ha Grillo di diverso da un dirigente del PD? Da Franceschini, ad esempio?
Se non che il primo fa ridere per le battute, mentre l’altro per ciò che dice, sono demagoghi, illusori, vaghi, astiosi ed agitati, sia l’uno che l’altro.
Vito Schepisi su l'Occidentale

07 luglio 2009

Il dito, la luna e l'orrore


Sembra che l’abbia imparata a memoria e che la usi in ogni circostanza. La locuzione del guardare il dito che indica la luna, anziché la luna indicata dal dito, è una costante nell’oratoria sgangherata dell’ex pm più ignorante d’Italia. L’ha usata anche questa volta, benché rivolta contro Franceschini, suo alleato di fatto nelle astiose scorribande verbali contro tutti i provvedimenti della maggioranza.
Di Pietro appare come l’immagine stucchevole nella ridondante ripetitività di una contrapposizione politica pregiudiziale. Ed appare in tutta la sua banale e rozza evidenza il modo della ricerca dell’insensato scontro polemico di un ex PM piombato sulla scena politica per mettere a frutto quella popolarità ricavata dalla sua interpretazione giustizialista, sommaria, autoritaria e sbrigativa della moralizzazione della politica e della repressione del malcostume.
Di Pietro vive di effetti speciali, di urla, di sentimenti dirompenti, di minacce. Vive nello stesso modo di quando era poliziotto-magistrato e faceva tintinnare le manette. Ha bisogno di un nemico contro cui battersi, come un don Chisciotte coi mulini a vento. Ma i suoi nemici di sempre sono la ragione, il buon senso e la lingua italiana, che poi si accompagnano a quelli congeniti: l’umanità e la lealtà.
“Come al solito, Franceschini guarda al dito e non alla luna, criticando chi denuncia lo scandalo e non chi lo commette. Ce lo ricorderemo alle prossime regionali". Caldarola sul Giornale sostiene che sia la solita sceneggiata, un modo di sostenere le parti e che in definitiva i due, Franceschini e Di Pietro, siano speculari tra loro. Sarà anche così! Ma il PD dovrebbe avere uno spessore diverso, nasce dalla fusione di partiti che hanno cavalcato per anni la retorica antifascista e che, benché tra molte contraddizioni, rivengono da storie ben distinte da quella della rinascita fascista e del qualunquismo forcaiolo di un incolto come Di Pietro.
Un’intimidazione quella del leader dell’Idv che meriterebbe risposte ben più dignitose delle timidi prese di posizione di Franceschini e del PD. Il terribile poliziotto-magistrato, già raffigurato come il terribile saladino, barbaro senza morale, violento come un rapace, mette a segno un’ulteriore freccia del suo arco, scagliata contro la democrazia, contro le sue regole, contro i suoi principi, contro la sua etica istituzionale. Di Pietro è un uomo proteso ad occupare la scena dell’opposizione per farne una clava contro la democrazia e contro la civiltà del confronto. Un uomo che si dimena ogni qualvolta che sulla scena politica si affaccia la possibilità di convergenze, di dialogo politico nel Paese, di obiettivi comuni da raggiungere. Un uomo contro la democrazia, un uomo che spinge all’odio ed alla guerra civile.
Il suo voleva essere un aforisma che ponesse l’attenzione sull’incapacità degli altri di guardare alla sostanza, limitandosi ad osservare solo le forme. Ma è stato invece l’esatto contrario. E’ uno stereotipo del suo metodo di fare opposizione: molto attento agli effetti e poco invece ai contenuti. Più rumore che sostanza! Come i petardi dei fuochi di artificio!
Attaccare il Presidente della Repubblica, impegnato a ricercare il confronto civile tra maggioranza ed opposizione, attento osservatore delle regolarità formali, costituzionali e sostanziali delle leggi, è solo un rozzo tentativo di esasperare la polemica. Anche la difesa di Franceschini delle prerogative del Presidente Napolitano appaiono inadeguate, deboli e confuse. I modi di Di Pietro richiederebbero, più attenzione e richiami più rigorosi contro la deriva eversiva. Richiede un dito puntato contro l’orrore.
Osservare che il Presidente della Repubblica chieda interventi alla legge sulle intercettazioni telefoniche, perché non costituiscano ostacolo al cammino della giustizia, è azione degna di rispetto, perché attinente al ruolo del Capo dello Stato, garante della Costituzione, del rispetto delle leggi, della dignità dei cittadini, della loro privacy, della civiltà giuridica e della libertà d’informazione. Quest’ultima è, infatti, cosa ben diversa dalla spettacolarizzazione sui giornali della vita privata dei cittadini, è diversa dalla diffamazione e dall’uso di scorci di conversazioni ed istantanee di immagini, usate per la denigrazione dell’avversario politico.
Di Pietro si è montato la testa, aspira ad emergere dalle rovine di un’Italia demolita da una guerra civile, che istiga senza vergogna. Spinge per un’Italia immobile, senza riforme, ricca di gossip, inutile, rozza, incivile e violenta. Un’Italia dove anche un vincitore di concorso in magistratura, per somma di orrore, conti più della sovranità del popolo.

Vito Schepisi su l'Occidentale

03 luglio 2009

Congresso PD verso la “cosa 10”: la noia

Ma dove va il PD? Alcuni dicono al Congresso, ma altri già pensano sulla via dello sfascio. Sono in ordine sparso come capita di vedere quando c’è un vuoto di idee e si ritiene che tutto si risolva sostituendo i nomi e le cordate. “E’ tutto da rifare” come sosteneva il grande Bartali.
Ma chi frena il tentativo del PD di dotarsi di una linea, di aprirsi al confronto, di indicare una strategia di governo che possa con pazienza nei prossimi 4 anni diventare una vera alternativa politica?
C’è più di un responsabile, e ci sono tanti suggeritori di parole magiche, tante ricette e pozioni miracolose. L’ultima è quella di Bersani col ritorno al partito delle tessere ed alla partitocrazia, preceduta dall’astro calante, la Serracchiani, con il partito dei “simpatici”. Andiamo a capire, però, chi siano stati e chi sono i responsabili di questo ambiguo serraglio.
Il primo responsabile è stato Prodi che ha voluto un partito su misura per rafforzare la sua egemonia, nella gestione di un area di diversi, col collante della distribuzione capillare dei centri di sottopotere. I suoi motti sono stati:”la serietà al governo” e “tutti uniti si vince”. Di serietà se ne è vista poca, a meno che non si intendesse grigiore. Tutti uniti, senza una scelta per il Paese, ha solo fatto emergere la rabbia di chi chiedeva che si dessero risposte ad almeno tre esigenze: sicurezza, servizi efficienti e presenza dello Stato. Invece è stato il caos, e tutti insieme per niente è risultata per Prodi una strategia perdente.
Il PD che doveva diventare il fulcro dell’Unione, con il Professore al vertice a mediarne i conflitti, è stato trasformato da forza di spinta di tutta la sinistra, nel partito leggero di Veltroni.
Il secondo responsabile, dunque, è stato proprio Veltroni che, candidato senza veri concorrenti alle primarie, acclamato salvatore della nuova sinistra di stampo europeo e riformista, si è prima sbracciato nello sfidare Berlusconi a gareggiare senza i cespugli, e poi si è rimangiato il proposito e si è abbracciato con l’unico cespuglio di ortiche, quello del giustizialista Di Pietro. Il basta con l’antiberlusconismo e la disponibilità all’avvio del confronto sulle grandi riforme, già in campagna elettorale si è sfibrato, facendo riemergere la contrapposizione dura. E’ apparsa incomprensibile persino quella somma di stucchevole superbia nell’evitare di pronunciare il nome del suo concorrente. Crollato il no all’antiberlusconismo, è crollato subito dopo anche la disponibilità al confronto.
Il terzo responsabile è Franceschini che, invece di prendere atto che la strategia della contrapposizione pregiudiziale fosse un metodo sbagliato (su quella linea era caduto Veltroni incapace di comprendere il ruolo di un’opposizione costruttiva in un Paese che passava attraverso una crisi recessiva globale ), andava giù anche lui in modo pesante, sino a raggiungere volgarità sul Presidente del Consiglio, inedite per i vertici di un partito riveniente dalle tradizioni dei confronti serrati ma dignitosi del post comunismo e dei post popolari. Ed è sempre Franceschini, segretario a scadenza, che mentre sosteneva l’impraticabilità dell’alleanza con Di Pietro ne imitava la ferocia negli affondi contro il Governo. Un linguaggio da trivio ed un’opposizione intollerante su tutto, meno che sulle nomine, con toni da grande preoccupazione etico-sociale, benché la maggioranza confermasse in Parlamento i provvedimenti richiamati nel programma elettorale della coalizione Pdl-Lega su cui si era espresso il corpo elettorale.
Il quarto responsabile è sempre Franceschini che invece di stare al di sopra della parti, com’era nei propositi della sua segreteria a tempo, e di consentire una tregua di riflessione nel PD, per aprire il partito al dibattito precongressuale, perché lo si utilizzasse per esplorare il percorso di una vera competizione sulle idee e sulle strategie per i prossimi anni, ora gioca in proprio, e compete per conto di una fazione che reclama vendetta e che si contrappone all’altra che reclama altrettanta vendetta, fazione a sua volta sostenuta da Prodi che di vendetta ne reclama anche lui. E’il caos!
Il quinto responsabile (last but not least) è il gruppo editoriale che si è sostituito alla segreteria politica, riducendo il Partito Democratico alla stregua di un disabile a cui necessita una badante, con la sovvenzione (editoriale) a titolo di contributo all’accompagnamento.
E’ una nuova fase pirandelliana quella del PD da cui ancora una volta non emergerà un vero partito, ma ancora una “cosa”. Sarà l’ennesimo strumento sulla cui riedizione si è perso il conto. Sarà la cosa 10, la noia!
Vito Schepisi