29 settembre 2009

La Repubblica Islamica d'Italia

Farefuturo, la Fondazione che fa capo a Gianfranco Fini, si chiede se sia di destra o meno dare la cittadinanza ai cittadini stranieri dopo 5 anni, se mostrano di saper parlare la lingua italiana e/o tante altre cose ancora. Ma a chi interessa d’essere di destra o di sinistra ? A chi interessa il discorso alla Moretti di dire o fare qualcosa di destra o di sinistra? Per fortuna in Italia non si è proprio ai livelli degli intellettuali di sinistra. Sono tanti ancora gli italiani che pensano che la collocazione fine a se stessa sia solo un pregiudizio ideologico.
Sono altre le cose che interessano al Paese, che non quella d’impegnarsi in questa analisi di conoscenza del proprio sentimento politico di destra, ovvero di sinistra. C’è ben altro che il vezzo di assumere una posizione che sia meramente allineata alla propria collocazione di partito o alla sola geografia politica del proprio sentire.
Secondo alcuni studi, gli immigrati regolari in Italia sarebbero già ampiamente oltre i 4 milioni. Non sappiamo quanti siano poi i clandestini che sfuggono ai controlli. C’è chi prova a fare previsioni per gli anni futuri. La società di studi Nomisma ipotizza che per il 2050 gli stranieri regolari sul territorio nazionale sfioreranno gli 11 milioni superando il 17% di tutta la popolazione italiana. Ci sono anche calcoli diversi, però, e previsioni molto più catastrofiche. Tutti questi calcoli, però, non hanno niente di scientifico e peccano di permeabilità politica. Ciascuno li usa per giustificare le proprie convinzioni. La realtà è poi è sempre diversa, come accadeva con la pianificazione sovietica, quando a tavolino si programmava ciò che nella realtà era diverso.
La presenza dei clandestini, la continuità politica, le stesse aperture di Fini possono contribuire a far sortire esiti diversi ed a rendere incerta ogni previsione. Ma già nel pensarla come a Nomisma, con oltre 11 milioni di cittadini stranieri, con usi, tradizioni, fermenti religiosi diversi e qualche milione di clandestini per lo più reclutabili come manovalanza criminale e/o per penetrazioni terroristiche, farebbe pensare ad un paese in grande tensione sociale, con molti problemi di sicurezza, molta apprensione e molta paura. Si fa presto poi a dire che la colpa è di chi semina paura.
Colpa di che? E’ forse una colpa avere paura?
Attenendoci ai fatti, dai dati ufficiali risulta che la popolazione degli immigrati in Italia è passata, dal 2007 al 2008, dal 5,8% al 6,5%. E’ un più 0,7% rispetto al tutta la popolazione italiana, vale a dire 7% in più ogni dieci anni. Ma così in quarantadue anni, fino al 2050, i conti non sarebbero come quelli che prevede Nomisma! Sarebbe ipotizzabile un aumento pari a circa il 30% di tutta la popolazione italiana, e poi andrebbero sommati i clandestini e quelli regolari che già ci sono oggi. Con solo quattro conti si può calcolare quando il nostro paese non sarà più l’Italia che conosciamo. Solo quattro conti per stabilire quando la popolazione straniera supererà quella italiana. Sarà nel 2075? Anno più o anno meno, sarà questo il destino del nostro Paese? E’ questo ciò che, una parte politica, se prevarrà, ci riserverà come futuro? L’Italia cambierà il suo aspetto, cambieranno le abitudini delle nostre città, saranno disperse le nostre tradizioni, forse abbattuti i simboli della nostra cultura. Le nostre donne continueranno ad essere violentate ed offese per le strade e nel giudizio morale delle turbe di integralisti che predicheranno la sottomissione ed il velo islamico. La preghiera con il viso rivolto verso la Mecca non sarà solo una provocazione volgare lanciata dal Sagrato del Duomo di Milano ma si allargherà a quello di San Pietro, a San Marco a Venezia, a Piazza Statuto a Torino, a Piazza Plebiscito di Napoli ed in tutte le piazze italiane.
Il Vaticano verrà sfrattato e trasformato in un centro islamico e posto sotto la guida di un Mullah, capo spirituale e politico della Repubblica Islamica d’Italia.

Vito Schepisi

24 settembre 2009

Manovra leggera e Scudo Fiscale

La manovra leggera del Governo anche quest’anno risparmia agli italiani la confusione e lo spettacolo indecoroso della consueta manovra di bilancio di fine anno. Il merito è della Legge Finanziaria triennale dell’estate del 2008, valida sino al 2012. Un modo che si mostra efficace per essere riuscito a stoppare l’assalto delle lobbies ed a frenare gli interessi particolari di quei politici abituati ad adottare sistemi di consenso locale, legati a clientele e gruppi di potere economico.
Non meraviglia, pertanto, constatare che resta costante il consenso al Governo. L’esecutivo punta tutto sul metodo della concretezza e sul rispetto degli impegni presi con gli elettori. La fiducia sta dunque nella verifica della coerenza e del lavoro percepiti anche attraverso la chiarezza del nuovo metodo adottato per la legge di bilancio. Non più il dissennato ricorso alla spesa e migliaia di emendamenti a favore di un privilegio o di un altro. Non più sotterfugi che emergono nelle pieghe degli articolati di legge. Solo indirizzi chiari e responsabilità. Tremonti sta introducendo trasparenza nel settore dei conti dello Stato.
Le piccole rivoluzioni di metodo che abbattono le cattive abitudini avvicinano il Paese legale a quello reale. Un’esposizione chiara del fabbisogno finanziario riduce il potere dei gruppi di pressione e tranquillizza quei contribuenti che, lungi dall’essere felici di pagare le tasse, come fantasiosamente sosteneva Padoa Schioppa, ne comprendono l’esigenza per la collettività. L’insieme delle tante piccole spese aggiuntive, per lo più clientelari, finivano infatti con assorbire risorse a danno dell’efficienza complessiva della manovra finanziaria. I costi economici dei privilegi sono pagati con i soldi dei contribuenti e chi paga, sapendo dei privilegi di altri, non sempre comprende la funzione sociale della propria imposizione fiscale.
Una manovra leggera che non sposta sul fisco la ricerca di nuove risorse e che deve fare i conti con il debito pubblico e le indifferibili esigenze del suo contenimento. La questione è sempre nei soliti termini. Le richieste sono tante: rinnovi contrattuali, investimenti per servizi, infrastrutture, innovazione, incentivi, interventi di sostegno, spesa corrente, finanziamento delle missioni militari, impegni internazionali, interessi sul debito, spese di ricostruzione di aree coinvolte in disastri, fabbisogno degli Enti locali.
Un insieme che è difficile poter finanziare quando si è in crisi. La contrazione del gettito fiscale per il minor fatturato e per la minor base imponibile riduce infatti le risorse, mentre sarebbero necessarie maggiori disponibilità per fronteggiare la crisi e la più larga spesa sociale. Risorse che non è facile reperire senza ricorrere massicciamente a nuovo debito pubblico.
Le strade alternative al debito sono due, e solo due: ricorrere ai tagli della spesa o aumentare le entrate.
La seconda scelta sarebbe quella più facile, anche se la più controproducente. Sarebbe quella che viene adottata per cultura da un governo di sinistra. Di certo sarebbe la strada più miope e tendenzialmente la più involutiva. Ma dopo aver criticato il precedente governo di Prodi, per l’aumento della pressione fiscale, non sarebbe affatto intelligente rifare gli stessi errori, con il rischio di frenare ancora una volta il rilancio. La recessione, infatti, richiede coraggio imprenditoriale e spinte agli investimenti. L’aumento della pressione fiscale finirebbe per scoraggiare gli investimenti, rendendo poco appetibile il ricorso al rischio di impresa.
Niente tasse allora! L’alternativa sarebbero i tagli, ma la nota dolente è tutta qui. Nel Paese c’è una resistenza incredibile sostenuta dai media e dai beneficiari della fiera dell’effimero e del privilegio. Manca poco che Brunetta possa essere impiccato nella pubblica piazza, se parla degli sprechi nella pubblica amministrazione. Anche gli uomini di spettacolo, poverini, ce l’hanno con lui: senza finanziamenti corrono il rischio di dover lavorare o d’essere veramente bravi. La Gelmini è rappresentata come il Ministro che vuole i nostri figli ignoranti, quella che vuole tagliare la ricerca, che vuole ridurre il tempo pieno, che ha creato il disagio dei precari e far cassa sulla scuola. Abbiamo visto però che è l’esatto contrario. Le regioni reclamano tutti più soldi. La spesa sanitaria scoppia al sud. Tutti reclamano fondi per lo sviluppo.
Ma l'Italia ha invece bisogno di soldi per mantenere i suoi impegni, per far fronte alla spesa pubblica (800 miliardi di euro l’anno), per rilanciare gli investimenti e quindi far crescere il Pil e riassorbire il calo dell’occupazione. Servono risorse per uscire definitivamente dalla crisi.Servono risorse utili per uscire definitivamente dalla crisi.
Cosa si fa? La lotta all’evasione viene condotta con determinazione e con discreti successi, ma non basta!
Si calcola però che circa 60 o 70 miliardi di euro di soldi portati fuori dall’Italia possano rientrare nel Paese attraverso la persuasione collegata al cosiddetto “Scudo Fiscale”. E’ una misura adottata anche da altri paesi europei. La norma consentirebbe ai cittadini italiani che hanno costituito capitali all’estero di farli rientrare in Italia pagando un’imposta fissa del 5% sull’importo dei capitali rientrati. Ma si pensa che la facoltà non sarebbe utilizzata, perché il danaro esportato è generalmente frutto di margini di utili non dichiarati dalle imprese. Il titolare/amministratore dell’impresa che ha costituito i capitali, autodenunciandosi, sa bene che potrebbe essere accusato di falso in bilancio. La cosa per poter funzionare deve poter garantire il rientro senza conseguenze. Ed è a questo punto che si è riaperta la solita bagarre con l’opposizione che si rifà questa volta al “cartello di Medellin” (responsabili dei traffici di droga in Colombia) per denigrare il governo.
Questo moralismo, pur giusto eticamente, è sufficiente a farci rinunciare alle opportunità di ripresa? E’ sufficiente per costringere il ministro dell’economia a far ricorso alla crescita del debito pubblico?
Premesso che lo Scudo non è applicabile ai casi di accertamento già in corso, quanti evasori che hanno costituito capitali all’estero il fisco riuscirà a scovare? E quanti anni e spese serviranno per recuperare le somme evase? L’esperienza dimostra che sono molto pochi gli evasori scovati e che nel contenzioso fiscale che s’apre le spese sono superiore ai recuperi. In definitiva rinunciare sarebbe un ulteriore regalo agli evasori. La scelta razionale è quindi pensare al bene del Paese. Certi moralisti pensassero ai “farabutti” che hanno a casa loro.
Vito Schepisi su L'Occidentale

18 settembre 2009

Commozione ed ipocrisia

Le tragedie molto spesso sembra che siano un tutt’uno con il ricorso alla propaganda. La tentazione al moralismo si fa strada nelle coscienze più torbide. E se sono tragedie di morti per le nostre missioni di pace, se le vittime sono militari impegnati a difendere il diritto alla libertà di uomini e donne o a difendere il mondo intero dal pericolo del terrorismo, la tragedia si avvolge attorno al finto pacifismo ed all’orrore. L’infamia ed il pregiudizio non sono però meno vili della violenza e dell’odio ideologico.
L’11 settembre 2001 a New York, con i morti delle Twin Towers, ha rappresentato l’episodio culmine della pericolosità e dell’infamia del terrorismo. Ma c’è da ricordare che è stato interpretato da tanti - così tanti da non poter essere considerati tutti solo fuori di senno - come la giusta punizione ai simboli della supremazia e del potere economico che le stesse torri, che sembravano arrampicarsi verso il cielo, rappresentavano. Dinanzi a circa 3000 morti di civili innocenti il giudizio ideologico ha tranciato la sua sentenza di condanna che è suonata come responsabilità per le vittime e che ha assolto gli spietati assassini.
Sulla stessa tragedia si è innescata una pista negazionista del terrore islamico, attribuendo la responsabilità della catastrofe ai servizi segreti di USA e d’Israele.
Si nega di tutto al mondo, perché negare non costa niente e si cattura la fantasia di tanti utili idioti. In questa negazione, però, si può comprendere quanto sia cinica e spietata l’arte della strumentalizzazione di ogni tragedia. C’è una corsa alla visibilità, al distinguo, al pronunciare parole di cordoglio miste a critiche ed intuizioni diverse. Tutti buoni, tutti lungimiranti, tutti esperti militari, tutti virtuosi, tutti commossi, tutti pacifisti. Tutti per tutto, e di tutto ancora.
Dopo ogni dramma è così: c’è sempre chi moraleggia e si scopre stratega o pensa di poter indicare la strada giusta. La verità è che non esiste una strada giusta. Non c’è una “exit strategy” che possa apparire come la soluzione migliore. L’unica guerra vinta è sempre quella non fatta, ma non sempre si sceglie di combatterla una guerra, a volte la si subisce, altre non si può fare a meno di prevenirla anche attraverso azioni militari, come accade per la missione ONU in Afghanistan.
Ma i tempi sono cambiati e se una volta si diceva che la miglior difesa fosse l’attacco, oggi diventa difficile continuare a sostenerlo. La guerriglia e la presenza di un nemico invisibile, il terrorismo che colpisce tra la gente, tra i civili, inaspettatamente senza motivo, senza un effettivo pericolo ma solo per far morti, per spaventare il nemico, per spingerlo a desistere, per vendetta, per fanatismo religioso e per destabilizzare una quadro d’insieme, per impedire la normalizzazione e la svolta democratica del proprio Paese, sono tutti elementi nuovi che impediscono di dare un senso razionale alle cose. Si vive alla giornata, senza sapere se si sta vincendo o perdendo. Si vive sperando che il nuovo giorno spunti per tutti i ragazzi lontani dalle loro case e dai loro affetti.
Sembra che la morte serva a ricordare che la vita in certe realtà non conti niente e che sia invece la cultura della insostenibilità dell’esistenza a prevalere sui sentimenti, sugli affetti, sul pensiero, sugli animi, sui diritti, sulla libertà, sulle scelte di ciascuno, sulla vita degli esseri umani.
Chi può oggi dire con serenità se sia giusto che americani, tedeschi, italiani, francesi, inglesi, olandesi, polacchi, turchi, spagnoli, danesi, rumeni, norvegesi ed australiani, sotto l’egida dell’ONU, siano impegnati in questa difficile e pericolosa missione?
Le recenti elezioni hanno visto la conferma, con brogli elettorali, del discusso Karzai a Presidente dell’Afghanistan, ma è giusto lasciarlo da solo a difendere il Paese dall’imposizione della legge coranica dei Talebani? Ma, soprattutto, è giusto lasciare la popolazione afghana sola alle mercé della vendetta degli “studenti di Dio”, fanatici assertori del fondamentalismo islamico?
Qualcosa, però, bisognerà farla! Non si può continuare in attesa della prossima tragedia. L’Italia dovrà discuterne con gli altri paesi. Bisognerà cambiare strategia, coinvolgere altri paesi ancora, snidare i finanziatori del terrorismo, ammonire chi fornisce le armi e gli esplosivi. Ciò che non bisogna fare, però, è lasciarsi trasportare dalle ipocrisie di chi sfrutta il dolore e la commozione per avere più visibilità.
Vito Schepisi

12 settembre 2009

Fini fornisce all'opposizione le catene e le mazze

Ci sono alcune questioni che il centrodestra non può liquidare senza un confronto tra le diverse anime interne, senza un’analisi dei fenomeni, senza entrare nel merito delle proposte e senza respingere l’idea che possano apparire come se fossero diktat della Lega Nord.
Il Pdl più degli altri partner (Lega ed MPA) ha una sua responsabilità nei confronti di tutto il Paese: ha una sua posizione riportata nei documenti esposti sia in sede congressuale di costituzione del Pdl e sia, ancor prima e più vincolanti, esposti nelle linee programmatiche dei documenti elettorali siglati coi partner.
Ogni programma è un impegno con l’elettorato da rispettare. Guai a dimenticarselo! Ma un programma elettorale è anche un linea di orientamento da integrare con le proposte di tutti, perché la trasformazione in leggi ed in atti di governo sia il più possibile condivisa.
In una maggioranza il contenuto di questi atti deve essere visibile come un prodotto d’insieme e, come tale, difeso e sostenuto da tutti, anche dal Presidente della Camera nella sua veste di figura autorevole dello schieramento di centrodestra.
La valutazione dei contributi offerti, anche in Parlamento dall’opposizione, è un’ulteriore offerta di pluralismo e di metodo. L’importante non è varare comunque una legge, ma darne la forma e la sostanza giusta perché sia compatibile con le esigenze e con le risorse, perché sia civile, perché sia efficace. E’ anche importante nel confronto che si faccia attenzione a non consentire che si creino quei lacci con cui spesso si finisce con imprigionare il buon senso.
Se vale come principio generale di democrazia, tanto più ha la sua efficacia di metodo all’interno di una maggioranza. Se il Presidente Fini intende indicare questa necessità di pluralismo all’interno del Pdl può avere le sue ragioni, ma ha sbagliato i modi per farlo. L’ex leader AN si è esposto a valutazioni critiche, piuttosto diffuse persino tra coloro che gli sono stati sempre vicini. La sua successiva irritazione può essere comprensibile, ma non affatto pertinente e condivisibile.
E’ giusto sostenere che sia necessario il contributo di tutti i protagonisti politici della maggioranza per elaborare le iniziative e per concordare i passi da compiere perché soddisfino la strategia politica complessiva. Le ragioni della volontà di stare e decidere insieme è la ragione stessa di un’alleanza. E’ altresì giusto che ci sia la dovuta attenzione nel controllo degli eccessi degli alleati, perché la traduzione in norme esecutive non tracimi dagli argini di una strategia d’insieme.
All’origine di ogni alleanza si individua la presenza di un collante che unisce. E’ avvenuto anche per il PD laddove, contrariamente ai discorsi “stars and stripes” di Veltroni, il collante era e rimane l’antiberlusconismo. Il collante del centrodestra è l’insieme dei valori del moderatismo. Guardano al centrodestra coloro che ritengono che i sentimenti del riformismo democratico, dell’umanesimo liberale e del solidarismo cattolico, siano un riferimento importante per tutto il Paese. E questa visione di appartenenza ideale ha finito con essere riconosciuta anche da coloro che focalizzano istanze locali e che radicano la propria ragione politica nell’attenzione verso il proprio territorio d’azione. Ed è per questa ragione che Bossi e Berlusconi parlano di un patto di lealtà tra di loro.
Nel paese c’è un corto circuito che passa attraverso quattro direttrici: la sicurezza, l’immigrazione, la giustizia a cui si è aggiunto il gossip. In ciascuna si immettono gli affluenti dirompenti della polemica politica: fascismo, razzismo, mafia e moralismo. L’opposizione corre dietro allo scatenato Di Pietro ed usa questi strumenti per fomentare la rissa contro Berlusconi, invocando le “scosse” ed usando lo scontro per distogliere l’attenzione degli italiani dai successi del governo. E che fa il numero due del Pdl e della maggioranza? Fornisce all’opposizione le catene e le mazze?
Vito Schepisi

11 settembre 2009

Esiste un'offerta politica dell'opposzione?


E’ come la storia del mezzo bicchiere di acqua. C’è chi lo definisce mezzo vuoto e chi invece mezzo pieno. Gli italiani stanno tutti così. Tutti tra il mezzo incazzati ed il mezzo sereni. L’Italia è il Paese dei veleni a cascata, delle chiacchiere da bar, delle imboscate politiche ed economico-finanziarie, delle guerre editoriali, dei tradimenti e delle storie infinite.
Ci mancavano le belle di notte per completare il quadro di un Paese confuso.
Si potrebbe osservare che per fortuna c’è un Governo che va avanti e che non si lascia né intimidire e né coinvolgere in questa piena di ambiguo coinvolgimento della politica col malaffare e con le vagonate di fango, come emerge, ancora una volta, dopo la Campania e l’Abruzzo, anche in Puglia. Ma non basta! Non basta perché la politica ha bisogno di un quadro di rapporti leali, di una maggioranza che si apra al confronto, anche interno, ma che sia sostanzialmente coesa.
L’Italia ha bisogno anche di una opposizione che pungoli e prema, come in tutti i paesi di democrazia parlamentare, non di una interminabile rappresentazione teatrale, come avviene da noi. Ha bisogno di un Parlamento che non sia un votificio, in cui si dibattano e si completino le proposte, senza isterismi e voglie di rivalsa.
Il Paese ha bisogno di isolare i violenti, di smascherare i falsi ed i faziosi. L’Italia ha un grande bisogno di riforme vere: quelle che stabiliscano il passaggio verso una nuova scrittura della seconda parte della nostra Costituzione, fatta di poteri che non si sovrappongano, fatta di chiarezza dei ruoli, di responsabilità istituzionale, di una magistratura che sia l’espressione della maturità democratica del Paese, un potere giurisdizionale che sia impossibile per tutti manovrare e strumentalizzare.
Quando la lotta si fa dura, scendono in campo gli uomini duri. Ma quando la politica si fa molle, cosa scende in campo? Buttiglione? Ed è stato il post democristiano, archetipo della nuova generazione fornaia, benché vecchio volto noto del funambolismo trasformista che più di altri è sembrato gioire per il gossip, per la storia di Boffo per la confusione totale nel dibattito interno del PD, per le uscite di Fini, per i contrasti tra i cattolici ed il Pdl. Gioisce anche per la presenza di una cortina di fumo che impedisce di soffermarsi sulle ambiguità dell’Udc e dei suoi uomini. Gioisce perché a parlar di escort e di abusi si finisce per dimenticarsi di altri casini.
Dovrebbero suscitare interesse le osservazioni di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, quando sostiene che ci sia una crisi profonda del PD, tanto da fargli scrivere che “La lotta precongressuale è stata aspra ma ciò non è servito a guarire la malat­tia di quel partito: la scar­sa credibilità della sua «offerta politica» com­plessiva, l'assenza di un insieme di idee e di pro­poste potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si so­no tenuti alla larga dal Partito democratico.”
Un dubbio, lo stesso che molti hanno avuto sin dal primo momento, si ripropone sul valore politico e strategico di una’alleanza che ha visto unirsi in un solo partito i post comunisti ed i post democristiani. Questo PD che non riesce ancora a livello europeo a chiarire la sua collocazione politica e che induce a pensare in Italia che molti vecchi ex e post democristiani si accingano a dover morir socialisti.
Una proposta politica che adotti l’unica strategia di aspettare la caduta del Cavaliere, anzi di provar di tutto per fomentarla, può trovare compagni di strada in Cesa, Buttiglione e Casini, ma non ha prospettive. Non c’è nel PD nessuna cultura del fare, nessuna idea da proporre, nessuna prospettiva e nessuna ragione di unire. Come così dar torto a Panebianco quando sostiene che questo Partito non sia in grado di “costruire un’offerta politica senza suscitare dirompenti conflitti interni”?
Vito Schepisi

10 settembre 2009

Segreto istruttorio e deontologia professionale

Nel pomeriggio di ieri Il sostituto procuratore Giuseppe Scelsi, che a Bari indaga su escort e coca, si è presentato con due finanzieri presso la sede barese del Corriere del Mezzogiorno (inserto locale del Corriere della Sera) ma, come accade per tutti i casi simili, è tornato a mani vuote. La finalità era quella di "giungere all'individuazione del pubblico ufficiale che si è reso responsabile delle violazione dell'articolo 326 del codice penale relativo al segreto istruttorio".
Il Corriere della Sera, nella stessa giornata di ieri aveva diffuso il contenuto dei verbali dell’interrogatorio di Tarantini. L’imprenditore barese aveva parlato di feste, di escort e di droga, aveva fatto nomi, aveva fornito particolari e riferito circostanze. Un verbale articolato con il quale l’uomo chiave della “escortopoli” pugliese, a cui si collegano le questioni della sanità e quelle dei discutibili casi di abusi e di arroganza di alcuni assessori della Giunta regionale, aveva fornito ai PM riscontri a fatti e circostanze accertate attraverso intercettazioni telefoniche ed altre testimonianze.
Il magistrato non è riuscito a risalire ai nomi dei soggetti che avevano fornito le copie degli atti alla redazione del giornale. Il Dr Scelsi, come in tutti i casi del genere, ha ricevuto il rifiuto a rivelare le fonti delle informazioni. Le leggi vanno applicate e la violazione del segreto istruttorio è un reato, ma dall’altra parte i giornali hanno invece il diritto di pubblicare le notizie che ricevono, senza il dovere di rivelarne le fonti. Sembra un po' il gatto che si morde la coda!
Intorno a questa questione va avanti da anni un confronto serrato. A volte uno scontro senza esclusioni di colpi. Di Pietro, e quando si parla di incoerenza l’ex PM non può mancare, in una trasmissione di Vespa, "Porta a Porta", esternando un pensiero che sembra essere comune ad alcuni PM, colto dai suoi tipici scatti verbali con cui spesso esterna la sua ferocia, quando rimpiccolisce gli occhi e distrugge le parole, la consecutio temporum, la costruzione dei periodi, i congiuntivi, sbottò sostenendo un concetto che serve a chiarire la presenza di un preciso indirizzo di pensiero. In sintesi l’ex poliziotto ed ex PM affermò che doveva essere più importante sputtanare il colpevole che andar dietro a chi lo sputtana. Il colpevole! Alcuni PM (per fortuna non tutti) considerano "colpevole" l'indagato sin dalla fase istruttoria e si sentono come fustigatori dei costumi, come tanti infallibili Torquemada o, nel caso di Di Pietro, … un intrepido giustiziere della notte
In una fase politica di estrema tensione anche sui principi stessi dell’informazione, sul suo pluralismo e sul suo equilibrio; in una fase in cui per pretestuosa strumentalizzazione politica si parla di "vulnus" alla libertà di stampa, e si indica come responsabili di questa ferita un giornale ed il suo direttore, per aver pubblicato una notizia di squallore privato sull’ex direttore del giornale dei Vescovi, ed il Presidente del Consiglio, per aver citato in giudizio per danni alcune testate giornalistiche intervenute a gamba tesa nella sua vita privata, diviene persino difficile sostenere una tesi restrittiva sulla libertà d’informazione.
Si osserva, però, che la deontologia professionale, per la stampa, non può che essere un insieme di norme di correttezza che deve comprendere anche il sostegno al lavoro di quelle funzioni dello Stato preposte all’istruttoria delle indagini di magistratura e polizia giudiziaria. Ci sono funzioni che devono essere ritenute necessarie per garantire e sostenere la legalità e la difesa del diritto nell’interesse di tutti i cittadini italiani. Sarebbe così una giusta interpretazione deontologica quella che dovrebbe indurre la stampa ad evitare di pubblicare gli atti relativi alle fasi giudiziarie sottoposte a segreto istruttorio.
Inserire questo comportamento nelle regole di deontologia professionale per l’Ordine dei Giornalisti non sarebbe affatto una limitazione della libertà d’informazione, quanto invece un accrescimento del diritto di tutti. Sarebbe il doveroso rispetto verso il lavoro di indagine giudiziaria che la Costituzione assegna all’Ordinamento giurisdizionale. Forse un primo passo verso un Paese normale.
Vito Schepisi

09 settembre 2009

La Puglia non ha bisogno di Vendola

La questione della Sanità pugliese ha tutto l’aspetto di uno scandalo annunciato. La storia di un Assessore alla Sanità con interessi familiari nel campo delle forniture delle protesi sanitarie era un fatto conosciuto da tutti in Puglia.
Tutti sapevano, ma se la voce del popolo, priva di atti concreti, non ha da sola valore probante c’è da dire che non c’era solo la voce del popolo. La pistola fumante era ben radicata negli atti dell’Istituto regionale, quando sia la maggioranza che l’opposizione, in più occasioni, avevano fatto emergere il pericolo del possibile conflitto di interessi.
Il Presidente della Regione, però, ha fatto di tutto, per tenere in piedi la sua baracca. Si è persino speso per ribadire la fiducia a tutti gli uomini della sua Giunta. Tutto! Meno che prendere atto di ciò che accedeva. Si è comportato come uno struzzo con la testa nella sabbia.
Per la sanità in Puglia si è costituito un intreccio di interessi e di prevaricazioni. I media oramai parlano di “cupola” e la Procura di Bari paventa ipotesi di reato gravissimi. Sono emersi episodi di corruzione e di gestione clientelare.
I danni economici per i pugliesi sono enormi. C’è un buco economico nella gestione che supera il miliardo di Euro. I pugliesi di converso pagano addizionali irpef regionali al massimo ed i ticket sono richiesti anche per patologie gravi ed invalidanti, benché in agosto sia stato approvato un decreto che garantisce l’esenzione agli immigrati irregolari.
Al filone sanità si collegano altri abusi da cui emergono sintomi di arrogante gestione. Sono state usate donne in carriera, escort e mamme bisognose di lavoro come merce scambio per favori, per appalti e per il tipico esercizio autoritario di chi intende il mandato politico come una licenza di prevaricazione e di reiterato ricorso ai propri interessi personali.
Si è coinvolto l’Ente in pratiche di squallido maschilismo, svilendo le funzioni amministrative della Regione all’edonismo più bieco e più vile.
Tutto questo non può non avere un limite nella responsabilità di chi ha avuto il mandato popolare di guidare l’Amministrazione Regionale. E questo limite sembra ampiamente superato. Sono 4 anni e mezzo che il Presidente Vendola si è mostrato interessato più ai 40.000 voti sul territorio di Bari, attribuiti a Tedesco, che agli interessi dei pugliesi, senza che mai gli sia balzata la curiosità di capire e spiegarsi l’origine di quel serbatoio di voti. Il Governatore pugliese, al contrario, si è cimentato a diffondere prediche sulla moralità degli altri. Ha vantato per se esempi di virtù e di profonda tensione morale. Ha diffuso parole di trasparenza e di sostegno alla gente nel bisogno. Ha invocato il bisturi per tagliare la corruzione e per estirpare ogni male. Un Giano bifronte confuso dalle sue stesse due facce.
E’ ora, però, che tragga le sue conclusioni e si dimetta, invece di pensare d’inventarsi nuovi percorsi politici, rispolverando formule trasformiste ed invocando le tradizioni pugliesi di laboratorio politico.
La Puglia avrebbe bisogno di uomini concreti che facciano precedere i comportamenti adeguati alle fantasie parolaie. Ha bisogno di razionalizzare le risorse economiche per l’integrazione del suo territorio. Ha bisogno di rilancio produttivo e di impulso all’artigianato, all’agricoltura ed alle produzioni tipiche.
La Puglia ha bisogno di una politica del turismo intelligente. Ha bisogno di investire, più che nelle spese improduttive e nei costi elefantiaci di gestione, nello sviluppo, nel terziario, nella valorizzazione della sua cultura e della sua storia, nel restauro e nella conservazione dei suoi insediamenti artistici, nei suoi borghi, nei tipici percorsi urbani di una cultura antica ma viva, nella valorizzazione dei doni ricevuti dalla natura fatti di angoli di bellezza unica ed inimitabile.
La Puglia ha bisogno di investire nei servizi.
Non ha bisogno del primato per il governatore più pagato d’Italia, ma di uomini diversi dagli abili e retorici cucitori di abiti politici ormai in disuso.
La Puglia non ha bisogno di Vendola.
Vito Schepisi

08 settembre 2009

Il potere delle banche


Quando di mezzo c’è Tremonti, e si parla di banche, sono sempre scintille. Il ministro dell’Economia non è uno che di solito le manda a dire. Le dice! In Italia c’è stato da sempre uno strapotere delle banche ed un comportamento supino dei governi e della politica. “Non ha senso che le banche siano più grandi dei governi stessi” - sostiene Tremonti che sembra interessato ad invertire questa tendenza - “le banche devono essere al servizio della gente, non la gente al servizio delle banche”.
Ed in modo diretto, il Ministro subito dopo sostiene che non debba essere il governo a sottostare alle pressioni del sistema bancario, ma queste ultime, invece, ad agire in funzione delle imprese ed a sostenere le politiche di sviluppo dell’economia “tanto che poi quando hanno problemi questi diventano anche problemi dei governi." L’allusione è sia alla recente crisi che poteva mettere in ginocchio il sistema finanziario globale e sia alla sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Una preoccupazione, la prima, che nella crisi in atto per fortuna in Italia è stata scongiurata, un po’ per la politica prudente delle banche italiane ed un po’ per la diffidenza dei risparmiatori (poco propensi ad acquistare prodotti finanziari che non conoscono e che non riescono a comprendere), ma che per la seconda conseguenza (sottocapitalizzazione) ha invece colpito la parte più debole del sistema, le piccole banche: senza far vittime, ma riducendo la loro potenzialità a finanziare le piccole imprese locali.
"La tendenza delle banche è a fare intermediazione, cioè prendere soldi a zero e impiegarli. Sono capaci anche i bambini a fare le trimestrali così''. Una vera frustata al sistema, dopo che Passera (Intesa) aveva sostenuto che le banche fanno da sole, criticando la misura dei tassi dei Tremonti-Bond, messi a disposizione proprio per le banche in difficoltà patrimoniale.
Il Ministro dell’Economia ha puntualizzato al G20 finanziario di Londra che quei fondi sono stati messi per le imprese, e su richiesta delle banche, e che non costituiscono strumenti di debito, ma patrimonio e capitale di rischio. E poi la stoccata: "Una banca non è un’industria qualunque, che fa scarpe o vasche da bagno, ma ha una funzione pubblica", ricordando che quella delle banche è la funzione di sostegno all’economia del Paese, alle industrie e di converso alla difesa dell’occupazione ed alla stabilizzazione dei consumi.
La banca è un’attività imprenditoriale come tante altre, ma a differenza delle altre, ha una propria funzione sociale, agisce da volano per l’economia, è un sostegno agli investimenti, rende possibili i cicli produttivi delle imprese attraverso il finanziamento delle spese correnti e/o l’anticipo dei ricavi.
Come una qualsiasi impresa commerciale, anche la banca mira a realizzare utili, a rafforzare il suo patrimonio, a svilupparsi, ad incassare i suoi crediti ed ad onorare i suoi debiti. Fa impresa e la fa attraverso la più tipica azione di mercato: compra ad un prezzo per vendere ad un altro, maggiorato a seconda degli indici stabiliti dalle autorità monetarie europee, con uno spread più o meno largo a seconda delle garanzie acquisite, della qualità del cliente e del suo potere contrattuale.
Ma cosa compra una banca? Cosa mette in magazzino? Compra il danaro dei risparmiatori e lo fa in condizioni di suo esclusivo interesse, spesso imponendo le sue condizioni, tanto che la sostanziale uniformità della remunerazione della raccolta, da uno Sportello all’altro, fa spesso pensare alla costituzione di cartelli che di fatto rendono meno efficace la concorrenza.
Il denaro comprato percorre il suo ciclo di trasformazione per essere venduto confezionato nelle sue varie forme e per le diverse richieste. Ma il potere di decidere rimane sempre alla banche. Queste ultime, attraverso l’offerta di strumenti finanziari alternativi, spesso si toglie anche il fastidio di destinarlo alle aziende ed alle famiglie, ma lo colloca in immobilizzazioni finanziarie più o meno rischiose per i risparmiatori, lucrando commissioni e superando così anche il rischio di impresa.
E’ un sistema quello della banche che stabilisce da solo quando aprire l’ombrello o chiuderlo. E’ un potere spesso sordo alle questioni sociali, indifferente alle crisi, all’occupazione, al territorio, al sostegno alle piccole imprese, all’agricoltura, all’artigianato.
Ma se non è pensabile una guida di Stato al sistema bancario, una cultura diversa si. E se questa cultura è difficile acquisirla, è anche possibile pensare di scrivere regole diverse.
Vito Schepisi

01 settembre 2009

L'Ipocrisia è un "Abito del Male"


Non sono un credente, ma se lo fossi non sarei un buon cattolico. Non potrei sopportare una Chiesa che distoglie lo sguardo dai tanti episodi di pedofilia, di omosessualità, di deviazioni sessuali, alcune anche violente, e persino di antisemitismo negazionista, da parte di uomini vestiti con abito talare.
Ed a proposito di abiti, tra gli “abiti del male” di Aristotele ve ne sono alcuni che andrebbero rimossi dal guardaroba del vizio. Sono così cambiati i tempi!
Altri invece meriterebbero di entrarci e sarebbero degni di una severa attenzione dei predicatori del Bene. Non sto qua però a citare i vizi capitali da rimuovere, perché obsoleti e superati dai costumi . Non è questo il momento e lo spazio, ma un vizio da promuovere nell’elenco dei peccati capitali l’avrei. E’ l’ipocrisia.
Ora se questo vizio si limitasse solo ai comportamenti profani, nei rapporti comuni di ogni giorno, per l’egoismo, l’edonismo, la cattiveria e la miseria degli uomini, ci starebbe. Passerebbe come i tanti comportamenti meschini del genere umano. Ma come, invece, poterlo comprendere nelle gerarchie cattoliche, tra coloro che sono sintesi di un linguaggio morale, mutuato dai principi della sacralità e dall’insegnamento della parola di Dio?
Non è una notizia quella di uomini della Chiesa che brillano per ipocrisia. Nelle prediche, sui giornali, nei retorici sermoni, sono sempre pronti a gettare, come si dice, la Croce sui mali del mondo, ma sono sempre pronti a ritrarla dalle contraddizioni che, benché avvolte dalla nebbia dei molti misteri, lasciano trapelare episodi e circostanze che indicano un razzolare quanto meno problematico, se non del tutto censurabile.
Anche l’ostentazione sfarzosa, le pratiche finanziarie, la gestioni di tesori e ricchezze, i tanti episodi di opacità anche nei lasciti dei fedeli, ma anche la pedofilia e l’omosessualità molesta e gli isterismi di ogni personalità incerta, mostrano quell’aspetto così terreno e prosaico, da oscurare il messaggio di quel Bene che ci si aspetta dai testimoni, per vocazione, della tradizione religiosa e cristiana.
Restiamo in argomento, però! Apprezziamo il messaggio di cultura e di tradizioni che la Chiesa ha saputo trainare nella società civile e che, in particolare nel mondo occidentale, è ancora orientato alla difesa della vita, all’ordine etico dei comportamenti, alla solidarietà tra gli uomini ed alla pace tra i popoli.
Vorremmo che la Chiesa continui ad avere gli strumenti e la forza morale per imprimere ancora l’impronta della civiltà cristiana, per perpetuare quella rivoluzione di arte, di cultura e di umanesimo che ha fatto dire a Benedetto Croce che “Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta”. Vorremmo che sia ancora così nel futuro e che il cristianesimo abbracci credenti e non credenti in un comune sentire di bene, di umanità e di fratellanza.
Vorremmo ancora che quello della Chiesa di Cristo sia un messaggio “urbi et orbi”, lontano dal particolare, diretto agli umani del mondo, privo di riferimenti nazionali, perché il Vaticano sia davvero uno Stato del mondo: l’unico, il solo dotato del privilegio di una sovranazionalità garantita dalla sua neutralità temporale.
Nel terzo millennio in cui la rivoluzione dei modi, delle coscienze, delle responsabilità e delle conoscenze impone le sue regole progressive, le sue geometrie terrene ed i suoi bisogni, e rivoluziona anche l’identità etica degli uomini, l’ipocrisia appare e fa strage anche del sentire spirituale degli individui inducendoli a privilegiare il materialismo, anziché lo spiritualismo come valore etico di riferimento.
E per essere attuali, delle due l’una! Se la pratica dell’omosessualità, ad esempio, è considerata dalla Chiesa come un atto “intrinsecamente disordinato” mentre, sempre per la Chiesa, l’omosessuale dovrebbe astenersi dalla pratica per non incorrere in peccato, può un peccatore assumere un ruolo importante non solo nella gerarchia ecclesiale ma anche nella organizzazione, benché laica, della diffusione di messaggi di fede e di giudizi morali?
Senza ipocrisia, quella dell’omosessuale molesto che dirige il quotidiano delle gerarchie periferiche della Chiesa è una notizia così simile a quella che le scuole di giornalismo indicano come “una notizia” per antonomasia, e cioè quella del padrone che morde il suo cane.
Vito Schepisi su Il legno storto