21 giugno 2011

La sinistra è in confusione

Tra D’Alema e Vendola i rapporti negli ultimi due anni sono stati molto tesi. C’è una pace armata tra i due, ma il colpo, da una parte e dall’altra, è sempre in canna. D’Alema vede in Vendola l’ostacolo alla sua leadership in Puglia. Già segretario regionale dirottato dal centralismo democratico del pci, D’alema sul territorio pugliese ci ha messo la bandierina sin dal 1994, ai tempi delle linguine alle cozze consumate a Gallipoli con Rocco Buttiglione, durante uno dei tanti salti della quaglia dei due. Il velista ora attribuisce al leader di Sinistra, Ecologia e Libertà la responsabilità di aver spento i riflettori sul suo laboratorio pugliese col quale si proponeva di sconvolgere gli equilibri della politica nazionale.
Vendola è un politico esibizionista. E’ uomo dagli effetti speciali, abile ad occupare il palcoscenico. La sua sfacciata smania di apparire e il suo linguaggio mordente e aggressivo gli valgono nell’immaginario collettivo l’accostamento al popolano Masaniello che, verso la metà del seicento, per i continui aumenti della gabelle, fino a rendere difficile la vita quotidiana, si mise a capo della rivolta degli stremati napoletani contro il dominio spagnolo.
In un passaggio economico-politico di difficoltà oggettiva, per una crisi di rilevanza internazionale che ha lasciato strascichi che si fanno sentire sulla produzione industriale e sulla crescita, e che in Italia incide sui giovani e sull’occupazione, Vendola si mostra più abile degli altri ad attrarre su di se i riflettori del palcoscenico politico, lasciando agli altri, e allo skipper coi baffi, solo la presenza nei titoli di coda.
Cavalcare la pantera del malcontento, del resto, è stata sempre l’arma vincente della sinistra. Vendola lo sa fare molto bene. L’ha fatto anche in Puglia nel 2005 con i tagli alla sanità. La sinistra riesce sempre a vendere molto bene la sua opposizione, ma quando le è capitato di andare al governo e di trovarsi a rispondere in proprio ha poi mostrato quando non sia oggettivamente facile fare le scelte, soprattutto quando i bisogni sono tanti e le risorse poche. Vendere illusioni è un’arte. Una volta, ad esempio, dicevano che ad est, oltre la cortina di ferro dei due blocchi, c’era il Paradiso. Le illusioni, però, sono un po’ come i sogni e finiscono sempre allo stesso modo: aprendo gli occhi.
D’Alema, invece, è un vendicativo, non è uomo che se le lascia passare, e quando gli montano i fumi dell’ira diventa come un fiume in piena e strabocca. E’ un risvolto del suo carattere che lo rende più umano, dissolvendo quel grigiore severo che spesso lo fa apparire come una macchina da calcolo. In un’intervista, infatti, ha appena sostenuto che Vendola sia inadatto a governare, mentre Bersani “ha più stile”.
Ma oltre al fastidio procurato da Vendola, sempre pronto a occupare la scena, trascurando, invece, la realtà pugliese in cui la confusione regna ancor più sovrana, se c’è qualcosa che fa andare in fibrillazione il PD è il farsi tirare la giacchetta dagli alleati. Bersani come D’Alema, sono uomini di apparato, sono cresciuti tra i protagonisti della vecchia guardia di quel Pci che non ha mai tollerato nemici a sinistra. E Vendola, diciamolo chiaro, è fastidioso. Il governatore pugliese è uno che si mette sempre alle costole, tallona e preme di continuo con quella sua richiesta, a ogni piè sospinto, delle primarie per scegliere, sin da ora, il candidato della sinistra alle prossime politiche. Ed è su questa sua petulanza che D’Alema nell’intervista con Luca Sofri ha sfoderato l’arma e fatto fuoco su Niki, definendolo inadatto.
Le elezioni, salvo le novità che fanno sognare Bersani, saranno nel 2013. Mancano due anni e non è stato ancora sciolto nessun nodo politico a sinistra. Si discute ancora, ad esempio, se debba stringersi o meno un accordo con il terzo polo, con Fini e Casini in particolare. E questi pongono condizioni e limiti. A conti fatti, se ci saranno gli uni, non dovrebbero esserci gli altri, ma il condizionale è d’obbligo. In Italia, tra i politici, sono un po’ tutti Buttiglione.
L’immagine del PD non è molto fluida, e non c’è grande concordia. Bersani e compagni fanno anche finta di ignorare che non è stato il PD a vincere le recenti amministrative, ma i candidati che si sono opposti ai loro uomini, a Napoli, come a Milano. Il PD ha perso terreno un po’ dappertutto e fa fatica a mantenere le soglie minime delle sue percentuali di consenso. Vincono più i candidati di rottura che quelli di una sinistra riformista e moderata. Per dirla con chiarezza, vince più la sinistra che il centrosinistra. E’ evidente che l’aver assecondato il partito della rottura e della chiusura al dialogo e alle riforme, non paga all’immagine di un partito che vorrebbe essere moderato e riformista. Alla fine gli elettori di sinistra hanno preferito gli originali ai cerchiobottisti.
Non è stata una bella scena quella offerta dal balbettante Bersani, accusato e rimproverato da Vendola di rincorrere la Lega per far cadere Berlusconi. Il segretario del PD è apparso impacciato e nervoso dinanzi allo spavaldo Masaniello del ventunesimo secolo che lo bacchettava come uno scolaro che non si era comportato bene e che non aveva svolto con diligenza i suoi compiti. Bersani dà spesso l’impressione di non sapere mai a chi santo votarsi e da qualche tempo si rende persino ridicolo con quella sua continua attività di svolgersi e rimboccarsi le maniche.
Anche Veltroni chiude a Vendola. La sinistra in verità è in confusione. Di Pietro è arrivato a proporre l’improponibile: ha riesumato Prodi come candidato della sinistra. Della serie non c’è due senza tre o, per chi la preferisce più truce, della serie … ritornano. Le opposizioni sono disunite su tutto: programmi, alleanze, pregiudiziali sugli uni e sugli altri, strategie, candidati. Resta solo il solito collante: quello dell’unione di tutti contro Berlusconi. Ma se tutti per uno può andar bene, la difficoltà è nel trovare quell’uno per tutti e, soprattutto, nello stabilire per cosa.
La scelta a sinistra sembra così sempre più un’avventura e il centrodestra, per recuperare spazio e fiducia, non avrebbe che da farlo capire agli elettori.
Vito Schepisi

09 giugno 2011

Non votare è una legittima scelta

Dopo il disastro di Fukushima la partita sulla scelta per il futuro produttivo del nostro Paese è diventata non più giocabile, tanta è la condizione di disparità tra le squadre. E’ come se in una partita di calcio l’arbitro espellesse d’un colpo la metà dei giocatori di una delle due squadre e, contemporaneamente, come se, dinanzi a precipitazioni alluvionali, tali da rendere impraticabile il campo, la partita non soltanto non fosse sospesa, ma vedesse l’arbitro e i guardalinee fare il tifo per una delle due squadre incitandola ad approfittare della superiorità numerica.
Ciascuno può trovare gli aggettivi che vuole, ma la sostanza è questa. E’ una gara truccata in cui non c’è competizione. C’è solo chi è impegnato a portare a termine una partita che è già compromessa per il risultato, per poter usare il risultato contro qualcuno, ovvero per sfruttarlo come un successo politico. E poco importa se sia usato anche contro il Paese e le future generazioni.
Il referendum in Italia è abrogativo. L’art. 75 della Costituzione prevede che sia usato per abrogare una legge. Ma la legge da abrogare non esiste più. E’ stata già abrogata e sostituita con un richiamo alla riflessione su tutte le possibili fonti di energia da utilizzare per il futuro. Per interpretazione della Cassazione ora si vuole abrogare anche la riflessione. Siamo ad un passo in cui ci sarà qualcuno che chiederà di abrogare persino il pensiero.
Gli italiani si lamentano dell’opacità delle nostre leggi, ma se la trasparenza è sconvolta per inseguire battaglie politiche, come si potrà mai far comprendere a tutti le ragioni degli impegni che si prendono? Come le motivazioni dei sacrifici, quando sono richiesti? Come il rispetto delle opinioni di chi la pensa diversamente o di chi fa altre scelte di vita? Come poter sostenere che il pluralismo sia un pilastro della democrazia? Come poter chiedere sempre e in ogni circostanza il massimo rispetto per le istituzioni e per chi le rappresenta?
E’ il caso di ricordare sommessamente anche al Presidente della Repubblica, ad esempio, che l’art.75 della Costituzione fa espresso riferimento al quorum da raggiungere per ritenere valido un referendum, tanto da lasciar supporre che sia validissima l’interpretazione di chi intende che sia una legittima scelta anche quella di non andare a votare. Sarebbe bene che oltre al Presidente Napolitano se lo ricordasse anche, benché faccia meno testo, conoscendone l’accentuato impegno politico di parte, il Presidente della Camera Fini.
L’autorevolezza del Paese e quella delle sue Istituzioni sono da salvaguardare, ma le perplessità, quando ci sono, non si possono sottacere. E’ legittimo, sempre con il dovuto rispetto dei ruoli, anche il richiamo a un’interpretazione diversa di autorevolezza e terzietà. C’è, infatti, chi in Italia resta perplesso e sgomento quando Istituzioni e funzioni dello Stato invadono altri campi e si schierano da una parte, come in tante circostanze è capitato di dover osservare.
Anche il non andare a votare è pertanto una scelta, e c’è chi intende farla propria dinanzi ai contorcimenti, agli imbrogli, alle mercificazioni, e all’uso improprio e furbesco di un istituto della democrazia. Il non voto può e deve risultare come una legittima protesta contro l’utilizzo delle istituzioni a guisa di ulteriore strumento di turbamento politico.
Dopo il disastro di Fukushima, Il Presidente degli USA Barack Obama, osannato in Italia come l’interprete più verace e pragmatico della più grande democrazia del mondo, ha detto: “nonostante ci sia bisogno di maggiore controllo, il nucleare fa parte del nostro futuro energetico”. In Italia, invece, non si può neanche riflettere, anzi giocando sulla paura, sull’onda dell’emozione dell’evento giapponese e, nonostante la volontà del governo di approfondire le questioni della sicurezza assieme ai partner europei, c’è un referendum che si è voluto far svolgere a tutti i costi, anche forzando l’interpretazione ed applicandolo alla legge che abrogava di già la legge su cui era stato richiesto.
L’iniziativa è stata di Di Pietro, abile manovratore delle sensazioni e degli effetti, benché politico mediocre e, per mancanza d’idee e di lungimiranza intellettuale, incapace di proporre un qualsiasi progetto politico. Una mano l’ha avuta dalla Cassazione, assieme, però, all’innesco di un nuovo corto circuito di legittimità. La cassazione, infatti, ha modificato il quesito del referendum, ma 3,2 milioni di cittadini italiani residenti all’estero hanno già votato, o non votato, con il vecchio quesito. Una matassa che sarà difficile sciogliere senza provocare nuove tensioni e polemiche.
Nel merito, però, è un’iniziativa che rischia di chiudere le porte del futuro. Senza energia non c’è produzione. Senza energia non ci sarà lavoro. L’Italia è tra i paesi più industrializzati del mondo e nessuno può pensare che potrà continuare a esserlo senza poter disporre di adeguati mezzi energetici. Il nostro Paese, attualmente, compra energia a caro prezzo: il petrolio ed il gas dai paesi arabi e dalla Russia e l’elettricità dalla Francia e dalla Germania. Queste ultime vendono all’Italia l’energia prodotta dalle centrali nucleari a ridosso dei nostri confini. L’energia di cui disponiamo la ricaviamo da impianti idroelettrici (il cui sviluppo è saturo), dagli impianti a carbone (altamente inquinanti), pochissimo dalle biomasse (la differenziata al sud è quasi inesistente) e poi dalle rinnovabili (vento e sole) in sviluppo (per quantità l’Italia è la seconda in Europa dopo la Germania), ma costose e di grosso impatto ambientale.
La domanda sorge spontanea: per quanti anni ancora l’Italia manterrà concorrenziale la sua industria? E dopo? Dopo faremo come gli albanesi e i nord africani … sui barconi in cerca di fortuna.
Vito Schepisi

08 giugno 2011

Il grande imbroglio

Il grande imbroglio di questo scorcio di vita politica italiana è nella disparità dell’informazione. Non ci sono nei media a grande diffusione nazionale, soprattutto negli spazi televisivi, gli approfondimenti completi e obiettivi. Non si diffondono informazioni e dati, ma solo spunti parziali di giudizio che inevitabilmente condizionano le scelte. L’informazione sui quesiti referendari ne è un esempio: una farsa senza senso perché si chiede di esprimersi su cose diverse da quelle che appaiono o che si vogliono far credere. Ma nessuno lo sa.
La faziosità e il tentativo di porre pregiudiziali politiche e ideologiche hanno buon gioco sul pluralismo sostanziale che non è solo la presenza di una voce discorde, accanto a quella che esprime un’altra opinione, ma è soprattutto nell’imparziale rappresentazione delle diverse soluzioni, o nella presenza o meno di proposte diverse, atteso che le opposizioni dovrebbero avere il buon senso di contrapporre anche soluzioni alternative, oltre che opporsi a quelle proposte dalle maggioranze.
Non può ritenersi, infatti, obiettivo e dignitoso un servizio pubblico che interpreti la democrazia solo come spazio di presenza di una parte e dell’altra, quando poi, persino con filmati sceneggiati densi di carica emotiva, e con l’enfatizzazione documentata di situazioni di parte, si spinge verso l’inevitabile giudizio negativo su alcuni e, invece, assolutorio su altri. Nella Tv pubblica è accaduto anche questo, con lo spazio informativo che si trasforma in un tribunale in cui non si cerca la ragione oggettiva, ma lo stato emotivo istantaneo di condanna o di assoluzione.
Accade su tutti i provvedimenti, a volte con atteggiamento diffamatorio, su tutte le scelte legislative e su qualsiasi modifica normativa. L’ipocrisia si taglia a fette. Tutti, ad esempio, oggi sono ad applaudire la riforma del federalismo fiscale. Tutti parlano della cedolare secca come di un provvedimento legislativo straordinario, attesa l’attitudine del Parlamento italiano a varar leggi che finiscono col complicare le cose. Durante la sua discussione, però, questa legge è stata osteggiata tenacemente da tutta la sinistra, sia in Parlamento e sia nei salotti televisivi.
In Italia, sulla stampa e in tv trovano spazio più i motivi del dissenso che non quelli per scelte di opportunità, di necessità o di cambiamento. E’ la ragione per la quale le tante attese e invocate riforme non sono state mai varate, e per la quale ha avuto buon gioco la reazione delle caste che si servono della politica e dei mezzi d’informazione per allontanare lo spettro del cambiamento. Far cenno alle riforme e invocarle come l’espediente salvifico della nostra democrazia, rappresentandole come il cambiamento di marcia del Paese per accrescere i diritti e per creare maggiore efficienza, è diventato solo un modo nominale per attirare consensi. Ciascuno, poi, le vorrebbe fare a suo modo e, tra questi, molti le vorrebbero così inadatte a modificare abusi e privilegi, da farle apparire persino inutili.
Tutte le trasmissioni di approfondimento politico, economico e sociale poi ricadono solo e sempre un unico argomento, con le diverse varianti. Se si parla di politica in Italia, si finisce col parlare solo e sempre di Berlusconi. Ne viene che la fortuna e la perdita d’immagine del Premier è dovuta al centralismo delle sue questioni, politiche o personali che siano. E non ci sembra che la questione di un Paese tra i più industrializzati del mondo, per quanto sia stata importante la svolta politica impressa da Berlusconi, possa limitarsi solo al giudizio sulla sua persona o su ciò che fa e dice.
Sul futuro politico, alcune riflessioni le ha poste Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. L’editorialista si chiedeva se, con il Cavaliere, fosse destinato a tramontare anche il bipolarismo e cioè il metodo di scegliere prima delle elezioni un programma e una coalizione di governo, in modo tale da farsi giudicare, politici e partiti, col voto degli elettori su ciò che viene proposto e su ciò che è stato fatto.
Legata a questa scelta è pensabile che si possa aprire un’altra stagione d’instabilità nelle alleanze politiche ed è pensabile che, se cadesse il bipolarismo, possano emergere gli stessi fattori d’instabilità, già registrati nella prima repubblica, comprese le divisioni in correnti organizzate, con cui è facile ipotizzare anche costi di gestione e finanziamenti illeciti che, in termini più comprensibili, si tradurrebbero in maggiore corruzione ed in nuove cordate lobbistiche. Finanza, industria, media e magistratura avrebbero maggiori poteri di condizionamento e il cittadino sarebbe, come sempre, chiamato solo a pagare il conto della spesa, trovandosi a godere di minori diritti.
In questi termini si spiega il continuo e ossessivo tentativo della sinistra di demolire la leadership di Berlusconi. Senza il Leader del centrodestra è possibile ipotizzare le difficoltà di tenuta della coalizione moderata e, in tutti gli scenari, bipolari o proporzionali, a trarne vantaggio sarebbe solo il centrosinistra, disposto a tutto, pur di arrivare a mettere le mani sul Paese. La preoccupazione è che, quando l’ha fatto, ha solo svenduto risorse, aumentato le tasse e ridotti i diritti.
Panebianco ha ragione: “Il Pdl è nato con il bipolarismo e ne ha bisogno per continuare a esistere”. Per i moderati, pertanto, è necessario rilanciarlo e rafforzarlo, ed è necessario che gli altri protagonisti dell’area moderata facciano da subito le loro scelte. L’idea può essere quella di aprire a una maggioranza capace di varare le riforme e di cambiare in senso bipolare il Paese, anche con il varo di una legge elettorale che premi le ragioni dello stare insieme, che abbia un’ampia valenza maggioritaria e che serva, anche, a risolvere la domanda degli elettori di poter scegliere gli uomini che li dovranno rappresentare in Parlamento.
Vito Schepisi