25 novembre 2009

Soppressione fisica o golpe giudiziario?


Pensiamo, in modo del tutto teorico, che una organizzazione interna alla magistratura che chiamerei “brigata democratica per la legalità rivoluzionaria e popolare” voglia sovvertire le istituzioni democratiche del Paese. Pensiamo anche che in Italia ci sia un clima politico in cui le vecchie parole d’ordine, tipo: fronte democratico ed antifascista, arco costituzionale, popolo dei lavoratori, masse operaie, lotta proletaria, sinistra unita, destra reazionaria, etc.etc. abbiano perso effetto attrattivo e che non funzionino più.

Per avventura pensiamo anche che ci sia un gruppo editoriale con ramificazioni nel mondo industriale, finanziario e bancario che riesca a coinvolgere settori molto ampi della società italiana tra cui intere categorie sindacali, rami di quelle industriali, rampanti intellettuali, ordini professionali ed una parte del Parlamento dove siedono uomini che senza il sostegno di questo gruppo farebbero un altro mestiere.

Pensiamo tutto questo come se fosse già una realtà in corso, e pensiamolo supponendo che ci sia una sinistra, dai tratti di provenienza ideologica massimalista. Una sinistra che non faccia più presa sul suo elettorato, stanco per le tante delusioni ricevute, per aver destato sospetti su inganni e falsità spacciate nel passato come verità rivelate, per aver seminato nel Paese: amministrazioni inefficienti; uomini sorpresi con le mani nei contenitori della farina pubblica; arroganza; privilegi e sacche di inefficienza; abusi di potere; malversazioni, protervia e ricatti sessuali, come in Puglia; moralismi bacchettoni, fino alla pretesa di voler spiare dal buco della serratura dei cittadini per stabilire la legittimità degli stessi ad avere una propria attività sessuale.

Una sinistra affetta dal vizio dei due pesi e delle due misure nella valutazione della questione morale.

Pensiamo alla presenza di una sinistra che ha mantenuto l’incarico assessorile alla sanità ad un suo uomo, in evidente conflitto d’interessi, come fornitore per società di famiglia di articoli sanitari, il cui operato è stato considerato dalla magistratura inquirente come quello di referente di una “cupola” criminale dedita al profitto ed al controllo politico del territorio. Un assessore a cui è stata garantita l’immunità all’arresto consentendogli di entrare in Senato, come primo dei non eletti, dopo aver fatto eleggere al Parlamento Europeo un senatore eletto nella sua regione, per fargli spazio.

Pensiamo ad un Consiglio di Ministri che viene rappresentato come un esecutivo che sbaglia sempre e comunque, sia che si interessi di sicurezza, sia di interventi nelle emergenze, sia di scuola, sia di giustizia, sia che pensi ad un piano di opere pubbliche o alla moralizzazione del pubblico impiego, sia che provi a mettere sotto controllo l’immigrazione clandestina, sia sulle misure economiche. Ha persino la responsabilità di non essere un esecutivo di sinistra (Martin Schulz) per poter legittimamente proporre la candidatura di D’Alema a ministro degli esteri europeo.

Pensiamo, sempre in modo del tutto teorico, che non siano servite a ribaltare la convinzione degli elettori tutta una serie di aggressioni politiche, di minacce giudiziarie, di trasmissioni televisive orientate, di produzione di satira, di dossier, di pentiti di mafia, di ricostruzioni criminali al limite della farsa, di un utilizzo incredibile per sfrontatezza di tutto il codice penale, dalla prima all’ultima pagina, per accusare Berlusconi di tutti i reati previsti: dal furto della gallina del vicino, al delitto a mezzo sicario per futili motivi; dalla violenza carnale, allo sfruttamento della prostituzione; dalla tratte delle bianche, allo spaccio di droga; dall’associazione mafiosa, alla rapina delle vecchiette fuori dall’ufficio postale.

Berlusconi il grande corruttore, l’unico responsabile di tutti i guai del Paese, il caimano, il grande vecchio, quello che ha disseminato la spazzatura nelle strade di Napoli e che ha fatto tremare l’Abruzzo, quello che ha portato al tracollo Alitalia, che ha mortificato il mezzogiorno assorbendo per decenni risorse sparite nel nulla, che ha dissestato il territorio, che ha messo le bombe, che ha fatto saltare i treni, che ha pensato le stragi, e tra queste mettiamoci anche quelle del sabato sera.

Pensiamo, in modo del tutto teorico, che per riprendere a fare i propri comodi ed a saccheggiare il paese, la sinistra abbia realizzato la convinzione che l’unico metodo sia quello di sopprimere Berlusconi e che, non potendolo fare attraverso leggi liberticide, come quella di impedirgli di candidarsi, anche perché non avrebbe i numeri per farlo, stia meditando due diverse opportunità: la sua soppressione fisica o la sua soppressione giuridica.

Supponiamo che sia anche ciò che la cronaca quotidiana ci racconta!

Vito Schepisi

20 novembre 2009

Berlusconi e Fini: li divide il successo


Si dice che il successo di Silvio Berlusconi sia nella sua grande capacità di comunicare. Sarà anche così, ma se non si ha niente da dire, si può comunicare quanto si vuole, la gente non ti segue. Anche Gianfranco Fini è un abile comunicatore, ma non sembra che di questi tempi abbia molto di interessante da dire. Sarà questa la ragione della mancanza di un grande seguito.
Da qualche tempo, tutto ciò che Fini dice non incontra favori, e chi è disposto a seguirlo ha interessi politici differenti. E’ seguito ed incoraggiato, infatti, solo da chi ha lo scopo di metterlo in contrasto a Berlusconi e da chi si serve di lui per raggiungere obiettivi diversi dal suo stesso interesse. Non c’è una logica, né una precisa ragione politica in tutto questo. E’ come un percorso che si fa insieme quando si ha un nemico comune: cosa diversa dall’avere le stesse idee e le stesse motivazioni. Nel caso di Fini si ha l’impressione che assuma la parte del classico “utile idiota”. Il riferimento, naturalmente, è alla figura storica citata da Lenin, usata per indicare alcuni tipici - inconsapevoli o meno - comportamenti degli uomini.
Le posizioni che si assumono in politica hanno sempre una doppia valenza: possono essere per l’utilità di una proposta, oppure possono essere funzionali ad uno scopo. Ce ne sarebbe una terza, ma entreremmo nel campo dell’uso improprio della parola, come quando la si usa per dire sciocchezze. Non è questo, però, il caso di Fini. Le posizioni che assume l’ex AN sono più vicine a quelle della funzionalità per uno scopo.
Ritornando a parlare del successo, è bene subito sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni. Un fattore del successo è senza dubbio la notorietà. C’è chi sostiene che sia meglio che se ne parli, anche male, di un aspirante al successo, ma l’importante è che se ne parli. Questo è vero fino ad un certo punto. Per limitarci alla politica, ci sono stati uomini come Prodi, Di Pietro, Veltroni, D’Alema, solo per citarne alcuni, che sono stati al vertice della popolarità. Personaggi di cui in vari momenti si è parlato anche più di quanto valesse la pena farlo. Ma sono stati uomini che non hanno mai avuto grandi idee da proporre, o non hanno mai dato questa sensazione. Sono stati uomini percepiti contro qualcosa, più che portatori di soluzioni politiche. Non sono riusciti e non riescono a proporsi come personaggi vincenti. Non hanno un’immagine di successo, non hanno un carisma personale. Sono uomini non immediatamente identificabili in un profilo politico complessivo. Non si è mai percepita una loro capacità né di proporre modelli nuovi, né di offrire risposte concrete ai problemi di ogni giorno.
Se il popolo, ad esempio, chiede emozioni, se chiede sensazioni, se è alla ricerca di evasione, va al teatro, al cinema, ai concerti, va in discoteca, si legge un libro: non va a sentire Veltroni che parla di Martin Luther King o cita Dickens. Dalla politica la gente si aspetta soluzioni non bei ricordi e belle parole.
Berlusconi, invece, ha successo perché riesce a parlare alla gente: a quella delle partite Iva, a chi è alla ricerca di un’occupazione, ai pensionati, agli agricoltori, ai giovani che sognano di formarsi una loro famiglia e che guardano al futuro. Parla e si fa capire da coloro che non hanno una casa e vorrebbero averla, da quelli che hanno un mutuo da pagare e sono rimasti senza lavoro, da chi non vorrebbe essere lasciato indietro. Il premier si fa capire dagli italiani che si sono vergognati della spazzatura di Napoli, da quelli che hanno sofferto e soffrono per il terremoto. Berlusconi riesce a paralare a chi s’aspetta modernizzazione, efficienza, giustizia e più orgoglio. Il premier parla e propone soluzioni a chi si preoccupa dell’immigrazione, a chi si preoccupa per la sicurezza. Berlusconi parla alle donne che chiedono parità e dignità. Parla a chi lamenta l’eccessiva pressione fiscale.
Berlusconi insomma ha successo perché rappresenta una speranza, perché è visto come un cambiamento rispetto a coloro che per anni si sono riempiti la bocca di tutele ora di questo, ora di quello, senza mai tutelare niente e nessuno, se non il proprio vivere agiato alle spalle dei tutelabili. Berlusconi è percepito come il leader che ha un’idea diversa della democrazia, rispetto a chi si arroga la presunzione di rappresentarla controllando lo zoccolo duro delle minoranze militanti ed usando metodi di controllo capillare. Il Cavaliere rappresenta per molti la speranza di liberarsi da coloro che , dietro ai comitati, le assemblee, le lotte, hanno formato le caste dei privilegi e le oasi dei fannulloni e degli abusi.
Con queste premesse ci sarebbe ora da chiedersi se Fini potrà mai avere successo se, in un’Italia preoccupata dal diffondersi dell’islamismo, parla ad esempio di voto dopo 5 anni agli immigrati?
Vito Schepisi

19 novembre 2009

Il pluralismo dell'informazione passa dal pluralismo rappresentativo



E’ emersa di recente al centro dell’attenzione la questione della libertà di stampa in Italia. A bocce ferme, è ora opportuno trarne delle conclusioni. Non si vogliono vincitori o vinti, perché è proprio quella libertà che si richiama al pluralismo delle voci e delle opinioni che non li prevede. Sarebbe invece utile comprendere in cosa consista la libertà dell’informazione e cosa effettivamente sia un paese libero e pluralista.
Le riflessioni sulla libertà di stampa possono essere un giusto misuratore di questo stato.
Smorzato il megafono delle iniziative di parte, con gli animi già sufficientemente sbolliti, sarebbe infatti opportuno fermarsi a riflettere. E ne ricaviamo che la questione sollevata non può esaurirsi nelle manifestazioni di piazza. Tra gli slogan non si ricerca mai una ragione condivisa, ma solo un modo di volersela attribuire. Con il folklore e l’animosità delle manifestazioni si dà una parvenza di forza, ma non si risolve niente. Chi ostenta spesso è solo chi ha interesse a dare di se una visione sovraesposta. E non è, infine, possibile regolare l’orologio della democrazia su chi è più forte e vince a braccio di ferro. C’erano e ci sono delle contraddizioni che vanno chiarite. Ne va della nostra reputazione di Paese libero e democratico. Sono in ballo le opzioni pluraliste sancite dalla nostra Carta fondamentale (art.21 della Costituzione).
Non si dovrebbe più indugiare: la questione libertà di stampa oramai è stata sollevata. Ed è certamente bene che sia così! Bisogna ora capirla approfondirla e risolverla.
Il mondo dell’informazione cambia. Esistono nuovi strumenti di diffusione delle notizie e nuovi strumenti di comunicazione politica. Deve esistere anche un nuovo strumento plurale di rappresentare tutto questo. Il giusto equilibrio tra senso di responsabilità, cultura e coscienza democratica servirebbe anche ad isolare il reiterarsi di quei riflessi di bieco provincialismo, come quelli emersi con inserzioni a pagamento in Inghilterra, paese dove è facile trovare una stampa pronta a denigrare l’Italia ed a rappresentarla come luogo delle peggiori nefandezze. C’è stato in Europa anche un tentativo di delegittimare la democrazia italiana, per odio verso il Governo, con un’iniziativa politica che ha diviso il Parlamento europeo, chiamato ad esprimersi su di un mortificante giudizio sulla democrazia e sulla libertà in Italia. Un episodio stomachevole!
In questo ordito politico di una parte dell’opposizione, la federazione unica della stampa italiana, la FNSI, invece di rappresentare la pluralità dei giornalisti e del mondo dell’informazione, con percezioni più articolate sulla questione, schierandosi con una fazione ha finito col rappresentare solo una parte politica.
Ma non è stato un caso isolato! Nel recente passato la Fnsi, attraverso un suo rappresentante, Paolo Serventi Longhi, già per molti anni segretario della stessa Fnsi, ha sostenuto la fronda antisionista, per l’espulsione della rappresentanza israeliana dalla federazione internazionale dei giornalisti. In quella occasione è bastato il pretesto della contestazione israeliana sulla misura della quota associativa, per mascherare quello che invece è stato un chiaro intento antisemita. La Fnsi ha aderito ad una prevaricazione “vergognosa e inaccettabile dalla società civile”, come lo scorso luglio è stato contestato alla Federazione in una lettera su cui giornalisti, blogger e lettori hanno raccolto intorno ad uno slogan “NON IN MIO NOME” 3750 adesioni in un gruppo su Facebook.
Anche in questa deprecabile leggerezza, in questa mortificante manifestazione contro la stampa israeliana, il rappresentante del sindacato unico ha coinvolto l’intera stampa italiana. Ed è stato solo lo sdegno e la presa di distanza di giornalisti, blogger e lettori, come si è detto, che ha consentito nei giorni scorsi di ricomporre la questione con la riammissione della stampa israeliana nella IFJ.
Ma è possibile che in nome della libertà di stampa non ci sia, in Italia, nessuna garanzia di effettivo pluralismo? Com’è possibile che il sindacato unico dei giornalisti, che per definizione dovrebbe essere interessato all’agibilità dei protagonisti dell’informazione - ma anche al rispetto delle regole, della deontologia e delle leggi sui diritti dei cittadini dall’invadenza prevaricatrice di un’informazione scorretta - si allinei sempre sulle posizioni politiche dei grossi gruppi di pressione finanziario-ecomico-industriale-editoriale? Come mai la Fnsi è diventata,come sostiene l’associazione Lettera 22, un pullman dove i giornalisti siano “intruppa bili” per dirigersi a Piazza del Popolo nell’intento di rovesciare i governi sgraditi?
Perché la Fnsi dà sempre più l’idea di un carro merci aggregato ai vagoni dei pregiudizi della Cgil?
Vito Schepisi

12 novembre 2009

Gli Italiani hanno già dato



Non se ne avvertiva alcun bisogno, eppure è nato ancora un nuovo partito. Per iniziativa di un migrante politico naturale, a cui si sono aggiunti altri migranti di professione, è nata Alleanza per l’Italia per “un’Italia democratica, liberale, popolare e riformatrice”, come sostiene il suo leader.
C’è gente che non si accontenta di aver ricevuto già tanto dalla vita, e solo perché di professione ha fatto soltanto il politico. E sono soprattutto coloro che per esperienze pregresse hanno mostrato di saper fare ben poco di veramente utile e nuovo! Il politico di professione ci ha abituati a constatare che meno ha da proporre e più tempo ha per andare alla ricerca di spazi politici e ruoli da svolgere.
E’ il caso di Rutelli, ad esempio, il “bello guaglione” con cui Prodi, bontà sua, volle attribuirgli un bell’aspetto, ma in evidente contrapposizione al suo spessore specifico. Al suo esatto contrario, posto che per l’aspetto il Professore rispecchiava, invece, ed anche con molta fedeltà, sia l’inconsistenza concreta delle soluzioni avanzate, che la sgradevolezza operativa della sua proposta politica.
“Il PD si è spostato a sinistra”: è il leitmotiv di questa nuova aggregazione. E chi fa il salto, e passa dal PD al nuovo soggetto politico, si affretta a denunciare il fallimento dell’idea originaria del PD, s’accorge oggi che non è più ciò che sostenevano allora i promotori. Non è più ciò che diceva Veltroni al Lingotto. Per costoro il PD ha perso la caratteristica di forza aggregatrice di culture ed esperienze diverse, per diventare solo l’ennesima trasformazione di un ben individuato partito di sinistra, erede di un ben preciso riferimento politico che ha una storia travagliata e contraddittoria fatta di furbizie, meschinità, viltà, bugie e tradimenti.
Il PD per Rutelli e compagni è ora un’idea fallita. Con l’esito delle primarie e con l’elezione alla segreteria di Bersani si è concretizzata una sostanziale frattura con l’idea iniziale.
In verità, la rottura con un partito diverso e pluralista di centrosinistra si era già delineata prima delle primarie, con l’adesione in Europa al gruppo socialista. Gli artifizi verbali nella dizione del gruppo europeo non cambiano assolutamente la sostanza della convergenza in quel gruppo. Ora restano solo Franceschini, Fioroni, Letta e la Bindi che fingono di non accorgersi d’essere diventati dirigenti socialisti, anzi d’essere addirittura in un sottogruppo nazionale che lo è diventato dopo essere stato orgogliosamente comunista.
I sostenitori dell’Alleanza per l’Italia denunciano la deriva del partito di Bersani verso un’identità politica che va alla ricerca della sua vecchia connotazione. Quella naturalmente degli ex DS. Un addebito pesante, se lo si avanza per richiamare la colpa, attribuita al nuovo corso del PD, del ritorno all’identità post comunista, quella che era dei democratici di sinistra, quella che è l’identità di riferimento di Bersani. Quella che è anche l’identità originale degli eredi diretti del vecchio Pci.
I sostenitori dell’Alleanza, nonostante i toni smorzati, rivelano il loro disagio nel restare nel PD, denunciano l’errore della mancanza di confronto con la maggioranza, contestano il giustizialismo ed il pregiudizio di una parte dell’opposizione e prendono le distanze da quello che considerano un vero processo involutivo del partito di Bersani e D’Alema.
Si separano, a loro dire, dalla trasformazione del PD in un soggetto privo di un’anima riformista, che non ha fantasia politica e manca di innovazione, che indugia nel privilegiare il suo rapporto di tipo classista col sindacato di riferimento, come accadeva con il partito dei post comunisti.
Il nuovo corso del PD di Bersani, per Rutelli, oltre alla rinuncia alla spinta riformista, alla base della sua fondazione, è privo di appeal verso nuove fasce di elettori provenienti da aree diverse. Il nuovo partito di Rutelli vorrebbe invece essere di riferimento per coloro che hanno una visione moderna e progressista, per coloro che vogliono mantenere un dialogo aperto con la sinistra, ma che provengono da esperienze politiche diverse, quali la popolare, la laico-liberale e quella del riformismo socialista.
Tutto in una frase di Rutelli: "non sono d’accordo con un Pd che va a sinistra, ma lo rispetto".
Ma in Italia c’è già un partito di matrice popolare, laico-liberale, riformista e progressista, ed è il Pdl di Berlusconi. C’è già un grosso partito che ha voluto superare i vecchi schemi più o meno classisti ed essere di riferimento per un elettorato moderno. Un partito più credibile per numeri e per la complessità dei suoi contenuti. Un partito che ha dimostrato sul campo di essere un riferimento importante per la trasformazione e la modernizzazione del Paese, e che ha saputo risolvere questioni di crisi di grosso spessore. Un partito a cui la sinistra non ha saputo fornire né risposte politiche e né un’opposizione coerente.
Ma Rutelli, allora, dove vuole andare? Sappiamo che guarda a Casini che è contro il bipolarismo, proprio quello che, invece, consente di superare l’immobilismo corporativo. Ritorna la tentazione alla frammentazione, anticamera della partitocrazia. E’ cosa preoccupante perché nella confusione dei ruoli e delle azioni, come per il gioco delle tre carte, il popolo ci perde sempre.
Rutelli, come Casini, vorrebbe carpire voti al Pdl per portarli a sinistra?
Ma quali scenari politici ci riserva il futuro?
In tutta questa confusione, però, è bene ricordarlo, gli italiani hanno già dato.
Vito Schepisi

09 novembre 2009

Ero a Berlino Est il 12 ed il 13 agosto 1971 - 20 anni fa, il 9 novembre 1989 il muro, veniva travolto dal grido di libertà.




Durante la sua visita a Berlino del 26 giugno 1963,

il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy

pronunciò un discorso che è passato alla storia.

Un discorso che sarebbe diventato

una pietra miliare della “guerra fredda”

per la libertà.



Ci sono molte persone al mondo che non comprendono,

o non sanno, quale sia il grande problema

tra il mondo libero e il mondo comunista.

Lasciateli venire a Berlino!

Ci sono alcuni che dicono che

il comunismo è l'onda del futuro.

Lasciateli venire a Berlino!

Ci sono alcuni che dicono che,

in Europa e da altre parti,

possiamo lavorare con i comunisti.

Lasciateli venire a Berlino!

E ci sono anche quei pochi che dicono

che è vero che il comunismo

è un sistema maligno,

ma ci permette di fare

progressi economici.

Lasst sie nach Berlin kommen!

Lasciateli venire a Berlino! [...]

Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano,

sono cittadini di Berlino,

e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso di dire:

Ich bin ein Berliner! (Sono un Berlinese!)




Sono stato a Berlino nell'agosto del 1971.

Dopo 10 anni dal giorno della costruzione del "muro",

nella notte tra il 12 ed il 13 agosto del 1961.

Ed il 12 ed il 13 agosto del 1971 sono stato a Berlino Est.

Ho varcato il confine ad est della Città il giorno 12,

con un permesso che mi scadeva a mezzanotte.

Ho anche rischiato, per il rientro a Berlino Ovest,

la chiusura del varco per una sfilata militare

che m'impediva l'accesso alla Friederich Strasse,

unico passaggio ad Ovest per visitatori stranieri.

Il 13 agosto la Berlino comunista,

come se fosse stata una festa,

celebrava i 10 anni della separazione della città

con una parata militare.

La Berlino comunista celebrava il muro.

Ero là, curioso e attonito, anche il 13 agosto mattina

ad assistere ai festeggiamenti.

Honeker era su un palco nella Under Der Linden

ed arringava la folla.

La sua voce era severa, dura, autoritaria, tagliente.

Non avevo mai visto ed avvertito niente di simile dal vero.

Non capivo le parole in tedesco,

ma non potevo fare a meno di interpretarne la violenza.

Quel giorno, come Kennedy qualche anno prima,

mi sono sentito berlinese anch'io.




Sono 20 anni da quando il 9 novembre 1989

il muro veniva travolto da ....

un unico grido di libertà del popolo tedesco.

Vito Schepisi

05 novembre 2009

Nel PD tutto cambia, perchè nulla cambi



Tutto si va a chiudere com’era previsto. Dopo le primarie nel PD, i capogruppo alla Camera ed al Senato hanno rassegnato le dimissioni per consentire al nuovo segretario di organizzare la sua squadra politica. E’ giusto che sia così: è il segretario che deve proporre ai gruppi le ipotesi di cambiamento. Meno giusto ci sembra che alla Presidenza del gruppo parlamentare alla Camera sia chiamato il suo più agguerrito concorrente alla segreteria del partito. Non so se sia mai accaduto nella storia politica italiana che il leader della mozione opposta assuma la direzione del gruppo parlamentare. Il sospetto di una nuova finzione, o di una mera lotta di potere con un accordo di spartizione, induce a chiedere se ci siano state reali diversità nelle proposte politiche dei concorrenti alla segreteria PD, o se sia stata la solita commedia a cui questo partito, per quanto nuovo, ripetutamente ricorre. Fingere anziché fungere.
A parte il programma del chirurgo Ignazio Marino, che più che un articolato percorso di attività e scelte programmatiche del complesso partito che ha ereditato esperienze politiche e civili molto diverse, è stato generalmente percepito come una volontà monotematica di trasformare il PD in un movimento di lotta su ben precise scelte etiche, a parte Marino, quindi, non c’è stata una diversità che sia stata percepita netta tra i due principali concorrenti.
Marino è stato anche l’unico che ha saputo accendere i riflettori dell’attenzione su di un’area esterna al PD, allargando la base di un consenso che, più che per uno schieramento politico, è apparso di precise finalità laiche. Il medico, infatti, ha saputo coinvolgere anche porzioni di area radical-liberale nei suoi richiami alle scelte di vita e soprattutto nel suo approccio filosofico al voler dare una ragione (di vita) alla morte.
Tra Bersani e Franceschini cosa c’era invece di così radicalmente diverso? E’ arcinoto che il primo proviene dalle fila dell’ortodossia comunista, in cui prevaleva la ragione di partito sull’intelligenza e sull’originalità del pensiero, e che il secondo proviene invece dalle sacrestie democristiane - che tanto hanno influenzato anche Veltroni - cultrici del principio che tutto si possa fare: anche mettere sulla tavola del diavolo un boccale di acquasanta, perché lo beva assieme al sangue dei suoi oppressi.
Dopo un Congresso, di regola, chi prevale imposta la sua squadra e lo fa sui suoi progetti. E cosa c’è di programmaticamente più pregnante e simbolicamente più squisitamente politico che l’attività parlamentare? Come farebbe un oppositore, teoricamente portatore di una diversa idea di gestione e di contenuti, a poter così fungere da capogruppo parlamentare? Le strategie operative di un partito si concretizzano proprio in Parlamento che è il luogo in cui si formano le leggi e da cui si anima la discussione sulle iniziative politiche per il governo del Paese. Franceschini, se diverrà capogruppo del PD alla Camera, che farà? Interpreterà Bersani? O sarà quest’ultimo che andrà in coda alle scelte ed alle iniziative di Franceschini?
Se tutto questo può apparire di poca importanza in realtà non lo è. Il PD in due anni ha già cambiato tre segretari. I precedenti sono partiti con diversi e virtuosi propositi ma sia l’uno che l’altro hanno finito per fare le sole cose che gli sono state consentite: esasperare i rapporti con la maggioranza; esaltare l’informazione faziosa; assecondare l’invadenza della magistratura.
L’unica apparente diversità è stata invece solo una finzione. Veltroni voleva attestare il PD in un’area di sinistra moderata autosufficiente, svincolata dai piccoli partiti della sinistra alternativa. Subito, però, si è smentito da solo ed ha imbarcato Di Pietro. E la sua è apparsa più un’operazione di cannibalismo parlamentare, verso i piccoli gruppi neo comunisti, che una vera scelta bipolare. Franceschini da segretario si era attestato sulla linea di Veltroni e blandiva e condannava l’alleato Di Pietro a giorni alterni. Diversa sembra ora la posizione di Bersani. Il neo segretario vuole aprire alle alleanze e lo fa richiamando il principio del centralismo democratico, arcinoto ai suoi possibili futuri alleati, tutti di estrazione comunista, per informarli di volerne adottare lo spirito, per evitare la confusione di voci mostrata ai tempi di Prodi.
Ma alleanze per cosa? Il problema è tutto lì. Con il gossip, con la giustizia, con gli insulti, con le delegittimazioni, con la disinformazione, con le minacce ed anche con l’omicidio, se fosse possibile, tutto a sinistra è indirizzato solo a spodestare Berlusconi, anche contro la volontà popolare.
La questione in sostanza resta sempre negli stessi termini, come descritto da Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo, solo un grande cambiamento che permetta di lasciare tutto come prima, perché nulla cambi.

Vito Schepisi