25 febbraio 2010

La par condicio applicata al pensiero


Finirà che chiederanno la “par condicio” anche per ciò che pensiamo! Ciò che è strano, in Italia, è che si voglia fare tutto ciò che invece è stato proibito per legge, e che ciò che è stato, appunto, proibito debba essere anche ciò che, al contrario, ciascuno vorrebbe essere legittimato poi a fare. E si protesta perché, per il rispetto della legge, l’esercizio dello sdoppiamento della sua applicazione non venga consentito. A nulla vale eccepire che la legge l’abbiano reclamata proprio nella famiglia politica di coloro che vorrebbero disattenderla, ovvero applicarla a seconda dei casi.
Si ha così il sospetto, non proprio vago, che ci sia una parte politica che vorrebbe proibire tutto ciò che non torni utile al proprio interesse, ma che nello stesso tempo vorrebbe che fosse consentito, solo per la propria parte, tutto ciò che, invece, sia proibito per gli altri. Si vorrebbero insomma delle leggi che, a seconda delle circostanze, fossero applicate per i nemici e violate per gli amici.
Ma se non riescono ad inventare leggi di questo tipo, si rifugiano in nervose giravolte e sceneggiate, come quella tra Travaglio e Santoro, con il primo che pretenderebbe, ad esempio per Annozero, una trasmissione in cui lui solo possa stabilire chi abbia il diritto di essere presente e di parlare. Su una rete televisiva del servizio pubblico, infatti, Travaglio pretenderebbe di poter leggere, senza interruzioni e repliche, il consueto bollettino delle procure e di insinuare, senza contraddittorio, le peggiori nefandezze verso la parte politica che detesta. Una sceneggiata tra i due in cui finisce che Santoro, che gli regge la coda, debba ricordargli che per par condicio, nei periodi che precedono le elezioni, debba essere dato all’altra parte l’ugual tempo di parola. Cosa evidentemente strana per i due! Il tono è quello di additare la cosa come un metodo di democrazia e di pluralismo perverso, ma imposto. Il colpo da maestro del conduttore sta nella finta spocchia di sostenere di poter far a meno della presenza in trasmissione del giornalista travagliato dai rigori della legge, se questi non è poi disposto a sottostare a questo obbligo (così bifolco) che favorisce Berlusconi.
E’ delirio! Non si può spiegare diversamente: delirio di onnipotenza dei due. E’ roba da Minculpop! Si vorrebbe una doppia legge, dopo la presenza di una doppia morale. Spunta una doppiezza che è del tutto simile a quella della scuola di pensiero dell’infallibilità ideologica che, nell’Italia post fascista, aveva preso corpo con grande arroganza. In questa pretesa aleggia un concetto molto strano di democrazia e di pluralismo che ci ricorda anche il rapporto che c’è tra Di Pietro e la giustizia. Chissà perché!?
A proposito di libertà e di comunicazione, il 3 ottobre dello scorso anno, è stata celebrata a Roma la più grande manifestazione dell’ipocrisia. Un evento da segnalare per il guinness dei primati. Una manifestazione per la libertà di stampa dai risvolti inverosimili e contraddittori. Una manifestazione, indetta dalla federazione della stampa, per lamentare pericoli per la libertà di informazione perché un leader politico, sentitosi diffamato, ha risposto con l’unico mezzo lecito che un cittadino ha a disposizione per difendersi dalla diffamazione a mezzo stampa: il ricorso alla carta bollata. Una manifestazione indetta contro il diritto!
Sarebbe come dire che se si ricevesse una multa per divieto di sosta a Roma, mentre si è a Milano con la propria autovettura, e si facesse ricorso al giudice di pace per difendersi da ciò che si ritiene ingiusto, i vigili urbani di Roma si sentissero legittimati a scatenare una manifestazione di protesta contro l’arroganza di chi voglia far valere in modo civile le proprie ragioni. Non sarebbe solo un controsenso, ma una vera aberrazione della logica, un attentato all’intelligenza ed al buonsenso.
Una manifestazione indetta per lamentare l’esercizio di un diritto, sostenendo che rappresenti un tentativo di intimidazione è, al contrario, una forma di intimidazione. La manifestazione a Piazza del Popolo a Roma era, infatti, un’intimidazione: serviva ad alzare i toni in vista del voto in Europa su una mozione diffamatoria verso il nostro Paese, in cui si alludeva al bavaglio imposto dal Governo alla libertà di informazione.
Ora si litiga sull’applicazione della “par condicio”. Una legge studiata e voluta per togliere spazio al grande comunicatore Berlusconi. Si sono accorti, però, che non impedisce di replicare alle calunnie e che ostacola l’uso della tv pubblica alla pari di una fossa di leoni addestrati a sbranare gli avversari-nemici politici.
Si Suggerisce, in alternativa, la par condicio applicata al pensiero: una legge che imponga il divieto di pensare al deficit di democrazia, avvertito in Italia, per una sinistra immatura e con grosse lacune liberali.
Vito Schepisi

22 febbraio 2010

L'Italia "gelatinosa"


Dicono che ci sia oggi un’Italia “gelatinosa” che si spande sull’intero territorio nazionale. Ma se è l’Italia di sempre! La stessa, altrettanto “gelatinosa”, che ha avuto illustri esempi in ogni suo settore di attività, magistratura compresa, ieri come oggi. Questa è la stessa Italia degli amici, e degli amici degli amici. E’ l’Italia di chi tiene famiglia: dal poliziotto al politico, dal funzionario al ministro, dal capo popolo al capo partito. E c’è chi ha avuto anche l’avventura di percorrere tutti questi ruoli! E’ il Paese delle diverse massonerie, ufficiali o meno, di osservanza o meno, di loggia, di circolo, di club, di casta.
Il nostro è un Paese dove nel ruolo di referenti, per distribuire gli appalti, agiscono le consorterie di partito, le cellule, le aree politico-amministrative, le cordate, le cupole, le rappresentanze sociali, le corporazioni, le cordate editoriali, i boss. Tutti con le più ramificate compiacenze.
Verrebbe da dire: avanti popolo che c’è posto per tutti, purché si abbiano i giusti peli nello stomaco.
E’ la storia di sempre, nessuna novità! E’ la storia che la magistratura, ponendosi come controparte politica, mostra di non voler superare e sconfiggere. Il malaffare è, infatti, lo strumento che serve a tenere in tensione la macchina dell’abuso, del privilegio, del ricatto e della doppia misura. E’ il contrario della buona saggezza dell’essere comprensivo con i deboli ed inflessibile con i prepotenti. Ciò che conta per alcuni è il possesso dello strumento. E’ l’uso e l’abuso del potere che intimorisce e che si abbatte. Da qui il gioco delle insinuazioni e del fango che condizionano ed indeboliscono la forza esercitata dal consenso popolare. E’ una battaglia che serve alla guerra infinita della conservazione dei privilegi e del potere. Tutto si dispiega come nelle puntate precedenti. Tutto come è accaduto con mani pulite quando, invece che il malaffare, si è voluto ribaltare il corso politico del Paese.
Di davvero libero in Italia c’è rimasto ben poco. Senza il consenso dei “padrini”, è raro poter lavorare e produrre. Lo si percepisce comunemente chiacchierando per strada, negli uffici, con i conoscenti, con gli amici. Ma, al di là dei soliti pettegolezzi e delle sussurrate dicerie, oltre ai luoghi comuni, oltre all’abitudine populista di individuare nella classe politica l’origine del malaffare, spesso non si percepisce la dimensione di un “grande fratello” che controlla, che regola e che condiziona. C’è chi non vuole o non riesce a comprendere il sistema delle cupole a presidio del controllo sistematico del territorio, finalizzato al consenso politico e la rete della gestione funzionale nei diversi settori dei servizi di pubblica utilità, dalla sanità ai lavori pubblici, dallo smaltimento dei rifiuti ai trasporti, etc. Ma capita anche che la magistratura che individua il sistema viene intimidita e viene spinta al silenzio, com’è accaduto in Puglia.
Non è un caso che dappertutto, al sud come al nord, intercettando gli imprenditori ed i responsabili delle imprese che si aggiudicano gli appalti, siano spuntati i riferimenti ai personaggi delle istituzioni, funzionali o politici che siano, come gli “agevolatori” politici o burocratici.
Dove non c’è la rete “gelatinosa” della politica, dei faccendieri e dei comis di Stato, c’è la criminalità organizzata, ma non è difficile che si verifichi che ci siano sia l’una che l’altra insieme.
In tutti i campi da quello tecnico a quello politico, da quello economico a quello editoriale ed industriale, le cordate dei gruppi di pressione privi di scrupoli non sono soltanto il parto fantasioso ed ideologico dell’antipolitica pregiudiziale. Non sono sempre le fantasie goliardiche e viscerali dei soliti grillini strafottenti, frustrati e privi di lucide proposte politiche. C’è in Italia un magma incandescente che erutta e travolge tutto. Una forza malvagia che si serve anche delle tragedie e del dolore del Paese per trarne profitto. E’ un magma che erutta dai crateri che covano nel cinismo malvagio di amministrazioni, di segreterie politiche, di cooperative, di aziende, di pacchetti azionari, di cordate editoriali, di dirigenti e funzionari del pubblico impiego. In tutti coloro che, a vario titolo, e con differenti obiettivi, intrecciano i loro interessi particolari, singoli o collettivi, col sistema funzionale del Paese. C’è una fauna composta da una razza di feroci sciacalli umani affamati di lusso e di successo. Li vediamo in tv, in Parlamento, sui giornali o nascosti all’ombra dei loro padrini.
L’organizzazione verticistica di controllo e di smistamento degli appalti è trasversale per territorio, per collocazione politica e per classi sociali, ma appare quasi sempre legata ad un’ossatura più complessa del sistema di gestione delle opere pubbliche. Non sempre, però, il marcio parte dalla testa, l’infezione si sviluppa anche nel corpo. E’un male endemico che non si riesce a curare perché vengono ineluttabilmente posti ostacoli alle disinfestazioni necessarie a sconfiggerne la diffusione.
Il marcio in Italia è in un sistema che è stato realizzato perché riuscisse ad imbrigliare e condizionare ogni cosa. Perché si trasformasse in potere. E’ risaputo che la mafia cerca sempre di annidarsi nelle strutture e nella macchina funzionale dello Stato. Sempre da lì parte l’attacco alla politica, al suo coinvolgimento ed al suo condizionamento. Senza l’attività grigia e vischiosa di quella massa gelatinosa in cui si muove la burocrazia pubblica, la mafia perderebbe definitivamente la sua partita. Alla mafia serve, infatti, il controllo della burocrazia che freni, che acceleri, che blocchi, che condizioni, che smisti e che appalti i lavori: senza questo potere sarebbe molto più vulnerabile.
Vito Schepisi

19 febbraio 2010

Lo stucchevole valzer delle dimissioni



Il valzer delle dimissioni, sollecitate, date e richieste, accettate o respinte, minacciate ed intimate, è diventato un ballo stucchevole. Sarebbe bene chiarire un principio che, se non può essere emanato come una regola scritta, dovrebbe valere come l’assunzione di un comportamento da definire, per ipotesi, corretto. Un principio a cui, per forza di cose, non può che essere facoltativo attenersi, fatti salvi gli obblighi di legge, quali i provvedimenti restrittivi o detentivi adottati dalle autorità preposte alle funzioni giurisdizionali, e/o i rapporti di fiducia con la collegialità degli aventi causa nei ruoli di gestione ricoperti.
Il principio è che le dimissioni siano rassegnate solo da coloro che hanno responsabilità dirette negli addebiti mossi. Negli altri casi, in ciò che invece possono essere definite, ad esempio, come responsabilità politiche o funzionali, sarebbe utile e necessario distinguere e valutare caso per caso. Non può, infatti, sfuggire, la presenza di ruoli che si riferiscono al nostro sistema democratico ed al dovere dell’esercizio della delega ricevuta dagli elettori, sempre che gli interessati siano fuori dal diretto coinvolgimento,
Naturalmente questo principio deve far appello alle coscienze delle persone coinvolte e dovrebbe costituire un aggravante morale, prima che penale, qualora i fatti dimostrino, successivamente, responsabilità di illeciti, tenute nascoste, e certezze giuridiche arrivate definitivamente a sentenza.
Non può che essere così! In caso contrario sarebbe la jungla. Basterebbe sollevare chiacchiericci su di una persona o basterebbe un magistrato scorretto a modificare l’assetto politico e funzionale del Paese.
Diversamente, sarebbe come piacerebbe a Di Pietro per i suoi avversari, ma non per i suoi amici e compagni, familiari compresi. Come vorrebbe il leader dell’Idv con la sua gente, i suoi sodali, con i suoi più o meno interessati sostenitori. Il sogno, non tanto misterioso, dell’ex PM di Mani Pulite, di un governo autoritario, senza garanzie democratiche, dominato dall’arroganza verbale, dalla violenza giudiziaria, dal pregiudizio morale e dall’intolleranza politica. Un sistema senza diritti, senza garanzie, senza presunzione di innocenza e con la casta dei giudici che ipotizzino i reati e contestualmente emettano le sentenze, naturalmente senza concedere possibilità di appello, soprattutto a coloro che considerano “nemici” politici.
Non si può prescindere, invece, dalle scelte irreversibili della democrazia. Si è parlato tanto di lotta di liberazione e di antifascismo! Non si può prescindere dalla necessità, in un sistema rappresentativo con le regole sancite dalla Costituzione, di poter esercitare, in forza del consenso ottenuto, le responsabilità di governo. C’è, infatti, il dovere morale, oltre che costituzionale, nel rispetto della sovranità popolare, di esercitare il mandato ricevuto dagli elettori. Ed il mandato elettorale è sempre congiunto ad un preciso indirizzo politico e programmatico. Il diritto di pronunciarsi nel merito, il diritto di fare le scelte, anche se per delega, spetta solo al popolo, e senza indebite ed eversive interferenze.
C’è anche il diritto di tutti di trarre le proprie conclusioni. Ma se la stampa è libera di trarre le proprie, nei limiti del diritto all’informazione, non altrettanto così deve accadere per iniziativa delle funzioni dello Stato. Le ipotesi fantasiose e le ricostruzioni prive di riscontro si intromettono, infatti, con grave pregiudizio, nella vita privata delle persone coinvolte, trasferendo nell’opinione pubblica inquietudine e pregiudizio. La morbosa sensazione della presenza dei vizi privati prevale sempre nell’immaginario collettivo, anche dinanzi alle pubbliche virtù. E’ propria della debolezza umana, infatti, l’abitudine di lasciarsi trasportare nel pregiudizio, dinanzi al consolidato concetto del “mostro” sbattuto in prima pagina. Lo constatiamo, con disappunto, con il Dr.Bertolaso a cui, per iniziative giudiziarie, sono state attribuite ipotesi fantasiose che hanno scatenato la campagna di delegittimazione di alcuni giornali e politici, apparsi interessati a veder sbiadire l’immagine di colui che è diventato un simbolo dell’efficienza del Governo di Silvio Berlusconi.
La responsabilità giuridica è sempre individuale, mentre quella politica, molto spesso, attiene alle responsabilità di terzi. E’ bene tenerlo sempre presente. E’ anche bene, inoltre, che si sappia che l’esecuzione delle opere pubbliche avviene per il tramite operativo di una rete di funzionari e di alti dirigenti ministeriali, alcuni dei quali messi a quei posti proprio da coloro che oggi più alzano la voce nel chiedere le dimissioni di Bertolaso. Ci sarebbe da chiedersi, invece, a cosa nel passato questa dirigenza sia stata funzionale.
C’è un clima, che ci preme denunciare, di reiterate e puntuali campagne di delegittimazione che, oramai, come le stagioni, partono a date ben calendarizzate.
Vito Schepisi

12 febbraio 2010

Informazione, comunicazione politica e servizio pubblico


Chiariamo subito alcune cose. La par condicio è una pessima legge perché non assicura affatto la partecipazione equilibrata dei partiti, non aiuta alla chiarezza, agevola la frammentazione, pone sullo stesso piano forze politiche con diversa rilevanza popolare, arricchisce a dismisura le emittenti private a diffusione locale, soffoca la comunicazione politica.
Le Tv che non trasmettono su tutto il territorio nazionale, piccole o grandi che siano, sono fuori dall’obbligo delle misure restrittive poste invece, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alle emittenti a diffusione nazionale. E già questa diversità, se si parla di par condicio, dovrebbe rappresentare un problema, specialmente quando si svolgono elezioni di tipo amministrativo, come le prossime regionali.
La par condicio non contribuisce affatto al pluralismo dell’informazione, né, come si è detto, all’equilibrio quantitativo della comunicazione politica. Non serve neanche alla moralizzazione ed alla trasparenza, perché proietta la comunicazione su altre fonti di diffusione, a volte più costose e meno rispettose dell’ambiente, ed induce molti competitori all’uso indiscriminato degli spazi di affissione che, in particolare al sud, sono spesso infiltrati dalla malavita.
Un’altra cosa da chiarire riguarda la stranezza di un costume di gestione per la tv pubblica. E’ inquietante, infatti, pensare che si renda necessaria un’apposita legge ed un preventivo regolamento per assicurare a tutti l’equilibrio ed il pluralismo delle informazioni politiche in un servizio pubblico. E’come dire, ad esempio, che per le Trenitalia si debba fare una legge che assicuri a tutti i viaggiatori, senza distinzioni, di poter partire da una stazione ferroviaria e di poter raggiungere una qualsiasi altra stazione ferroviaria. La neutralità del servizio pubblico rispetto all’utenza, infatti, dovrebbe essere il primo fondamentale valore da rispettare.
Per i servizi della Rai, ente pubblico, per il quale si rende necessario anche il pagamento di una tassa annuale, c’è invece una legge ed un regolamento, predisposto dal Comitato interparlamentare di Vigilanza, che vale solo in periodo elettorale. Sia la legge che il regolamento si renderebbero - così pare - necessari per l’offerta pluralista del servizio pubblico. Come se fosse possibile, invece, in altro momento, disattendere all’obbligo della imparzialità. E’ una questione che deve indurre a riflettere sul ruolo corretto di una tv pubblica che valga per sempre e per tutti!
Viene da se che un pubblico servizio, se gestito in modo parziale e se fa discriminazioni, sia al di fuori di un sistema di democrazia liberale. L’informazione richiede sempre la pluralità delle opinioni e deve mantenersi in modo leale, e per necessaria abitudine, nello spazio del confronto corretto e nella garanzia della neutralità arbitrale dei suoi conduttori. E’ in questo modo che il servizio pubblico garantisce la professionalità dei suoi dipendenti e l’effettiva scelta di un metodo democratico nel suo utilizzo.
Anche la comunicazione politica di parte deve avere l’equilibrio dei suoi spazi, perché sia garantito sempre un rapporto corretto tra maggioranza ed opposizione e perché all’interno siano rappresentate tutte le componenti. E’semplicemente assurdo, infatti, pensare che se la maggioranza, o viceversa l’opposizione, sia rappresentata da un solo partito, debba essere penalizzata rispetto alla parte avversa che, qualora sia rappresentata da un numero superiore di partiti, possa avere spazi tante volte superiori. La frammentazione non aiuta a capire, spesso invece, al contrario, contribuisce a confondere.
Una televisione faziosa finisce col diventare il luogo del tifo di tipo sportivo ove non prevalgono le ragioni delle diverse idee da diffondere, ma solo l’opportunità di una parte per disseminare trappole ed imboscate da utilizzare contro l’avversario politico. Alcune trasmissioni sembrano più campi minati, organizzate per far saltare all’aria le ragioni politiche dell’avversario, se non per cercare d’affossarlo del tutto.
Si assiste, inoltre, sempre più spesso, a trasmissioni organizzate contro una persona, ci si intromette nella sua vita privata, persino in quella coniugale. Dovrebbe essere assurdo che ciò avvenga in un contenitore del servizio pubblico, ma avviene! Anche con la presenza di ospiti discutibili, che assurgono al ruolo di eroi.
Non si dovrebbe invece consentire, per il rispetto che si deve alle scelte personali, alle idee ed alla dignità di tutti i cittadini, che nelle trasmissioni di approfondimento si indichi qualcuno, non più come un competitore politico, non più come un portatore di idee e di programmi differenti, ovvero un responsabile di provvedimenti e soluzioni di governo adottate, ma come un vero nemico da abbattere.
E’ un po’ come succede nelle campagne d’odio che i regimi autoritari e repressivi sollevano per delegittimare il dissenso. Solo che da noi lo stesso metodo viene utilizzato per delegittimare il consenso. Ed appare così tanta l’abitudine al metodo della intolleranza e del pregiudizio ideologico, che in certe occasioni si finisce col dissentire dai sentimenti del popolo. Il che non è poi una grande lotta per i diritti degli oppressi, come si vorrebbe invece far credere.
Superata anche questa prossima prova elettorale, si dovrebbe guardare con maggiore attenzione, e nel suo complesso, al mondo dell’informazione. Due gli obiettivi: liberalizzarla e responsabilizzarla.
Le enormi risorse pubbliche impiegate, generalmente in modo distorto ed inutile, mortificano le tante potenzialità di pluralismo effettivo, mentre esistono tanti protagonismi che, in nome della libertà d’informazione, fanno invece disinformazione con i soldi dei contribuenti.
Vito Schepisi

09 febbraio 2010

La giustizia in mano ai pentiti


C’è di che essere inquieti per ciò che, coinvolgendo il partito fondato da Silvio Berlusconi, ha detto in tribunale, a Palermo, Ciancimino Junior. Ci si chiede per quanto tempo ancora la reazione della magistratura politica vorrà sottoporre a gogna giudiziaria il partito di Forza Italia che nel ‘94 ebbe l’ardire, d’un sol colpo, alla prima uscita, da Milano a Trapani, d’essere indicato dagli elettori come partito di maggioranza relativa.
Il nuovo soggetto politico nel ‘94 era sorto per sottrarre l’Italia, mentre il vecchio socialismo reale precipitava nella vergogna del suo fallimento, dalla presa già data per acquisita dei post comunisti italiani. Il partito che si ispirava alla libertà ed al buongoverno e che, in coalizione con la Lega di Bossi al nord e con Alleanza Nazionale al sud, nell’anno della “macchina da Guerra” di Occhetto, aveva sottratto il giocattolo premio, rilasciato dal pool di mani pulite, dalle mani ancora sporche di rosso per averle ripetutamente strette, senza provare ribrezzo, con cinismo e supponenza morale, a quelle macchiatesi del sangue degli oppressi nei paesi del dominio sovietico.
Sembra che non si lasci niente di intentato nell’ordito di vendetta contro Berlusconi, si prova di tutto per metterla a segno, finanche in modo trasversale, per aver questi osato contendere alle caste, alle famiglie dei salotti buoni d’Italia ed ai gruppi di potere mediatico, industriale, finanziario e burocratico, il governo del Paese. Berlusconi è reo d’aver osato abbattere il controllo autoritario che, dopo la caduta del fascismo, era stato assunto con logica spartitoria dal consociativismo partitico, sindacale, industriale e confessionale.
C’è una voglia di vendetta che si estende anche agli elettori che sostengono oggi il Pdl, dopo aver sostenuto in passato FI, attratti dalla visione moderata di un partito che ha assolto un ruolo di forza centrale nella dialettica politica italiana, per la sua interpretazione equilibrata delle istanze popolari e dei bisogni del Paese. Il 2009 ed il 2010 sono gli anni che, dopo le politiche del 2008, hanno segnato e segnano importanti appuntamenti politici, e che hanno visto e vedono una strategia d’insieme messa in campo con accanimento e violenza giudiziaria senza precedenti. Le dichiarazioni di Ciancimino a Palermo fanno un tutt’uno ben calibrato con quelle di Spatuzza a Torino. Il filo conduttore dei magistrati di Palermo sembra quello di legare Berlusconi ad un teorema, tanto assurdo quanto irreale, che lo vedrebbe ispiratore e mandante delle stragi mafiose del 1992 (due anni prima che Berlusconi entrasse in politica), nonché colluso con le attività di mafia ed interlocutore politico per i patteggiamenti della mafia con lo Stato, miranti ad ottenere salvacondotti per il controllo mafioso del territorio e per la gestione della rete di affari economici in Italia.
Un teorema assurdo che, prima che dai riscontri oggettivi, è smentito dai fatti e dall’azione parlamentare e di governo di Forza Italia, di Berlusconi, del Pdl e degli uomini che si sono assunti responsabilità politiche e amministrative nel partito di Berlusconi.
All’attacco sul versante penale si è associata nel 2009 una sentenza civile di cui sfuggono le motivazioni logiche, e la cui imponenza economica spaventa. Una sentenza di risarcimento da capogiro a danno di una azienda. Un pronunciamento, immediatamente esecutivo, di un giudice unico, le cui simpatie politiche sono emerse senza ombre di dubbio, che comporterebbe il pagamento di ben 750 milioni di Euro a favore dell’avversario storico di Berlusconi: quel Carlo de Benedetti che è l’editore dei giornali “La Repubblica” e “L’Espresso” che da anni conducono una campagna senza risparmio di inchiostro, e soprattutto senza risparmiare contenuti ed occasioni contro Berlusconi.
Se la magistratura debba parlare con le sentenze, nessuno si è mai accorto che sia mai stato così. Eravamo abituati ad ascoltare i magistrati che parlavano dappertutto: sui giornali, nelle tv, nei convegni e nei salotti d’Italia. Ora parlano anche attraverso i pentiti. C’è qualcuno che si è assunto la delega di prendere il loro posto. Ci sono i pentiti che parlano e dicono ciò che neanche i magistrati hanno osato finora dire.
La Giustizia è ora in mano ai presunti pentiti. Si consente in Italia, senza riscontri oggettivi, e con una ben orchestrata scena mediatica, in cui non mancano gli annunci e le puntate, come per le fiction tv, di gettare fango non solo sugli uomini che hanno il consenso degli elettori, ma anche sugli italiani che per rispetto dei diritti e doveri previsti dalla Costituzione, ed assolvendo ad un diritto civile di grande rilevanza sociale, aderiscono ad un partito politico. E’ troppo!
Vito Schepisi

05 febbraio 2010

Vendola e Zapatero


Forse non tutti ricorderanno quando la Spagna di Zapatero nel dicembre del 2007 gareggiava con l’Italia sul Pil, vantando di aver ingranato la marcia giusta e di essere in corsia di sorpasso. Anche quella era una bufala, esattamente come quella di Prodi che diceva di aver sistemato i conti in Italia.
L’Italia nel 2006, dopo che il centrosinistra, per 24.000 voti in più, aveva vinto (?) le elezioni, governava il Paese e dominava la scena, occupandola dalla platea al loggione, sistemava i conti solo grazie alla finanziaria 2006 di Tremonti. L’Italia era, infatti, sufficientemente rientrata nei parametri di Maastricht. La maggior incidenza della spesa era dovuta solo al rimborso iva sulle vetture aziendali, per decisione della Corte europea, e riferito agli accumuli negli esercizi precedenti.
Il salasso fiscale del duo Padoa Schioppa - Visco, nella finanziaria 2006, era servito, invece, a finanziare le clientele, a dare soldi alla Fiat ed al capitalismo amico, ad accontentare i pensionati di Bertinotti che potettero uscire dal lavoro un anno e mezzo prima (costo 10 miliardi di Euro).
A sinistra la sindrome dell’autoesaltazione è una patologia comune e diffusa. Anche le bufale sono ben contraffatte, come spesso accade per le famose mozzarelle campane.
La Spagna di Zapatero, nel 2007, era, invece, ben lontana dal Pil italiano e, come quella sinistra fanfarona, demagogica e mistificatrice, che ben conosciamo in Italia, puntava all’effetto annuncio. Un po’ come, con tutto il rispetto per Zapatero, fa Vendola in Puglia, i cui discorsi sono del tutto fumosi, privi di proposte ed effetti concreti, spesso limitati a sollevare polveroni ed a dar corso a battaglie ideologiche.
La Spagna di Zapatero è infatti allo sfascio, almeno quanto lo è la Puglia di Vendola. La bolla immobiliare, che già nel 2007 aveva manifestato i suoi sintomi, è ora deflagrata e la disoccupazione supera il 20%.
Anche in Puglia ci sono i sintomi della sfascio produttivo - industriale e la disoccupazione ha superato il livello di guardia. I servizi sociali sono al collasso, l’economia è ferma, le aziende chiudono, il territorio è in degrado, mentre la sanità macina debiti e brilla per episodi di malcostume e di cattiva gestione.
A quei tempi, nel 2007, in Spagna il filo, neanche troppo sottile, che separava la realtà dall’effetto annuncio, era stato il raffronto del Pil pro capite, ipotizzando la parità del potere di acquisto calcolato sul livello generale dei prezzi delle due economie. Come dire che il Pil pro capite di un paese della Lucania o della Calabria, ad esempio, sia superiore a quello di Milano. E solo perché i prezzi, dagli immobili ai prodotti agricoli e alimentari; dall’abbigliamento a quelli strumentali ed artigianali, in molti paesi del sud sono più contenuti di quelli delle grandi città del nord.
Quanto siano effimere le esaltazioni populiste di certi capipopolo di sinistra le valutiamo ora. C’era stato in Spagna un grande impegno, ai tempi di Aznar, per recuperare terreno nei confronti degli altri paesi europei. Erano state adottate politiche di buona visione prospettica, coerenti nel favorire la produzione e, attraverso questa, l’occupazione, e nell’usare la leva fiscale. Erano stati realizzati piani di infrastrutture logistiche e strumentali per poter uscire dallo stato di economia preindustriale ed affacciarsi a quello di società europea, con aree di mercato conquistate e con l’allargamento dell’offerta concorrenziale delle merci.
In Spagna questo processo è stato interrotto con Zapatero. E’ stato interrotto con l'inaspettato prevalere della sinistra nelle elezioni spagnole del marzo del 2004. Il successo elettorale era maturato dopo una gestione problematica, da parte del Governo di Aznar, del violento attacco terroristico dell’11 marzo 2004 a Madrid, 3 giorni prima delle elezioni, con circa 200 morti ed oltre 2000 feriti. Si può affermare che Zapatero abbia interrotto un ciclo virtuoso, ed è facile dirlo ora che in Spagna prevalgono sintomi di profonda crisi economica ed i pericoli di un grave collasso sociale.
Si può, ora, con facilità sostenere che in Spagna, più che i matrimoni gay, il governo avrebbe dovuto seguire la crescita dell’economia con politiche di rafforzamento della produzione e di allargamento dei mercati. Alla prima crisi mondiale, infatti, il paese iberico non ha retto. Zapataero e la sinistra spagnola hanno così disilluso quanti avevano ritenuto che si potessero introdurre politiche sociali di spesa, senza il sostegno di una forte economia. La logica dell’economia non può, però, solo appartenere alla retorica delle recriminazioni, ma deve anche avere un valore propositivo, soprattutto dovrebbe servire ad ammonire quanti ritengono che di certi principi se ne possa fare a meno. Questo vale in Spagna, come in Italia, e nel caso anche in Puglia, dove s’avverte la presenza di una sinistra ideologica e populista.
In Puglia sembra che permanga invece il senso di una illusione messianica: ed è l’esatta sensazione che prevaleva nella Spagna di Zapatero. In Puglia c’è chi pensa che tutto debba avvenire per obbligo del destino. Ma non è così! Attenzione che non è così! Le conseguenze poi le pagano le generazioni future: abbiamo già sottratto tantissimo ai nostri figli, più di quanto fosse necessario e sostenibile.
In Puglia si prova a far pensare che persino il malaffare debba essere visto con occhio diverso, e debba essere considerato persino virtuoso. Lo stesso metodo che abbiamo visto a Napoli, nel Lazio, a Bologna dove la morale prova sempre a sdoppiarsi. Ma attenzione che non è così! Si sdoppia solo l’ipocrisia e la faziosità!
Non vale per tutti a Bari, ad esempio, come accade invece a Milano, il “non poteva non sapere”, ed in Puglia la giustizia non è detto che debba necessariamente fare il suo corso e che sia insindacabile. Se entra nei santuari del “politicamente corretto”, la reazione si sente. Eccome!
Nella Puglia di Vendola si avverte la presenza di una rete che occupa il territorio. Una rete che illude, che spende, che promette, che alimenta le clientele e sistema gli amici. L’ha rilevato la magistratura che ha parlato di cupole di controllo del territorio, eppure sembra che la furbizia prevalga attraverso apparati ben oleati (terra di ulivi e di olio la Puglia!) che travolgono il senso delle cose e che travisano la realtà. Tutto continua come prima, la macchina è in moto da tempo, almeno da 5 anni e non accenna a fermarsi. C’è, nell’apparato di Vendola, una macchina elettorale che mantiene accesi i motori in eterno, un congegno prospettico che macina voti, che se ne infischia della magistratura e che travolge tutto. Anche le coscienze!
Attenzione, però, perché le illusioni si pagano, come sta accadendo alla Spagna di Zapatero!
Vito Schepisi

01 febbraio 2010

Un voto utile e intelligente



Tra meno di due mesi si vota. Si vota per il rinnovo dei presidenti e dei consigli regionali. Si vota su tutto il territorio nazionale, eccetto le regioni autonome. Eccetto anche l’Abruzzo dove, come si ricorderà, si è votato di recente per sostituire il dimissionario Ottaviano Del Turco, l’ex sindacalista e segretario socialista, impallinato da una magistratura troppo frettolosa e, forse, troppo presuntuosa ed arrogante, e lasciato solo, come capro espiatorio, dal suo stesso partito.
Il voto in Italia, che sia per il Parlamento, per i comuni, per le province o per le regioni, si colora sempre dei grandi temi della politica. L’impronta della competizione partitica si spande su ogni cosa, come una macchia d’olio, anche per eleggere il presidente del circolo amici del tre sette.
Dai risultati delle diverse elezioni, tra una scadenza e l’altra della legislatura parlamentare, si misurano sia il gradimento dei governi, sia l’equilibrio delle coalizioni ed il loro rapporto di forze, sia le strategie programmatiche. Il voto locale finisce così sempre per essere influenzato dalla passione ideologica, dalle complessive scelte economiche e sociali del Paese e dalla popolarità dei grandi protagonisti della politica. Non è sempre un bene, al contrario è un male se poi vengono accantonate le motivazioni locali, se poi non si analizza la gestione passata, se poi l’analisi dei risultati non è utile per promuovere i protagonisti virtuosi o per rispedire all’opposizione, o a casa, i più inefficienti e spreconi, ed i più furbastri.
Occorrerebbe soffermarsi su alcune amministrazioni regionali, come quelle della Puglia, della Calabria, del Lazio o della Campania, per comprendere quanto, invece, debbano essere sanzionati dal giudizio degli elettori i fallimenti rilevati, e nondimeno quanto falsi e strumentali siano stati alcuni osannati progetti politici. Analizzando i risultati e gli esiti della decantata etica amministrativa di alcuni protagonisti si può, persino, comprendere quanto siano stati falsi e pretestuosi i tentativi di ostentare una presunta superiorità morale, da far valere come maggior motivazione nelle scelte, ovvero quanto siano stati illusori e privi di effettivo riscontro i richiami all’erogazione dei servizi sociali, quali caratteristiche peculiari e qualificanti del progetto politico di quella sinistra che si propone per la guida del Paese.
Mai come in questi ultimi anni, dall’epoca di tangentopoli in poi, la questione morale è stata sollevata, soprattutto verso le amministrazioni di sinistra, con tanta ripetitiva periodicità e con tanta diffusa collocazione geografica, motivando moti di disappunto e di giustificata inquietudine nei cittadini. Mai, infatti, il bisogno sociale, le questioni igieniche delle città e dei territori, la pietà verso chi soffre, gli sprechi ed i privilegi degli amministratori e delle loro collegate clientele, gli abusi ed il cinismo di alcuni, persino il degrado manifestato con le richieste di prestazioni sessuali, come contropartita per un andazzo in cui si mercificavano anche i diritti, hanno rappresentato un così rilevante ventaglio di criticità morale. Mai ci si è trovati dinanzi ad un andazzo amministrativo di così riprovevole ed arrogante mortificazione sociale
Tra poco meno di due mesi si vota. Si dovrebbe chiedere al corpo elettorale un voto utile ed intelligente. Per utilità ed intelligenza si intende, da una parte, rivolgersi ad indicazioni che abbiano effettiva possibilità di modificare il quadro politico di una regione, per respingere la cattiva politica, e, dall’altra, esercitare il proprio diritto di voto, senza farsi obnubilare dal pregiudizio politico.
Occorrerebbe un voto selettivo, un voto che serva per promuovere, ovvero per bocciare il bilancio consuntivo dei risultati ottenuti, regione per regione. Un capitolo a parte richiederebbe la Puglia, dove Casini si è messo di mezzo. In Puglia, più che altrove, si presenta la necessità del voto utile per contrastare l’azione dell’Udc che ostacola il successo del centrodestra, e che può agevolare Vendola, al cui fallimento morale e politico mancano solo i libri in tribunale.
Vito Schepisi