29 aprile 2010

Stabilità politica e tagli alle spese



Una volta in Italia c’era l’inflazione a due cifre che dimezzava rapidamente l’incidenza del debito pubblico. Una volta, per contenere gli effetti dell’esposizione del Paese, si svalutava progressivamente la lira. Una volta c’era di fatto un accordo consociativo tra politica, sindacato ed impresa.
La tacita intesa consisteva nel dare a tutti qualcosa, a chi più ed a chi meno, nel tollerare ogni eccesso, nel garantire il salario a prescindere dalle prestazioni, nel lottizzare gli appalti ed i posti di lavoro in modo da ritagliare ampi margini per i costi della politica e per coltivare le clientele ed, infine, nel socializzare le perdite delle grandi famiglie industriali a spese dei lavoratori e dei risparmiatori.
Oggi tutto questo non è più possibile, almeno non lo è più come prima. Non è più possibile accumulare debito pubblico a dismisura. La politica monetaria, infatti, non è più gestita dalle autorità economiche e finanziarie nazionali, ma dalla Banca Centrale Europea. Il danaro, così, mantiene buona parte del suo potere d’acquisto ed il debito pesa per quello che è. Se poi è già alto, e cresce ancora, diventa un cattivo segnale.
A fiutare l’odore dei guai ci sono le agenzie che valutano il merito creditizio dei Paesi e lo fanno assegnando, in una scala di indici, la collocazione della fiducia sul debito. Le agenzie di rating sono come gli avvoltoi, che ruotano inesorabili e spietati attorno agli animali feriti, e sono pronte a declassare, senza preavviso ed al minimo segnale di criticità, il giudizio sul debito degli stati, rendendo più problematico, e soprattutto più costoso, il suo collocamento. La Grecia, il Portogallo e la Spagna in questi giorni ne sanno qualcosa.
L’economia somiglia un po’ al principio fisico della distribuzione dei pesi che regolano gli equilibri delle masse. Se si perde l’equilibrio si cade, e spesso, cadendo, ci si fa male. In economia il paese che fa debordare le spese, ovvero che non provvede ad assicurarne la copertura con le entrate, e che infrange il giusto equilibrio tra le poste finanziarie e si indebita eccessivamente, ne paga le conseguenze.
Un paese è come una grande famiglia. Ha le sue entrate, i suoi costi fissi, le spese correnti, i risparmi, gli imprevisti, gli investimenti, i debiti. Come una famiglia, deve usare prudenza, evitando di muovere passi più lunghi della gamba, cioè di spendere più di quanto guadagna, indebitandosi eccessivamente. Una famiglia, inoltre, deve mantenere margini di riserva per gli imprevisti e saper programmare le necessità future.
Con l’Euro sono venute meno le speculazioni sulle monete ed anche l’uso di far pagare il debito pubblico, come accadeva in Italia, ai risparmiatori. I paesi dell’Euro hanno scommesso sulla stabilità monetaria. Per garantirla è stato stipulato un patto che serve ad imporre il contenimento del ricorso all’indebitamento. Il Trattato del 1992, stipulato nella città olandese di Maastricht, ha così posto un argine al ricorso al debito, limitandolo, nell’esercizio finanziario, alla soglia del 3% del PIL.
Da quel momento le cose si sono fatte più serie anche in Italia. Non è stato più possibile, ad esempio, consentire il pensionamento del personale della scuola dopo 15 anni, 6 mesi ed 1giorno, né rinnovare i contratti del pubblico impiego con percentuali d’aumento a due cifre, né assumere personale alle dipendenze dello Stato solo per risolvere le tensioni sociali del Paese. Non è più possibile rilasciare pensioni d’invalidità con la benevolenza di medici compiacenti, né nascondersi con facilità al fisco. Non dovrà essere più possibile disgiungere il salario dal rendimento e dalla produttività. Anche gli enti locali, e tutti gli enti pubblici, dovrebbero fare più economie e tagliare gli sperperi e, se al momento non è affatto così, occorre lavorare perché il pubblico danaro serva a coprire i costi di servizi efficienti, ovvero perché sia investito per obiettivi di crescita, di redditività, d’occupazione e di riduzione della spesa sociale.
Il debito pubblico italiano è altissimo: ha raggiunto il 115% del PIL. Il nostro Paese, anche se ha una situazione generale di maggior stabilità economica, se è tra le 8 potenze economiche mondiali, se ha un basso ricorso al debito ed un’alta propensione al risparmio delle famiglie, ha comunque la necessità di ridurre il suo debito.
La riduzione dei costi della politica, il recupero dell’evasione fiscale, la regolarizzazione dell’economia sommersa, la lotta alle attività mafiose e la confisca dei beni rivenienti dalle attività illecite, ma anche il controllo sulle false pensioni di invalidità, i tagli del personale e delle spese della pubblica amministrazione, i tagli della burocrazia, la razionalizzazione dei compensi erogati alla dirigenza statale e l’abbattimento dei privilegi corporativi e di casta devono tutti contribuire ad abbattere il debito.
E’ sempre meglio pensarci per tempo. Se non lo faremo, la prossima campana potrebbe suonare per noi.
L’Italia ha un impellente bisogno, infatti, oltre che di riforme, di stabilità politica e di tagli alle spese.
Vito Schepisi

27 aprile 2010

Le riforme possono cambiare la politica



Si è in una fase politica in cui tutto ciò che si dice serve solo per testimoniare la propria presenza. Provare ad interpretare le idee ed i propositi dietro le parole di uomini e gruppi, assume più il valore dell’esercitazione giornalistica che non la sintesi storica delle vicende. Prevalgono, al più, i tentativi di rendere visibili le ipotesi di distinzione anziché, al contrario, l’effettiva comunicazione delle strategie politiche.
Fughe in avanti e repentine marce indietro rafforzano la confusione e marcano le contraddizioni tra il pensiero e la storia di uomini e fazioni, come se la propria storia possa mutarsi cambiando l’abito da indossare. Cambiare idea può essere anche un atto di lealtà. Si possono sempre fare i conti con il proprio passato, ma serve la chiarezza del proprio presente e la lealtà verso chi ne ha condiviso il percorso politico.
In questo caotico correre all’avventura, la politica si trasforma in una lotta tattica di posizionamento, senza stimoli di riflessione, senza proposte e senza idee. Più simile all’arena di una competizione per vincere, ad esempio, la coppa in palio del torneo di quartiere di “chi gioca meglio a scopone”, che non lo spazio per formulare le sintesi di pensiero con cui si sviluppa, tra i partiti, il confronto democratico e si formano le ipotesi di governo e le strategie del futuro.
Maggioranze, opposizioni, fronde, primi attori, comparse e ballerini sono tutti coinvolti in questa inenarrabile lotta. E tutti sono là con la presunzione di recitare un ruolo, alcuni sognano di passare alla storia, e tutti che parlano per frasi fatte, come gli allenatori di pallone prima e dopo le partite, per schemi tattici, sostenendo animatamente più ciò che non pensano, ma che più conviene.
Si trascurano, invece, gli errori e le carenze e, nell’angoscia esistenziale della ragione politica della loro presenza, sfugge ciò che invece servirebbe: l’interesse per il Paese. Se si preoccupassero, infatti, di sfornare proposte realizzabili, o di spingere per le riforme che facciano uscire l’Italia dalla sua confusione, forse gli italiani potrebbero persino perdonare tanti abusi e difetti.
La nostra Costituzione, ad esempio, ha bisogno di essere riposizionata ai tempi. Oggi il mondo è cambiato. L’Italia ha trasferito in Europa ampi poteri: si pensi alla politica monetaria ed a quella economica e commerciale. La Commissione Europea si interessa di questioni come l’ambiente, la concorrenza o la gestione dei servizi. Ci sono vincoli per i bilanci ed il debito pubblico dei paesi della Comunità: si pensi a Maastricht. Anche il dopoguerra è lontano. Il pericolo comunista ha perso buona parte delle ragioni delle vecchie inquietudini. Di una Costituzione che si presta all’immobilismo non se ne ha più bisogno.
Dalla consapevolezza dei mutamenti occorrerebbe trarne affinità politiche ed anche costituzionali, e realizzare continuità e coerenza con la nuova realtà. Occorrerebbe adeguare e recepire alcuni principi di garanzia: si pensi, ad esempio, all’istituto dell’immunità parlamentare con cui, a seguito dell’improvvida modifica dell’art. 68 nel 1993, i parlamentari italiani, al contrario di quelli europei, sono stati lasciati alla mercé di alcuni procuratori politicizzati. Occorrerebbe trovare gli strumenti legislativi che impediscano a funzioni dello Stato d’agire in stridore tra loro ed impedire che, ad esempio, attraverso l’uso della giustizia, si possa provare a ribaltare la scelta degli elettori. Occorrerebbe, infine, dar sostanza alla volontà popolare attraverso la definizione dei poteri dell’esecutivo.
L’assente nel confronto politico sembra essere proprio l’interesse generale. Nella ricerca dei modi per vincere o per uscirne con il minor danno possibile, pensando ora al vantaggio del partito, ora alle ambizioni personali, ovvero alle rivincite, o alle vendette politiche, c’è chi perde coerenza e senso della misura.
L’Italia si è così trasformata in un laboratorio teatrale permanente, dove gli attori, consumano il loro tempo ad imparare la parte ed a fare le prove e, indossati i vestiti di scena, rappresentano, una dietro l’altra, tutte le commedie del nostro stupido provincialismo. I pericoli, come quelli della Grecia, ad esempio, non spaventano. Per fortuna che in questo marasma c’è un governo che mostra qualità ed impegno e ci sono ministri, Tremonti ad esempio, che pensa ai conti del Paese, a governare la crisi, a tamponare le questioni sociali, a contenere la rincorsa alla spesa. Non basta, però, solo l’azione positiva del Governo per recuperare spazio alla fiducia e trasformare in opportunità le potenzialità del Paese, occorrono anche stabilità, determinazione e trasparenza e, in una parola, le riforme.
Vito Schepisi

23 aprile 2010

Perchè il Premier va difeso

Quando le calunnie girano con insistenza, saranno pur farlocche, ma qualcosa rimane. E’ questo il metodo con cui da 16 anni la sinistra vorrebbe far passare l’idea che in Italia ci sia una parte sana del Paese, che naturalmente è tutta al loro interno, ed un’altra invece meno affidabile, per lo più corrotta, tollerante verso la criminalità organizzata, pronta a legiferare per proprio uso e consumo, insofferente verso altri poteri, arrogante e persino puttaniera.
La storiella della superiorità morale della sinistra e, di contro, della preoccupazione sociale che creano i governi di centrodestra stenta a rientrare. E questo anche se i fatti dicono cose diverse: anche se persino le leggi sono applicate per alcuni, mentre sono interpretate per altri; anche se la cronaca giudiziaria individua, in misura ben più ampia, responsabilità penalmente rilevanti a sinistra; anche se le città, le provincie e le regioni governate da maggioranze di sinistra costituiscono esempi di cattiva gestione; anche se, quando ha governato la sinistra, il Paese ha mostrato grandi sofferenze.
A propagare l’idea contribuiscono in tanti. C’è da dire che almeno in questo a sinistra ci sanno fare.
C’è una battente informazione televisiva nei programmi di approfondimento che privilegia l’allestimento di grandi e suggestivi palchi di recita. L’articolazione di una regia ben studiata diffonde informazioni inquietanti e deforma spesso la realtà: fa transitare notizie parziali che s’accompagnano a testimonianze o fatti di grande presa; tende ad ignorare, invece, ora il contesto ben più ampio delle circostanze citate, ora i diritti della difesa delle persone coinvolte; toglie la parola a chi fa una diversa ricostruzione dei fatti; provoca la rissa che impedisce di ragionare; fa, infine, intervenire la satira che trasforma tutto in quattro risate. La satira è l’ornamento, come la ciliegina sulla torta, ed ha il vantaggio che non consente repliche, non ha un contraltare ed alimenta lo scherno. Nelle sceneggiature si materializzano a volte anche alcuni solisti, un po’ come Paganini, refrattari ai contraddittori ed alle repliche.
Accanto all’informazione televisiva, c’è la stragrande maggioranza della carta stampata. Quotidiani e riviste che, con toni diversi, si fanno strumento e megafono di persistenti aggressioni mediatiche, che analizzano ed amplificano ogni vicenda sul premier e sulla sua famiglia, anche se di natura privata, anche se priva di spessore politico. Prevalgono campagne di stampa in cui si antepongono alla denuncia, le questioni morbose; campagne che, anche a dispetto dell’informazione, ripropongono ossessivamente per mesi domande formulate come atti d’accusa, e che fanno passare per scoop le foto che riprendono l’interno delle residenze e le relazioni private di Berlusconi e dei suoi ospiti, condite da insinuazioni e da gossip.
Alla carta stampata si aggiunge la faziosa parzialità del sindacato unico dei giornalisti, la Fnsi, che ha montato, senza vergogna, una manifestazione per la libertà di stampa in Italia, dopo che il Cavaliere aveva citato in giudizio alcuni giornali che da mesi conducevano una campagna di stampa offensiva e denigratoria.
Anche l’ordine dei giornalisti che chiude gli occhi sulle tante cadute di stile e sulle tante violazioni della deontologia professionale, e li spalanca, invece, in modo esagerato, per sanzionare il Direttore del Giornale, Feltri, reo di aver pubblicato una notizia, prima tenuta nascosta, sull’ex Direttore dell’Avvenire Boffo, scambiando, per informativa della polizia, una informativa arrivata da ambienti riservati che non modificava assolutamente la sostanza dei fatti.
E poi via da là, con la magistratura che spulcia ossessivamente i bilanci e che analizza ogni vicenda pubblica e privata del Berlusconi imprenditore, di quello politico e di quello privato cittadino. La magistratura che origlia e che iscrive sul registro degli indagati il Capo del governo, anche per frasi confidenziali e pensieri ad alta voce, come accade nei regimi totalitari, dove si condannano le opinioni e i pensieri.
Quando si ricercano reati nelle frasi pronunciate al telefono in conversazioni tra amici, conoscenti, giornalisti e collaboratori e, in assenza di ogni sostanza penale, quando si fanno trapelare alla stampa le intercettazioni private, violando il diritto alla riservatezza, e quando su queste intercettazioni si montano teoremi di ipotetici reati, si sprofonda in un regime giustizialista e si fomentano pericolosi pensieri violenti e forcaioli.
Intercettare le comunicazioni di un membro del Parlamento è anche un reato!
Una magistratura che con in testa il suo organo supremo, il Csm, invade il campo della politica, rivendica la sua legittimità nell’entrare nel merito del potere legislativo del Parlamento, per criticare il contenuto delle leggi, emette comunicati di chiaro riferimento politico, si pone come oppositore del Governo e pretende, persino, di sindacare sul potere del Ministro della Giustizia di inviare gli ispettori in quelle Procure dove si verificano episodi che si prestano ad interpretazioni poco trasparenti.
La Magistratura che nel complesso mette i riflettori sui processi di mafia in cui nella gestione dei pentiti emergono riferimenti al Presidente del Consiglio che, generici e privi di riscontri, nonché privi di movente, ritenuti poi inattendibili, richiamano un attento osservatorio mediatico internazionale con il quale si compromette sia la reputazione del leader che legittimamente, con il consenso degli elettori, governa, sia la reputazione stessa del Paese.
Ma tutto diventa ancora più difficile, se poi ci mettono di loro anche alcuni protagonisti del centrodestra che provano a demolire il carisma del Cavaliere, per lanciare il loro cavallo di razza, imbalsamato, per sua scelta, in una rilevante carica istituzionale. Un Presidente della Camera che si mostra irrequieto e preoccupato per la grande prova di competenza, abilità, credibilità ed autorevolezza con cui alcuni ministri di questo Governo hanno occupato la scena italiana, europea e mondiale, preoccupato che oscuri le sue ambizioni.
L’ex leader del Msi, sdoganato da Berlusconi, ha superato ostacoli che sembravano insormontabili, passando da una sorta di patto ad excludendum, che si era stabilito con l’arco costituzionale della prima repubblica, a fare prima il vice Presidente del Consiglio, poi il Ministro degli Esteri ed infine il Presidente della Camera dei Deputati. Un percorso politico esaltante e lo sarebbe ancora di più se focalizzasse il suo esclusivo impegno verso il Paese, lasciando al futuro il proprio destino di uomo di Stato.
Ma un leader carismatico, uno statista, colui che guida la maggioranza che si propone di varare dopo anni di tentativi falliti, dal 1983 della Prima Bicamerale presieduta dal Liberale Aldo Bozzi, le riforme istituzionali e le grandi riforme della Giustizia e del fisco, va difeso senza se e senza ma. Non si possono privilegiare le aspettative di singoli rispetto all’obiettivo storico che si vuole raggiungere. Non si può inoltre consentire che in tv uomini di questa maggioranza facciano il tiro al bersaglio sulla propria parte politica e facciano il verso, invece, a coloro che vorrebbero abbatterla.

Vito Schepisi

21 aprile 2010

Il Pdl resterà un partito di popolo?


Nelle motivazioni del dissenso di Fini verso Berlusconi entra anche l’opinione del premier, non solitaria, che sia proprio la retorica di una certa letteratura, contro la criminalità organizzata, a consolidare l’idea che il malaffare possa diventare una reazione alle inermi ed autoreferenti consorterie politico-intellettuali.
Gli scrittori, i giornalisti e gli intellettuali che professionalizzano il mestiere di oppositori della disonestà, spesso con lo scopo di favorire il proprio tornaconto, finiscono per attribuire ai fenomeni malavitosi un carattere quasi leggendario. Quando poi si arriva a rappresentare l’immagine dell’Italia, come quella di un Paese irrimediabilmente compromesso, in cui una parte dello Stato, sempre quella che non è “politicamente corretta”, sia connivente, complice e partecipe del malaffare, anche a dispetto dei fatti, si rende un pessimo servizio all’immagine complessiva del Paese. Un’insistenza che nuoce al turismo ed al “made in Italy”, e che è anche ingenerosa verso l’impegno delle forze dell’ordine, della magistratura e del Governo nel reprimere, con ottimi risultati sul campo, e non sui “best seller”, la criminalità organizzata.
La critica all’antimafia che sia fa mestiere, la sosteneva anche Leonardo Sciascia, quando rilevava e stigmatizzava i comportamenti di alcuni protagonisti che definiva, appunto, professionisti dell’antimafia.
Il sentimento di ripulsa verso la criminalità non ha, invece, colore politico, né può essere motivo di distinzione ideale. E’ un istinto spontaneo che parte dalla consapevolezza del senso dello Stato, che percorre la maturità civica dei cittadini, che si consolida con la civiltà dei rapporti tra istituzioni e società e che si afferma, infine, con il bisogno avvertito della legalità.
Il contrasto alla criminalità, tra la gente civile, è un sentimento di rifiuto naturale senza nessuna caratterizzazione antropologica. Il confronto sulla lotta alle mafie non diverrebbe, infine, motivo di ulteriore e superfluo conflitto politico, se non ci fosse chi si cimenta nel dimostrare di averne più titolo.
In concreto, ciò che è trapelato del discorso di Fini è un mix di luoghi comuni e di argomenti senza sostanza. Sembra che nei finiani si sia svegliata la nostalgia per la vecchia politica, quando per dar tinta alle ambizioni personali di alcuni, o per soddisfare le pressioni di gruppi, ovvero per poter imporre i propri interessi particolari, si formavano prima le correnti organizzate e poi si studiavano a tavolino i dissensi politici: spesso uno sciocchezzaio di luoghi comuni, di fantocci polemici, di processi alle intenzioni e di distinguo metodici.
Fini così ci riporta alla politica delle chiacchiere e dei distinguo. Altro che Ezra Pound e la battaglia per le proprie idee, se queste si riducono alle questioni, ad esempio, del voto agli immigrati, senza un confronto, senza gli opportuni approfondimenti, senza un quadro d’insieme sulle presenze, sulle regolarizzazioni, sulle quote di accoglimento compatibili. Un’uscita di Fini non concordata, sulla scia di un’iniziativa demagogica promossa da Veltroni, e proprio quando in Europa si avvertivano i sintomi delle contraddizioni tra i principi sacrosanti dei diritti all’integrazione e le difficoltà di far osservare le leggi, di debellare la clandestinità e di assicurare il mantenimento dei traguardi di civiltà maturati.
L’integrazione non si raggiunge con le leggi, ma attraverso la conoscenza, la partecipazione e la legalità. Le leggi servono per regolare le questioni, per sancire diritti e doveri, non per integrare esperienze e culture diverse.
I temi etici ed i diritti civili sono entrati di recente nel patrimonio culturale della destra ex reazionaria di Fini. Fanno parte di una cultura liberale, estranea per principio agli eccessi e richiedono, pertanto, riflessione e moderazione. Nel Pdl il confronto su questi temi non è mai stato chiuso, e non è mai mancato, in sede di scelte, il ricorso alla libertà di coscienza dei gruppi parlamentari. Dov’è allora il contendere?
I rapporti con la Lega sono quelli di una leale collaborazione tra alleati impegnati nell’azione di governo e nell’attuazione del programma concordato. L’alleanza è stata voluta con l’accordo di tutti, Fini compreso. La lealtà è d’obbligo, pertanto, ed i patti si rispettano. E’ vero che a volte spuntano eccessi e protagonismi di singoli leghisti, ma si rompe o si mette in discussione un’alleanza per un eccesso di uno o più singoli?
Le politiche fiscali, quelle economiche e quelle della spesa, di cui, assieme alla questione del Mezzogiorno, si fa sostenitore il Presidente della Camera, sono state condizionate dalla crisi. I pericoli per l’Italia sono stati enormi, a causa del debito pubblico, si veda la Grecia. La gestione di Tremonti, però, compresi gli interventi nel sociale, merita plauso, come è attestato dai riconoscimenti degli organismi europei ed internazionali. Sul mezzogiorno, inoltre, occorre uscire dal generico. Sono necessarie riflessioni per non ritornare alle esperienze del passato. Si ad infrastrutture, si a colmare il divario nei collegamenti, si agli investimenti, no però all’assistenzialismo. L’economia assistita non crea sviluppo, ma, come una droga, crea dipendenza. L’assistenzialismo crea clientele, servilismo, corruzione e mafia.
Ciò che ci sfugge di Fini è, pertanto, il fine del tutto. Non si capisce quali vantaggi pensa di poter ottenere con quest’avventura. Cosa ci ricava nello spaccare il centrodestra? Cosa pensa, soprattutto, di realizzare dividendo la componente degli ex di AN che, per buona parte, è rimasta fedele allo spirito del Pdl? Perché Fini vuole minare l’esperienza di un partito di popolo che trae la sua forza dall’interpretazione dei bisogni e dei sentimenti della maggioranza degli italiani?
Gli elettori del centrodestra si sono spiegati abbastanza bene, anche di recente, col voto. Ma allora perché non voler capire? Perché ignorare le fondamenta su cui è nato e si conferma il Pdl? L’Italia, liberale, democratica, moderata e riformista era alla ricerca, dopo 50 anni di partitocrazia in Italia, di un sistema partito che fosse capace di separare i giochi dei politici di professione dagli interessi del Paese.
La formazione del Pdl aveva appunto alimentato le speranze di chi aveva sperato che in Italia si potesse costruire il futuro della democrazia liberale e di chi aveva pensato che la semplificazione e la trasparenza delle scelte e dei programmi fosse divenuta prioritaria rispetto ai voleri delle caste e delle consorterie affaristico - politiche. Ora Fini che vuole? Col Pdl era stata fatta una scelta di metodo, vuole ora cambiarla?
Anche il centrosinistra con Veltroni, aveva mirato a chiudere alle coalizioni eterogenee privilegiando, al contrario di Prodi, la coesione più che l’Unione. Se alla sinistra è mancato il coraggio di assumere una fisionomia precisa, se è mancata una strategia chiara, se è mancato un programma visibile, al centrodestra tutto questo non è mancato. Nel PD, molto più diverso nelle sue componenti, Franceschini e Bersani non hanno correnti organizzate, non entrano in conflitto polemico, esprimono le proprie idee liberamente senza caricarle di forzature e senza minare l’unità del PD. Perché Fini, allora?
Ritornando alla citazione di Ezra Pound: "Se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui". Pensiamo che se un uomo ( Fini) dice: “Berlusconi pensa che ci siano delle incomprensioni, invece il problema è solo politico. Ci sono punti di vista diversi tra me e il premier", se dice questo e non ne assume tutte le conseguenze … o i suoi punti di vista non valgono niente, o non vale nulla lui.
Vito Schepisi

16 aprile 2010

La voce grossa dei perdenti




Se la base del Pdl è disorientata per le reiterate, ed all’apparenza pretestuose, contrapposizioni create al suo interno da Fini e dai finiani, la base del PD è confusa per la mancanza di una linea politica e per la difficoltà nell’individuare una visibile e coerente strategia riformista.
Bersani non riesce ad inventarsi un qualcosa, per contenuti, assetti e prospettive, da indicare agli elettori come alternativa democratica al Governo del Paese. Il Pd perde, così, voti ed eletti, e perde comuni, provincie e regioni, perché nessuno riesce ad interpretarlo, perché è ondivago, perché è contraddittorio, perché sembra una suocera acida che ce l’ha con la nuora perché le ha sottratto l’affetto esclusivo del suo “bambolotto”.
Mentre, ancora, il Presidente della Camera si sbraccia per smarcarsi dal Premier, e mentre i suoi luogotenenti fingono di ignorare che il loro “ducetto “ è la terza carica dello Stato grazie anche ai voti determinanti della Lega, checché ne pensi Bersani, il Partito Democratico sprofonda nella confusione più profonda. Il PD viene trascinato in una pozza d’acqua torbida, mestata da Prodi, alla ricerca della chiave di lettura di una incomprensibile disquisizione organizzativa sull’ipotesi di gestione federale.
Invece di darsi una precisa fisionomia e di accreditarsi come sinistra moderata e riformista, il PD, senza pace, da Veltroni in poi, rincorre ora gli effetti speciali, ora un nugolo di personaggi umorali e personalità inquietanti, ovvero insegue politiche prive di un progetto strategico, di un qualcosa di più del “far fuori”, ad ogni costo, l’avversario politico.
La proposta dell’ex premier dell’Unione di creare un partito federale, gestito, regione per regione, in modo grossomodo autonomo, contribuisce solo ad intromettere un altro fantoccio polemico alle già tante e differenti faide interne al PD. Ancora un motivo di divisione polemica tra ex Popolari ed ex DS, tra veltroniani e dalemiani, tra violacei, grillini e moderati, e tra rancorosi, vendicativi e rinnovatori. Un nuovo contributo alla già pazzesca confusione della sinistra italiana.
Se Fini si pone, così, come l’antagonista alla Lega nel suo braccio di ferro con Berlusconi, il PD di Bersani fa le prove, invece, per inseguire la Lega, guardando al nord dove, senza il partito di Bossi, non si governa né le regioni, né il Paese.
Se Fini si mette di traverso al programma del Pdl, alla convergenza sulle riforme, e quindi alla maggioranza ed a Berlusconi, Bersani, per nuovo, si riabbraccia con il redivivo ed obsoleto Prodi.
Se Fini, attrezzatosi di trapano a percussione, si appresta a perforare il buonsenso e se, con il suo trasformismo, mira ad indebolire la portata dell’ennesima vittoria elettorale del centrodestra, Bersani, di contro, fa di tutto per legittimare la sconfitta del suo partito, per confermarne la preoccupante carenza di idee, per stabilirne l’inutilità propositiva, per evidenziarne il disorientamento politico e per stabilizzare la subalternità del PD sia a Di Pietro, sia all’ambiguità delle sue frange nostalgicamente neo comuniste.
Fini e Bersani, purtroppo per loro, sono i due perdenti della recenti elezioni regionali. Lo sono un po’ per le scelte fatte, un po’, come nel caso del PD, per i condizionamenti imposti dagli alleati scelti, ma si comportano come se fossero i due vincenti.
Sia il Presidente della Camera che il leader del PD si mostrano restii a riconoscere le loro responsabilità e perseverano, piuttosto, negli errori, fingendo persino di ignorarne la portata e, trascurando il significato politico del responso delle urne, rischiano di trascinarsi nello scontro polemico anche un po’ di ciò che rimane della civiltà democratica e della cultura del confronto di questo Paese.
Sia l’uno che l’altro, con atteggiamenti e partenze diverse, finiscono, con l’ostacolare ora la semplificazione del quadro politico, ora la chiarezza delle posizioni, ora anche gli impegni presi con gli elettori. Ciò che lascia perplessi è che non possono che esserne consapevoli. In definitiva, mostrano invidia per i successi di questo Governo.
L’uno, Fini, appare come un cecchino appostato sul tetto che prende di mira chi voglia transitare sulla strada del rinnovamento del Paese. L’altro, Bersani, appare, invece, come un giocatore di poker che bara al gioco e cambia ripetutamente e maldestramente le carte sul tavolo: è come un giocatore che cerca ammiccamenti con gli altri contendenti, non per cercare di vincere a sua volta, ma per spingerli ad ostacolare l’unico che abbia l’abilità di vincere.
Fuori dalle metafore, sia l’uno che l’altro, Fini e Bersani, sono accomunati dalla stessa preoccupazione di ostacolare chi si mostra capace e vincente, e lo fanno con ogni mezzo e pretesto, anche a costo di danneggiare il Paese.
Fini, che rinfaccia a Berlusconi l’appiattimento del Pdl sulle scelte della Lega, finge di non accorgersi che è tra gli sconfitti morali della recente competizione elettorale. Il centrodestra nel complesso ha vinto le elezioni grazie all’ampio consenso degli elettori per l’azione di Governo. Di questo consenso ne ha beneficiato maggiormente la Lega che si è rafforzata nelle regioni del Nord, anche a discapito del Pdl. La confusione delle voci e dei toni all’interno del Partito di Berlusconi hanno privilegiato nelle urne il partito di Bossi. Le polemiche scatenate ad opera del Presidente della Camera, e dei suoi uomini, in particolare sui rapporti con la Lega e su alcune questioni molto avvertite al Nord, e non solo là, come l’immigrazione e la sicurezza, ad esempio, hanno, infatti, visibilmente favorito il voto alla Lega.
Fini tutto questo lo sa. Non può non saperlo!
Il Pd di Bersani, invece, sembra il partito delle “monadi”, soggetti unici ed indivisibili di una realtà immaginaria. Come nel pensiero di Liebniz si sentono sostanze diverse caratterizzate da un diverso grado di spiritualità. Da qui la voce grossa di Bersani, come se avesse vinto le elezioni. Da qui l’imprimatur sulle riforme, il giudizio di merito sul braccio di ferro e sulla possibile frattura tra Fini e Berlusconi e lo schierarsi (stranamente!) sulle ragioni del primo. Se Bersani, dal vecchio pci, ha mutuato quella sorta di superiorità morale che lo fa sentire legittimato ad esprimere giudizi di merito ed a pretendere che gli altri, benché legittimamente vincenti, si adeguino a recepirli, Fini non sembra essere da meno, e dal vecchio Msi, ha mutuato il fastidio per i metodi della democrazia.
Tra i perdenti, c’è quanto meno un filo che congiunge!
Vito Schepisi