28 dicembre 2009

L'uso politico della giustizia


Se una parte consistente della magistratura, da oltre 15 anni, ha sotto tiro il capo del Governo o il capo dell’opposizione a seconda del ruolo svolto, e lo fa ricorrendo ad ogni espediente giudiziario, spesso rasentando i limiti della correttezza giuridica, vuol dire che in Italia c’è qualcosa che non funziona a dovere. E non è solo la magistratura!
Non è solo l’ordinamento giurisdizionale del Paese ad avere responsabilità se si trova ad esercitare un potere che, per le modifiche intervenute all’Impianto costituzionale, alimenta le sue facoltà di intervento-interdizione sull’esercizio legittimo del potere legislativo e di quello esecutivo.
E’ come l’inverso dell’esempio della bicicletta: se la si dà, non ci si può lamentare che la si usi pedalando. La magistratura ha voluto la bicicletta, e gli è stata data. Ora la usa e pedala. Resta da sapere se sia legittimo che la usi su tutti i percorsi, e se possa invadere spazi occupati da altri poteri. Se ci chiedessimo: la magistratura, e con essa il suo organo di autogoverno, è lo Stato o è solo una funzione dello Stato? La risposta l’avremmo nel testo stesso della Costituzione. Per la nostra Carta fondamentale, infatti, non ci sarebbero dubbi: lo Stato è espressione dalla volontà del popolo.
Una democrazia ha nella sua organizzazione politico-istituzionale gli anticorpi per impedire che le funzioni dello Stato si rivoltino contro le scelte del popolo. Ma se questi anticorpi non reggono più vuol dire che si sono indeboliti col tempo o che siano stati aggrediti dalla trasformazione genetica dei virus che, invadendo gli spazi della democrazia, ne hanno deformato le funzioni. Anche il vaccino, come per le malattie influenzali, va così modificato ed adeguato alle necessità perché sconfigga gli assalti e non metta a rischio la salute dell’intero Paese.
La politica ha così il dovere di difendere il suo primato di dispensatore di strumenti di democrazia, soprattutto se le difese sono state aggredite e se le forze di garanzia mostrano d’essere state invase dagli assalti virulenti di germi. L’inerzia della politica, alla lunga, finirebbero con indebolire le certezze dei cittadini, col rendere inutile persino l’esercizio del voto e col far prevalere la cultura dell’antipolitica, già purtroppo ampiamente diffusa.
Il primato della politica si difende in un solo modo, ed in due tempi. Il modo è solo quello ineludibile delle riforme. I due tempi sono relativi al rispetto delle regole della democrazia. Il primo è rappresentato dalla ricerca del dialogo e del pluralismo delle proposte, per ricercare le più ampie convergenze possibili. Il secondo, superato il confronto con l’opposizione e con le parti rappresentative della società, stabilisce l’immediato passaggio alle scelte attraverso l’attività del Parlamento. E’ così, e solo così, che prevale la sovranità popolare.
In nessun caso si deve, invece, lasciar spazio alla pressione dei media, a quella delle caste, delle corporazioni, ed alle spinte di quei poteri che pretendono di intervenire per stabilire le loro regole di gestione della cosa pubblica.
Le Istituzioni di un Paese sono come un mezzo meccanico dove ogni strumento ha la sua funzione. Non si può sottrarre una parte e pretendere che funzioni anche meglio, come in un’automobile non si può sottrarre un pistone e pretendere che la macchina cammini più spedita. E, come per un mezzo meccanico, anche le Istituzioni hanno bisogno di manutenzione. Come le auto, anch’esse subiscono nel tempo il peso dell’obsolescenza. Se si tolgono dalle auto pezzi di motore, questi vanno sostituiti, e se non regge più il suo uso, il motore va anche cambiato e le tecnologie vanno aggiornate.
Il motore dello Stato è La Costituzione ed il suo meccanismo ruota intorno ai tre poteri previsti. Ma come la camera di scoppio in un auto non può esercitare la funzione del cambio, nello Stato il potere giurisdizionale non può esercitare quello legislativo, né impedire che la macchina cammini, imbrigliando il potere esecutivo. La Giustizia non può esercitare il ruolo della politica.
Vito Schepisi

21 dicembre 2009

Le riforme


Da qualche anno, la parola magica della politica è “riforme”. E’ come per il Barbiere di Siviglia … tutti le vogliono, tutti le cercano … purché siano di qualità. E’ dal 1983, con la Commissione Bicamerale di Aldo Bozzi, che provano in Italia a farle queste benedette riforme costituzionali e legislative dello Stato. Fino ad ora è stato un inutile processo di ipocrisia politica, un tentativo reiterato e dispendioso, nebuloso, dispersivo e senza senso. Tutti, a parole, le riforme le vogliono, ma tutti purché non siano un qualcosa. E ciascuno fa un elenco di ciò che non devono essere. Nella perizia di fare elenchi di ciò che non devono essere, va sempre a finire che non lo sono affatto: cioè che non si facciano. Non devono servire a questo, non devono favorire quello, così stranamente sfugge la percezione di ciò che invece dovrebbero essere.
La verità è ben diversa. Appare un gioco ostruzionistico, una melina politica. Sembra, infatti, che sia come se ben si sapesse che le riforme servano a chi ha un modello sociale da proporre, ma che, allo stesso tempo, sia anche consapevole di non avere nell’area di riferimento una larga coesione su una strategia politica, costruita questa su un nuovo modello di società da rilanciare. Va a finire che ci si preoccupi solo che non siano altri a prendere l’iniziativa, ed in questo caso a stroncarla.
Sembra la politica degli interessi conservatori degli strati più retrivi e corporativi del Paese. Uomini che spacciano la distruzione dei valori tradizionali di un popolo per nuovo progresso. Soggetti che fomentano lo scontro etico ed i dubbi sui valori della nostra civiltà e che si attrezzano a porre steccati di incomprensione, per trascinare alla reazione contro uno sviluppo ordinato del Paese. Una classe conservatrice e reazionaria dove il dividere serve per imprimere una precisa ragione di casta e di controllo. Parrucconi e sepolcri imbiancati che si nascondono dietro le contrapposizioni pregiudiziali, che fomentano odio, che diffondono le parole d’ordine del disfattismo, per nascondere i successi, come è capitato nel periodo più nero dei mercati mondiali dal 1929, quando si è usato anche il gossip per celare i successi del Paese. E’ emersa persino la volontà di infangare l’Italia. Un rancore che sembra il frutto non solo dell’invidia, ma del calcolo. C’è una commistione tra poteri e partiti preoccupata ad impedire che l’azione dell’esecutivo riesca efficacemente ad incidere, perché ciò li metterebbe definitivamente fuori gioco per “impotentia generandi”o addirittura “coeundi”.
Non si capisce, però, come si faccia a fare le riforme senza cambiare qualcosa. Tutti le vorrebbero purché non favoriscano qualcuno. Ma le riforme in democrazia favoriscono tutti. Bisognerebbe che sia ben chiaro ai competitori della politica che prima di essere premier, in democrazia, si compete per esserlo. Se volessimo trovare una riforma democratica che impedisca per legge che il governo del Paese sia presieduto da chi vince le elezioni, bisognerebbe rivolgersi ad un altro sistema. Di Pietro ed i suoi modi, pertanto, non sono un esempio di democrazia, ma di reazione squadrista. Il neo fascismo violento è reazione. E tra le riforme non rientra.
Bisogna aumentare i poteri dell’esecutivo, ma senza con questo favorire Berlusconi. Bisogna riequilibrare i poteri costituzionali ma senza favorire Berlusconi. Bisogna riformare la Giustizia ma senza favorire Berlusconi. Bisogna riformare la funzione del Parlamento ma senza favorire Berlusconi. In questo modo, però, non si può che vedere una vita dura per le riforme. In definitiva alcuni, forse troppi, vorrebbero solo mettere in un angolo Berlusconi, non fare le riforme.
La verità è che in Italia ci sono larghi strati di burocrati e di detentori di poteri di casta che le riforme invece non le vogliono affatto e che si servono dei politici compiacenti per affossare ogni tentativo. E lo fanno ponendosi strumentalmente sempre dietro l’ipotetico paravento del “cui prodest?” Naturalmente tutti dicono che sia sempre e solo Berlusconi.
Vito Schepisi

17 dicembre 2009

Regime giudiziario



Saranno trascorsi 18 anni il prossimo febbraio da quando la Procura di Milano arrestò il “mariuolo” Mario Chiesa e dette il via alla stagione di Mani Pulite. Da quella data cambiarono le stagioni politiche del Paese. Era crollato tre anni prima il Muro di Berlino, il Pci aveva appena cambiato nome in Pds, e si collocava, con l’aiuto di Bettino Craxi, nella famiglia dei socialisti europei, dopo averli per anni considerati revisionisti e borghesi. Nelle politiche del 1992, con il 16,1% e facendo registrare un meno 10, 5% rispetto all’ultimo risultato del Pci, i post comunisti, avendo anche subito una scissione col Partito della Rifondazione Comunista, 5,6% alle stesse elezioni, facevano registrare un rilevante minimo storico. Un tracollo!
La caduta del muro aveva liberato il voto degli italiani. Veniva giù, assieme ai blocchi di cemento che avevano diviso la città tedesca, anche quel consociativismo che aveva congelato il quadro politico e che, come aveva sostenuto fino all’ultimo momento della sua prigionia e del suo assassinio, Aldo Moro, si apprestava a sconfinare nell’ineluttabile fase del compromesso di potere tra cattolici e marxisti. E’ in quella fase che nasce mani pulite. In quella fase in cui il partito post comunista è travolto dalla consapevolezza del fallimento del modello sociale che pretendeva importare in Italia. Nel momento in cui emergono le omertà, le viltà, le bugie, la propaganda, le illusioni, l’orrore.
“I comunisti sono gli unici che ci difendono" - Sono le parole che l’allora Vice Procuratore capo del pool di mani pulite, Gerardo D’Ambrosio (dal 2006 parlamentare del PD), disse al PM Tiziana Parenti che indagava sulle tangenti incassate dal Pci. La stessa Parenti che, dimessasi dalla magistratura nel 2003, dirà: “Mi venne affidata l'inchiesta Greganti non perché fossi la più brava fra i 50 sostituti, ma perché ero comunista e quindi avrei dovuto avere un occhio di riguardo. Era una questione di "opportunità"! In pratica mi chiese (D’Ambrosio) di fare una cosa disonesta deontologicamente, proponendo l'archiviazione. Fatelo voi, dissi a lui e a Borrelli, ma lasciate fuori me -Mi fu detto che mi divertivo a perseguitare i comunisti”.
Sono le stesse cose che la sinistra dice tuttora quando accusa Berlusconi di “ossessione dei comunisti”, quando vengono ricordate le viltà e le gesta infelici degli uomini di quel partito. In Italia si vuole che sia proibito parlare del fallimento comunista, e delle sue malefatte, come se non si dovesse più parlare degli orrori delle ideologie di massa, se non solo in riferimento al nazi-fascismo. Invece no! Il comunismo è stato del tutto simile ed a volte speculare al nazi-fascismo. Perfettamente sovrapponibile!
Il Pool di mani pulite partiva da una volontà politica più volte emersa a margine di quelle inchieste: quella di tener fuori la sinistra post comunista. Un salvacondotto che politicamente doveva legittimare la richiesta degli ex comunisti di assumere la guida del Paese. Benché fosse crollato il comunismo, l’Italia si doveva rivolgere agli ex comunisti per dare una svolta di cambiamento ai quasi 50 anni di corruzione, di immobilismo e di politica consociativa in cui anche il Pci aveva sguazzato. La rivoluzione di mani pulite eludeva la verità giudiziaria per trasformarsi in una ben precisa azione politica. Eludeva la costatazione che c’era un sistema di partiti che, salve alcune eccezioni (missini e radicali), toccava tutti i partiti in ordine direttamente proporzionale alla loro influenza. Il Pool aveva deciso di stroncare solo una parte della classe politica, facendo prevalere l’assunto che, se si toccavano gli ex comunisti, veniva meno tutto il castello di mani pulite. E’ stato un golpe giudiziario, lo stesso che ha smosso la fantasia del simbolo più crudo di quella stagione, Antonio Di Pietro, ideatore a quei tempi di un teorico golpe giudiziario di rilevanza prima europea e poi mondiale, come l’Ulivo mondiale di Prodi e compagni.
Sono trascorsi 18 anni e siamo ancora allo stesso punto. La magistratura, caparbia, delegittima le scelte democratiche degli elettori, anche se il Paese, di contro, non ne vuole sapere di affidarsi alla sinistra, anche se mischia le carte per confondersi e nascondersi dietro i nuovi soggetti politici che costituisce. I tre ultimi presidenti della repubblica che si sono succeduti, espressi da quell’area, o convertitisi dopo accuse gravi, ottenendone la redenzione, hanno infarcito gli organi che presiedono le garanzie (legittimità delle leggi ed autogoverno della magistratura) di uomini schierati a sinistra. Un pericolo che richiede attenzione e riforme. Il Paese è ora in una morsa che stringe l’esecutivo in un attacco, senza soluzione di continuità alla sua legittimità, benché sia espressione del voto popolare. L’Italia vorrebbe, invece, girar pagina.
Sarà mai possibile chiudere questa stagione e porre fine a questo regime giudiziario?
Vito Schepisi

14 dicembre 2009

Uomini e modi disgustosi


A margine della notizia c’è il disgusto. Naturalmente sto parlando della vile aggressione al Presidente del Consiglio. C’è il disgusto per una politica che è uscita dall’alveo della lotta per le scelte, ed è uscita dalle ispirazioni ideali degli elettori che si cimentano con le immagini di una società, non priva di carenze e di difetti, ma impegnata a rincorrere gli obiettivi della crescita.
Nella vita politica italiana, dalla caduta del fascismo in poi, nell’era repubblicana, ci sono stati due macigni che hanno ostruito la strada alla normalità del confronto politico. Due grossi ostacoli che hanno impedito l’accesso sereno alla normale agibilità politica di un Paese libero. Il primo ostacolo è arrivato dal pericolo del possibile avvento di una nuova dittatura, quella comunista, del tutto simile a quella realizzata sulla base dell’intolleranza reazionaria e del nazionalismo autarchico fascista. L’Italia ha dovuto lottare e fare le sue scelte, a volte obbligatoriamente intorno al simbolo religioso che richiamava la comune tradizione popolare, per sventare il pericolo del reiterarsi dell’oppressione contro il libero pensiero, la libera iniziativa e la libera autodeterminazione del popolo. Questo pericolo diretto, su cui il PCUS di Mosca aveva investito rubli ed impegno strategico, è durato sino al 9 novembre del 1989, fino al crollo del Muro di Berlino. Un evento quello di 20 anni fa che ha liberato popoli e speranze, e che ha liberato anche l’Italia dall’obbligo irreversibile di una scelta elettorale, qualche volta con la mano sul naso per alleviare la puzza.
L’Italia però è il Paese di Depretis. Il trasformismo è nel dna della sinistra. Lo si è visto anche con la conversione all’antifascismo dell’ultima ora, o alla riconversione a regime abbattuto, di politici e di uomini di cultura. In Italia ci si può anche definire liberaldemocratici da sempre, solo per un auto referente atto di fede, anche avendo assunto in passato incarichi importanti nel Pci. Nel nostro Paese, Veltroni, ad esempio, ha potuto dire, senza far ridere tutti, di non essere mai stato comunista.
Il secondo macigno che ostacola la normalità è l’antiberlusconismo. E’ questa un’altra artefatta corrente di pensiero che raccoglie per strada coloro che per motivi di contrapposizione politica, ovvero di lotta di potere, di antiliberalismo, di dirigismo, di interessi economici, di opportunismo, di difesa corporativa e di casta, ovvero per rancori ed ambizioni personali, vedono in Berlusconi un ostacolo alle loro scelte ed ai loro interessi. L’antiberlusconismo è visto, anche e spesso, come uno strumento per conservare i privilegi acquisiti: si guardi alla magistratura, alla finanza, alle banche ed alla grande industria.
Campione dell’antiberlusconismo più becero e sbracato è l’ex PM di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. Mai poté il suo cervello quanto la sua ferocia, mai poté la sua lingua quanto il suo cinismo, mai la sua capacità politica quanto la stupidità di quelli che l’hanno buttato nella mischia per usarlo, finendone usati. Ci sono uomini che non hanno il senso della misura, reazionari, ignoranti, violenti, furfanti che si rifugiano dietro la democrazia per farsene scudo. Si trovano tutti tra i fautori dell’antiberlusconismo.
Ciò che è capitato a Milano al Capo del Governo dà la misura del pericolo dell’antiberlusconismo: un ulteriore ed ingombrante macigno che ostacola e svilisce il confronto democratico. Non esiste, infatti, un berlusconismo come corrente di pensiero politico, ma esiste solo una parte moderata del Paese che prevale elettoralmente sui temi della sicurezza, dell’efficienza, del controllo dell’immigrazione, dell’occupazione, delle riforme e dello sviluppo degli investimenti in una prospettiva di garanzie sociali coerenti con la tradizione europea e con i diritti relazionati ai doveri. C’è un Paese di cittadini e non di caste che vorrebbe vedere aumentare i servizi e la loro efficienza e vedere ridotto e ben utilizzato il prelievo fiscale. Non c’è un sistema Berlusconi, ma un sistema liberale che si contrappone al sistema della conservazione, dei privilegi, degli abusi, dell’arroganza, della mortificazione, dell’ingiustizia, della burocrazia, della cooptazione politica e della demeritocrazia.
Ci sono responsabilità per il linguaggio improprio usato oggi nel Paese, per le parole d’ordine che circolano su internet, per le manifestazioni politiche di piazza organizzate sul concetto dell’antiberlusconismo. C’è una responsabilità per i processi sceneggiati in televisione, con lo stravolgimento di verità giudiziarie, con monologhi di accuse estratte dalle tesi accusatorie, senza dar spazio alla difesa. Sono responsabilità che appartengono a uomini e modi disgustosi. I democratici veri dovrebbero respingere questa barbarie!
Vito Schepisi

11 dicembre 2009

Un Paese strano



E’ uno strano Paese l’Italia. Non me ne vogliano i connazionali, anche perché parlo dell’Italia che appare, non di quella della gente umile che lavora, che si impegna, che si batte, che fa sacrifici. Sembra persino strano che ci sia ancora gente che si dà da fare, che ci siano uomini che ci provano, che a volte riescono ed altre no, come è dappertutto nel resto del mondo. Parlo dell’Italia che è sui giornali, di quella che parla, di quella che grida, di quella che accusa, di quella che finge, di quella che non mostra d’avere grandi problemi di vita, di quella che appartiene per un verso o per l’altro al mondo dell’informazione, della cultura, del gossip e della politica. Sono questi i quattro filoni portanti della notorietà che una volta erano, salvo eccezioni, attività ben distaccate e che oggi, invece, si intrecciano, come accade in un circo, dove dal ruggito di leoni e tigri si passa al trapezio, e dai giochi di prestigio ai clowns.
E così che capita che un paparazzo dica che l’Italia gli faccia schifo, solo perché è stata ritenuta illegale la sua abitudine di chiedere alle vittime, colte in immagini fotografiche imbarazzanti, spesso ricorrendo a stratagemmi e violazioni della privacy, di pagare per togliere le immagini dal mercato, prima che fossero vendute ai giornali di gossip. E così che capita che ad alcuni politici venga in mente di pubblicare a pagamento su giornali stranieri pagine di ingiurie verso il Presidente del Consiglio, leader di una maggioranza eletta democraticamente dal popolo italiano, a cui, stranamente, il politico in questione chiede ancora voti elettorali. E così capita anche che in un pomeriggio romano vengano organizzate manifestazioni a favore della libertà di stampa, perché un Presidente del Consiglio, ritenutosi diffamato da alcuni giornali, si è rivolto alla giustizia. Tra loro uomini dalle facce di bronzo che contestano ad altri di fare né più e né meno di quanto loro hanno già fatto, spesso intervenendo con richieste risarcitorie non sulle ingiurie, ma sulle opinioni; non sulle insinuazione disgustose, ma sulla satira. E capita che ad organizzare la manifestazione ci sia la Federazione della stampa, la Fnsi, sempre assente invece quando l’arroganza della politica è stata davvero intimidatoria nei confronti di alcuni giornalisti. E così che capita anche che il Parlamento europeo sia stato investito dal compito di stabilire se in Italia ci sia o meno agibilità per la libera informazione o se ci siano motivi di preoccupazione per le stesse istituzioni democratiche. Ed è stano che tutto questo accada mentre una gran parte degli italiani avverte un’aggressione quotidiana verso la maggioranza ed il Governo e verso il Presidente del Consiglio Berlusconi.
Ma non è anche strano un Paese dove il Presidente del Consiglio, investito più volte dal consenso e dalla fiducia degli elettori, venga ripetutamente chiamato in causa dalla magistratura per 15 anni, senza soluzione di continuità e per le vicende più disparate? Non è strano che dinanzi ai successi interni ed internazionali di questo governo si intensifichino gli attacchi come in una escalation dove si punta sempre più in alto fino ad accuse di reati più turpi e richieste risarcitorie di cifre “lunari”?
In un Paese strano come l’Italia non potevano mancare le censure, se Berlusconi parla al Congresso del PPE. Il premier è anche uomo di partito. E’ tra i leader del Partito Popolare Europeo. Nelle assise di partito di solito si parla in casa, si delineano i confini dei quadri politici in cui si opera, si focalizzano le difficoltà, si denunciano i comportamenti difformi, si focalizzano gli ostacoli. In un Congresso come quello del PPE si parla dinanzi ad un uditorio di uomini che hanno fatto le stesse esperienze politiche e si parla anche di percorsi personali e, trattandosi di assisi multinazionali, anche i percorsi personali coincidono o si sovrappongono con quelli delle realtà dei propri paesi di origine. Berlusconi ha parlato dell’Italia. Ha parlato di quelli che a suo avviso sono i problemi del Paese, di motivi per i quali la sovranità popolare è spesso compromessa e minacciata. Ha parlato di un’Italia in cui non sempre coincidono rappresentanza democratica ed indipendenza delle Istituzioni. Ha parlato di una giustizia che ripetutamente sconfina dal suo ruolo di funzione giurisdizionale per occupare gli spazi della politica, ha parlato di organi di garanzia usati politicamente perché infiltrati da uomini che rispondono più agli impulsi dei partiti, che alla imparzialità dell’azione di sereno giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi. Ma in un Paese strano come l’Italia non sembra sia possibile farlo , c’è chi è pronto a giocare la carta della difesa della democrazia, anche se la calpesta abitualmente o l’ha calpestata in passato. Uomini senza ritegno. E tra questi, anche Gianfranco Fini.
Vito Schepisi su il legno storto

04 dicembre 2009

Edita dalle Procure Riunite: La nuova Storia D'Italia


Ieri ho incontrato Giovanni: è un pozzo di informazioni Giovanni. Siamo stati insieme due ore e me ne ha dette tante di cose che se dovessi ripeterle tutte mi riuscirebbe difficile farlo. Cose esplosive. Bombe atomiche. Giovanni è uno che parla poco ma quando parla non le manda a dire. Sembra uno di quegli uomini di onore, quelli che più che parlare emettono sentenze: di poche parole, ma taglienti come una lama, micidiali come una sventagliata di mitra, velenose come il curaro, esplosive come il tritolo.
Non ci vedevamo da tempo. Diciamo pure che l’ho sempre evitato perché di lui non si parla sempre un granché bene. Si diceva che era stato in galera per reati di mafia. L’ho incontrato per caso, mi ha salutato, mi ha abbracciato e baciato, ed ho pensato subito al bacio di Riina con Andreotti. Mi sono guardato intorno, per istinto, immaginando un qualcuno col telefonino che riprendeva la scena, per vedere se c’erano in giro testimoni che un domani mi potevano coinvolgere.
Ma coinvolgere in cosa? In Italia bisogna stare sempre attenti, prima di salutare qualcuno, figuriamoci un saluto così caloroso!
Dopo i primi convenevoli (Che fai? Come te la passi? Matrimonio, figli, etc.etc) passa subito al dunque. Sembrava che bramasse dalla voglia di raccontare le sue storie e le sue avventure. Mi dice che è stato in galera per diversi reati, tra cui l’omicidio. Roba passata, però! “Ora ho confessato tutto. Non mi tiro indietro dalle mie responsabilità. Sono tutte cose vere, ma mi sono pentito”.
Mi toglie la parola di bocca dinanzi alla mia espressione perplessa per continuare e dirmi: “sono fuori perché sono inserito in un programma di ravvedimento per collaboratori di giustizia. In poche parole sono un pentito, sono un dichiarante e godo di un programma di protezione e di mantenimento per me e per la mia famiglia. Detto tra noi – mi svela- è stato come un terno secco al Lotto, anzi che dico almeno un 5+1 al Superenalotto!”.
Giovanni mi dice di sapere tante cose e d’essersi sempre trovato al punto giusto nel momento giusto, sostiene che nella vita bisogna avere fortuna, ma qualche volta la fortuna la si può anche aiutare : “ Serve che abbia visto Berlusconi e Rosy Bindi nel lettone di Putin? Io c’ero! Ero lì a guardare. Capisci a me? ”.
Ma sono cose incredibili! - sostengo - Come si fa a poterci credere?
“Ma tu pensavi – mi ribatte – che Marrazzo….?”
No! Certo, non l’avrei mai pensato!
“L’importante – continua - è essere disponibili a dire ciò che serve … e che importa se poi non è tutto vero?”
Giovanni mi riferisce che il suo è un vero lavoro perché per un dichiarante serio è fondamentale documentarsi, bisogna annotare tutto ciò che accade nella vita. Bisogna prendere esempio da Andreotti che si annotava tutto sulle sue agende. Se ad esempio in un determinato giorno una pattuglia ci ferma per un controllo di documenti sull’Autostrada Salerno - Reggio Calabria, non si può dire che si era presenti a Palermo o Milano, mentre, chessò, Dell’Utri concordava con i fratelli Graviano la bomba da mettere a Via dei Giorgofoli a Firenze. Anche le cazzate devono seguire una certa etica professionale. Come se ci fosse un vero codice deontologico. Mi svela che sia una professione difficile quella del pentito professionista.
Giovanni mi racconta di Antonio, ad esempio. Un uomo in galera per tre omicidi. Un uomo violento, condannato all’ergastolo, oramai già avanti in età, con la salute precaria: “Se gli danno un altro ergastolo non gli cambia la vita! Ma serve a scagionare Francesco che mi è stato raccomandato da Luigi. Francesco a sua volta serve per il processo a Lui. Capisci a me?”.
Ma, quando chiedo “a Lui chi?” – Mi guarda sorridendo, come se fossi un ingenuo, come se non potesse che essere una sola persona quel “Lui” - Intuisco e gli chiedo: “Ti riferisci a Silvio?”. Annuisce e continua a raccontarmi di trame e di inganni.
Mi svela la storia d’Italia a cui è stato chiamato a collaborare per i tipi delle procure riunite italiane.
Vito Schepisi su il legno storto

02 dicembre 2009

La commedia è durata già troppo



Qualsiasi uomo di buon senso, senza spirito partigiano o impedito dal pregiudizio, non può non avere buoni motivi per pensare che questa commedia sia durata sin troppo.
Berlusconi non è il leader di un partito, inteso come gli amanti della partitocrazia pretendono che debba essere. E se gli italiani dovessero scegliere tra un partito movimento, interprete delle scelte degli elettori, ed altro che invece pensi ad orientarli, non ci sarebbero dubbi sulla prevalenza della prima opzione.
Il tutto tra Berlusconi e Fini è cominciato prima. Molto prima! La questione tra i due non la si può far riferire solo alle scelte della maggioranza sulle questioni giudiziarie o sulle politiche verso l’immigrazione, ovvero sul voto dopo 5 anni agli extracomunitari o sulle posizioni assunte con il testamento biologico.
Sono tutte sciocchezze! O meglio sono cose che fanno parte dello sciocchezzaio di Fini. Un po’ come nelle favole di Esopo o di Fedro, che sanno di saggezza popolare, in cui la sciocchezza è alla base di un pretesto.
Una posizione precisa di Fini, ma solo per parlare di episodi recenti, la si deve far risalire già ai contrasti sulla strategia di opposizione al precedente governo di Prodi. Quello era un governo antipopolare, problematico, disastroso, incoerente, schizofrenico. Un governo che scivolava verso la rassegnazione al definitivo declino del Paese. Un governo, quello di Prodi, che sembrava avere due unici finalità: quella di punire le fasce degli elettori che avevano sostenuto il centrodestra e quella di mortificare l’opposizione. E per farlo Prodi e la sua maggioranza stavano attuando una politica di macelleria sociale senza precedenti.
Ma a Berlusconi che sollecitava e parlava di prossima caduta di quel governo, spaccato al suo interno e sgradito all’opinione pubblica, tanto da inanellare costanti minimi storici nel gradimento degli italiani, Fini arrivò a porre l’ultimatum: se non cade Prodi si cambia.
Il discorso del predellino a Piazza San Babila a Milano da cui prese corpo la spinta bipolare che dette origine al Pdl, fu apostrofato improvvidamente da un Fini nervoso, sin troppo per un leader che deve aver più prudenza, con un “siamo alla frutta”. Fini in definitiva, indiscusso protagonista della politica italiana, anella da tempo una sciocchezza politica dopo l’altra. Lo fa perché in sostanza è il leader conservatore di una idea di partito che è una “caserma” com’era AN sotto la sua guida.
La sua concezione di Partito è legata a quella dei comitati centrali controllati dagli uomini scelti nei congressi, dopo il controllo delle sezioni e degli iscritti. Un metodo che faceva partire le risoluzioni dal vertice, per poi farle transitare dai comitati allargati, per poi, a gradini, farle ritornare agli organi sempre più ristretti, ed alla fine da dove erano partiti, cioè al vertice stesso. I partiti della prima repubblica erano così schizofrenici! Nel metodo differiva la DC che parlava con voci diverse, ma riusciva ad unire tutti con la linfa vitale della partitocrazia: la lottizzazione. Quest’ultima avveniva tra le correnti in modo proporzionale alla forza congressuale. Sarà per questo che c’è qualcuno tra gli amici di Fini che rievoca oggi il metodo DC.
Gli italiani hanno, però, imparato a distinguere tra la democrazia della sovranità popolare a quella da scena, ed a capire che quest’ultima sia solo una finzione di democrazia: una vera caserma al comando dei gerarchi. Quella che va bene a chi muta le proprie idee a seconda delle opportunità di leadership nel proprio partito e che è cresciuto nel mito del partito burocratico su cui si regge tutta l’organizzazione di un’idea di regime.
Ma chi vota centrodestra e vota Berlusconi pensa, invece, che il male del Paese, i cui riflessi sono nel debito pubblico e nelle inefficienze strutturali, stia proprio nella partitocrazia. Ha in odio l“inciucio” tra i leader dei partiti, che si risolve quasi sempre nell’interpretazione della democrazia rappresentativa come di un sistema in cui le difficoltà si sistemano allargando la spesa, e concertando così la soddisfazione delle parti a spese di tutti. Chi vota Berlusconi, invece, è convinto che se fosse per il premier sarebbero ridotti, anche da domani, i numeri ed i costi della politica e si passerebbe subito a rinnovare il Paese.
Berlusconi dal predellino si appellò al popolo dei “gazebo” perché dalla gente comune arrivassero i segnali e le scelte e, vinte le elezioni, continua oggi a sostenere che la politica di governo riviene dal patto stipulato con gli elettori, prima che con Fini o con Bossi.
Nessuno però è obbligato a condividere la legittimità che viene direttamente dal popolo ed è libero di fare scelte diverse, ma abbia il coraggio di dirlo con chiarezza e di farle. La commedia è durata già troppo.
Vito Schepisi