30 novembre 2007

La spallata del Cavaliere

A Piazza San Babila a Milano il cavalier Berlusconi la spallata l’ha data. L’annuncio del nuovo partito del popolo delle libertà ha avuto l’effetto di una spinta politica, almeno pari ad una vittoria parlamentare sulla maggioranza.
Per prevalere in Parlamento servono intese, spesso trattative e rigida gestione dei gruppi: a volte veri compromessi. In Parlamento con l’azione delle caste, e tra gli interessi particolari, può passare di tutto e persino il suo contrario. Anche il voto di scambio non ha ostacoli di valenza penale. Per prevalere nel Paese, invece, servono chiarezza, decisione e coraggio. Fuori dai palazzi della politica, infatti, servono parole chiare e saper interpretare i sentimenti del popolo.
Prodi fino ad oggi ha mostrato la capacità di prevalere in Parlamento dove agita la clava del dopo di me il v(u)oto, ed infila un voto dopo l’altro utilizzando di tutto: dai senatori a vita precettati, persino bloccati per votare, nonostante i loro impegni scientifici in giro per il mondo, agli avvertimenti minacciosi ed alle costanti pressioni. Tra il popolo, invece, Prodi trova fischi, proteste e tanto sconforto.
Berlusconi, lasciato solo dai suoi alleati, deluso dai “parrucconi” della politica, ha provato invece a confrontarsi direttamente con gli elettori: ed il popolo della libertà ha risposto compatto. Sono state, infatti, otto milioni le firme raccolte contro questo Governo, ritenuto inadeguato e dannoso e privo del consenso politico dei cittadini.
E mentre il popolo firma in massa, fa la fila ai gazebo, sottoscrive gli appelli su internet per chiedere a Prodi ed alla sua maggioranza di togliere il disturbo, Fini e Casini, sollecitati persino dalla stampa sempre critica, se non proprio avversaria, spinti a voler essere protagonisti contro la strategia di Berlusconi, covano l’idea di mettere nell’angolo l’ex premier. Azzardano una spallata al contrario, all’interno dell’opposizione, per assumere protagonismo e visibilità, per aumentare il peso politico ed elettorale dei loro partiti.
Dopo il voto favorevole al Senato, sul testo finale della finanziaria, incassato da Prodi, è emerso il significato dell’enfasi che giornali e persino gli alleati del centrodestra hanno voluto dare al voto. La crisi interna nella maggioranza, con alcuni gruppi che hanno dichiarato di votare a favore solo per senso di responsabilità, anche se non è sfociata nella caduta del Governo, è stata comunque una vittoria politica dell’opposizione. La presa d’atto nell’aula parlamentare dell’implosione della maggioranza di centrosinistra, è stata l’affermazione delle ragioni di una minoranza parlamentare che ritiene dissolta ed esaurita questa maggioranza politica.
Per alcuni non è stato così! Ed invece che esibire la vittoria per il cedimento della credibilità della sinistra di governo, per alcuni Berlusconi ha sbagliato ad annunciare e denunciarne l’implosione. Persino il difficile percorso della maggioranza, in piedi ancora una volta per il rotto della cuffia, viene così imputato a carico del leader di Forza Italia. Qualcuno tra i suoi ex alleati ha parlato persino di fallimento di una strategia politica.
Le mani libere! Ma libere da cosa? Quando si è all’opposizione, in particolare, le mani si liberano solo quando si è concordi nel contrastare le iniziative ritenute sbagliate. Se la maggioranza, come quella di Prodi, ha occupato il potere con sofismi e contraddizioni, facendo ritenere un’unione che nella sostanza non è mai esistita, avere le mani libere significa contrastarla con ogni mezzo.
Cosa vuole Casini o Fini che interessi al popolo delle libertà, arricchito da tanti ex elettori del centrosinistra, la loro necessità di visibilità politica? Mentre il popolo in massa firma, e firma anche a sostegno della loro opposizione, non è corretto rilasciare interviste con cui si prendono le distanze dalle strategie adottate e se ne annunciano nuove e divergenti, con l’evidente intenzione di isolare la leadership dell’opposizione e, soprattutto, con l’idea di rendersi protagonisti di stagioni politiche diverse.
Ciò che non si capisce è cosa, a loro avviso, dovesse fare invece l’opposizione? Forse augurarsi che la maggioranza fosse compatta ed a ranghi pieni, e votare contro solo per un esercizio formale? Nessuno si chiede ma scusate il Paese che dice? Il Paese che pensa? Il Paese che vuole?
C’è stato un voto circa 20 mesi fa in cui l’elettorato s’è diviso in due. Da quel momento i rappresentanti del 50% del paese, ignorando le promesse fatte agli elettori, e tra queste persino quelle della serietà, hanno ritenuto di governare contro il Paese . Alcuni, ispirati dal desiderio di vendetta sociale “anche i ricchi piangano”, hanno premuto per sommergere di tasse i contribuenti, col risultato contrario di far continuare a gioire l’alta finanza ed i capitali e far piangere ancora di più la povera gente.
Ora tocca al popolo delle libertà esprimersi, e Berlusconi non dia l’impressione di far marcia indietro. Il popolo è unito nel chiedere compattezza e coerenza e soprattutto la caduta di questo governo. ”La situazione dell’Italia non è buona”: sicurezza, giustizia, pressione fiscale, debito pubblico, sanità, servizi, infrastrutture, occupazione giovanile, precariato sono come tante ferite che se non curate diventano piaghe. E’ populismo volerle porle all’attenzione dei cittadini e provvedere a risolverle con il consenso dei diretti interessati? Sia populismo allora!
Al popolo non interessano i giochi della politica, ma le questioni di tutti i giorni, quelle che vive sulla propria pelle, interessa la forza e la coerenza dell’azione, senza i giochi ed i tatticismi della visibilità politica.
Vito Schepisi

28 novembre 2007

La riforma elettorale tra alchimie e furbizie

E’ opinione comune che le alchimie elettorali, più che essere un modo per assicurare al Paese governabilità e maggioranze omogenee e coese, servano ai partiti per tentare di assestare meglio la propria consistenza parlamentare e per poter esercitare pressioni politiche ben oltre il proprio peso specifico, anche contro il mandato della maggioranza del corpo elettorale.
Tra le scelte, alla base c’è già un intreccio iniziale da sciogliere: se optare per un sistema maggioritario o per un sistema proporzionale.
Mentre il primo, senza correzione proporzionale, favorisce prevalentemente il bipolarismo, rendendo necessario l’accordo tra partiti collocati in aree larghe (centrodestra, ovvero centrosinistra), pena il rischio di restare fuori dalla rappresentanza parlamentare; il secondo, quello proporzionale, favorisce la frammentazione e persino la convenienza a porre motivi di divisione.
Tra le opportunità del proporzionale per i gruppi minori, oltre ad esserci quella della possibilità di esercitare pressioni sulla maggioranza o sulle scelte del Governo, persino al limite di ogni decenza, c’è la possibilità di favorire di volta in volta l’adeguamento dei regolamenti parlamentari, anche attraverso deroghe di cui è divenuto costume l’abuso, onde creare diversi gruppi con tanto di sedi e rappresentanze, con costi sempre a carico dei contribuenti, ed ancora, fatto ritenuto di grande importanza, la possibilità di poter accedere al finanziamento pubblico.
Sia il maggioritario che il proporzionale sono scelte che rispettano in pieno i principi della democrazia: sono ambedue legittime espressioni del popolo. Appare però evidente che l’opzione proporzionale sia quella che più possa riflettere compiutamente le diverse anime del Paese e che più possa essere legittimata a sostenerne le istanze. Se si potesse trarre un giudizio di merito sulle regole di una democrazia parlamentare, si potrebbe affermare che il proporzionale puro possa essere la scelta più equa. La suddivisione in perfetta percentuale riflette, infatti, i limiti ed i confini di ciascuna forza ed offre l’immagine precisa del Paese.
Tutto questo in teoria ma, come si è detto, e soprattutto si è visto dal vero, la realtà è purtroppo diversa. L’obiettivo non deve essere, allora, quello di comprendere cosa ci sia di diverso, ad esempio, tra Casini e Mastella, o tra questi e Dini, o ancora tra Diliberto e Giordano. Una volta compresa la ragione del loro diverso sentire, se mai si possa comprendere, resta il fatto che ove l’uno, o l’altro prenda un “piccio”, se il loro apporto di voti parlamentari dovesse essere indispensabile, il Paese si troverà a dover attendere i comodi loro per poter adottare provvedimenti o varare riforme.
Ma la democrazia non può essere questa! Non si può ridurre il mandato popolare all’esercizio delle schermaglie di nicchia o agli interessi particolari e neanche, come abbiamo visto di recente tra Di Pietro e Mastella, alle rivalità personali. Se la civiltà del confronto richiede il massimo rispetto per le istanze delle minoranze e per il pluralismo delle posizioni, è vero anche che si debba prendere atto che c’è una maggioranza che ha un diverso sentire e che ha diritto di prevalere, laddove il suo diritto non sia lesivo di quello degli altri. Ed inoltre, se c’è una maggioranza nel Paese sugli indirizzi generali, non la si può ricercare continuamente persino sulle istanze particolari. Niente funziona in questo modo. Se si pigia sul freno, e si ferma la macchina che procede ad andatura continua e costante, a conti fatti, si rischia di consumare più energie e di arrivare in ritardo agli appuntamenti che nel caso di un governo sono quasi sempre i bisogni.
Tra i principi delle democrazie elettorali, per ovviare alle tante questioni, ce ne sarebbero alcuni abbastanza validi, sperimentati con successo in altri paesi. Ma non è detto che si possa importare un sistema che altrove funziona e presumere di farlo funzionare anche da noi. Le realtà sono diverse e sono differenti persino i profili costitutivi dei diversi stati. In Spagna ed Inghilterra, ad esempio, c’è la monarchia. In Francia e negli USA il presidente è eletto dal popolo ed ha ampi poteri. Sarà per questa ragione che l’occhio è continuamente puntato sul sistema tedesco dove il Cancelliere è espressione della maggioranza parlamentare.
Quello della Germania è un sistema elettorale misto: i parlamentari sono eletti metà col maggioritario e metà col proporzionale. Su questa seconda metà, però, c’è una soglia di sbarramento: i partiti che non raggiungono il 5% restano fuori dal parlamento. Non è detto, però, che col sistema tedesco si garantisca la governabilità: dopo le ultime elezioni, vinte di misura dalla Merkel, si è fatto ricorso alla grande coalizione per consentire la governabilità. In Italia. Invece, pur non avendo vinto le elezioni in entrambi i rami del Parlamento, Prodi ha respinto la proposta di un esecutivo dalle larghe intese. E’ interessante osservare, però, che in Germania non si può con un colpo di mano sfiduciare il governo in carica. Esiste, infatti, l’istituto della sfiducia costruttiva che prevede la proposta di un diverso premier e di una diversa maggioranza con cui sostituire il cancelliere e la maggioranza già in carica.
E’ opinione comune, come si diceva all’inizio, che le alchimie elettorali servano anche ad altri fini. Sono in molti, infatti, oggi in Italia a chiedersi se l’iniziativa del centrosinistra sia ispirata dai buoni propositi di dotare il Paese di una efficiente riforma elettorale più idonea alla governabilità e non, come da più parti si sospetta, per prendere tempo e superare le difficoltà di una maggioranza senza una vera e credibile proposta politica.
Sarà per questo che Berlusconi ha deciso di sedersi al tavolo per vedere le carte ed eventualmente smascherare il bluff di Veltroni.
Vito Schepisi

21 novembre 2007

Ognuno ora si assuma le sue responsabilità

Il più delle volte i percorsi più difficili si dimostrano i più facili e viceversa. Quante volte tra gli elettori del centrodestra si è diffusa rabbia e delusione nel vedere annacquare la forza d’urto dell’opposizione per la corsa verso la visibilità di leader molto ambiziosi ma confusionari, incoerenti e senza il necessario consenso popolare?
Dalla scorsa legislatura c’è ancora chi si chiede cosa avesse voluto dire Follini, ad esempio, quando parlava di “soluzione di continuità” ogni qualvolta il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, lanciava una nuova iniziativa politica. La forza di coesione del centrodestra aveva rappresentato uno dei pilastri su cui si era radicato il consenso politico del 2001. Ed è bastato un Follini che si fregiava del riparo di un Presidente della Camera, collocato in quel posto per grazia ricevuta, per disperdere credibilità e coesione e diradare altresì un patrimonio di voti che ha poi consentito al centro sinistra di vincere le elezioni politiche del 2006.
Sono bastati solo 24mila voti all’armata politica di Prodi, la più sgangherata dal dopoguerra ad oggi, per occupare ogni spazio del Paese. Ed è bastata una possibile difficoltà di Prodi al Senato per vedere Follini, senza indugio, saltare dall’altra parte della barricata.
I percorsi più difficili si mostrano invece i più facili quando si ha la percezione d’esser dalla parte del popolo e di interpretarne gli umori. E’ così che Berlusconi, frenato dai suoi alleati nel condurre un’opposizione decisa al Governo del declino, si è smarcato da coloro che spesso si sono dimostrati più palle al piede, o politicanti di un sacco ed una sporta anziché coerenti alleati. L’ha fatto alla sua maniera, dimostrando che il suo rapporto con pezzi della maggioranza non può che essere privilegiato, rispetto ai goffi tentativi dei “furbetti” di turno di scavalcare la sua leadership.
Anche Fini, sdoganato assieme al suo vecchio partito, il vecchio movimento sociale italiano, ritenuto più a ragione che a torto erede dei principi e delle simpatie del ventennio fascista, si è lasciato prendere da eccessi di ambizioni. Ha ritenuto di dover rilasciare interviste in cui si discostava dalle iniziative dell’opposizione, rilanciando persino la disponibilità a dialoghi separati con la maggioranza su riforma elettorale, sconfessando di fatto la richiesta di nuove elezioni su cui Berlusconi aveva investito impegni organizzativi e credibilità politica e per la quale milioni di italiani avevano appena posto la firma.
Cosa crede Fini che senza il sostegno e la copertura politica delle componenti liberali e democratiche del Paese il suo passato non gli sarebbe stato rinfacciato ad ogni piè sospinto? I voti alla destra missina erano considerati una volta “voti a perdere”, senza peso politico. Per espressa volontà di una consistente parte di quello che si definiva “arco costituzionale” il Msi era stato espressamente estromesso dal gioco del governo e delle maggioranze. Fini questo non dovrebbe dimenticarlo.
Alleanza Nazionale, dopo la caduta dei partiti tradizionali, nella cosiddetta seconda repubblica, ha potuto realizzare la sua evoluzione democratica tanto che ad oggi Fini ed AN si sono spinti fino a voler ricercare spazi in famiglie di più vasto respiro europeo, come il PPE. I novi tragitti sono il frutto del lavoro e del sostegno di forze politiche che si sono impegnate a far girare le pagine della storia sviluppando nuove strategie politiche che, nonostante le canee retoriche, chiudevano le pagine ed i capitoli della vecchia politica. Si è sviluppato un contesto in cui le vecchie ideologie totalitarie, in un’accezione larga e condivisa, venivano definitivamente condannate come crimini contro l’umanità, liberando così alle regole della democrazie espressioni più conservatrici che reazionarie
Le vecchie chiusure venivano così superate dalle fasi nuove dei rapporti tra i popoli dove i principi della democrazia e del pluralismo si costituivano come basi irrinunciabili di un lavoro e di un impegno comune. Su questa nuova prospettiva i componenti della vecchia Cdl hanno lavorato gomito a gomito, come sinceri alleati, per aprire nuove pagine e scrivere nuovi capitoli della storia d’Italia. Sono stati così dischiusi nuovi orizzonti e realtà diverse si sono affacciate ai nuovi contenuti e, slegate dai vecchi principi limitativi, si sono potute rivolgere ai concetti ed alle strategie delle forze politiche moderne.
Di chi è stato il merito di questa evoluzione, se non di una strategia di alleanze che toglieva ad ogni forza politica pezzi di passato stantio per unificare valori, come è emerso, negli spazi comuni di principi di libertà in cui il cittadino potesse sviluppare il suo ruolo di individuo responsabile?
Se questa strategia subisce una frenata perché sulle idee e sulla spinta propulsiva qualcuno si sfila, per ricercare collocazioni diverse, non si può poi pretendere che gli altri aspettino immobili che si facciano esperimenti, o si prendano iniziative divergenti, senza che di contro vengano percorse strade alternative, ritenute persino cautelative rispetto alle iniziative di altri.
Vito Schepisi

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16 novembre 2007

Presidente Prodi ha capito che la sua maggioranza non esiste più?

Prodi sorride e si mostra soddisfatto. Ma non ha capito che la sua maggioranza è finita?
Non è una spallata e neanche un incidente di percorso: è una volontà politica del Paese, prima che delle forze politiche della sua maggioranza parlamentare.
Il Presidente del Consiglio più caparbio e restio a scendere dalla sella della sua bicicletta, oramai con le ruote forate, si rende conto che è diabolico e persino immorale governare contro il Paese? Persino larghi settori della componente centrista e della sinistra moderata della sua maggioranza lo considerano responsabile del malessere diffuso. Tra questi in buona parte anche tra coloro che sono confluiti nel Partito Democratico che è ritenuto, persino a ragione, sua creatura politica.
Con il suo linguaggio dislalico, le sue bugie e l’ostinata presunzione nel ritenere di poter mischiare gli opposti è il responsabile della crisi emersa con la debolezza della proposta politica della sinistra.
E’ un ostacolo a tutto: al dialogo, alla pacificazione, alle riforme, persino al buonsenso.
Le dichiarazione al Senato di Dini “ Va superato questo quadro politico, poiché il governo che ne è espressione non appare adatto a realizzare le politiche necessarie per invertire la tendenza al declino economico e civile del Paese” e l’avviso così lapidario nelle sue conclusioni di Bordon “voto si, ma la maggioranza non c’è più” fanno parte degli atti parlamentari del Senato della Repubblica e non dell’annuario del circolo bocciofili di Scandiano, il comune nella provincia di Reggio Emilia che dette i natali a Romano Prodi.
Un qualsiasi uomo politico responsabile ne avrebbe preso atto e sarebbe andato dal Presidente della Repubblica per concordare i tempi della crisi. Uno statista avrebbe dato seguito alle dichiarazioni dei dissidenti della sua maggioranza per dirsi disposto a portare a termine l’approvazione della legge finanziaria ma solo per senso di responsabilità, premettendo che alla fine dell’iter parlamentare della legge di bilancio avrebbe ritenuto conclusa la sua esperienza di governo. Un politico responsabile, ma a quanto sembra non Prodi, avrebbe dichiarato, senza mezzi termini, di voler rassegnare, al più presto possibile, nelle mani del Presidente della Repubblica il mandato ricevuto, perché questi possa ottemperare alle sue prerogative di indicare per il prosieguo della legislatura le decisioni ritenute più idonee. Tra queste, ad esempio, se opzione largamente condivisa dal Parlamento, far proseguire la legislatura per una strada diversa, ovvero in caso contrario indire nuove elezioni politiche.
Prodi invece non ci pensa neanche. Resta attaccato a Palazzo Chigi come una mosca a quella striscia impregnata di collante che si usava verso la seconda metà del secolo scorso, appesa al candelabro delle stanze in cui le famiglie cosuetudinalmente si riunivano, per bloccare la libera circolazione delle mosche.
Invece che l’insetto, però, in questo caso si costringe all’immobilità il Paese e si impone, ai tanti italiani che nei sondaggi mostrano insofferenza e fastidio, la presenza sgradita di un Governo in crisi di credibilità politica. Ci sono regole scritte, principi costituzionali, persino aspetti di regolarità democratica che possono avallare la caparbietà di Prodi nel non voler prendere atto di un’intesa difficile con il sentimento popolare. Su queste basi il Presidente del Consiglio continua ad affermare che fino a quando non riceverà la sfiducia formale del Parlamento si riterrà legittimato a presiedere il Consiglio dei Ministri e rappresentare l’indirizzo politico del Paese.
Ci sono però anche sensazioni non scritte e senso di responsabilità che non sono formalmente, civilmente o penalmente rilevabili. E’ possibile che un Capo del Governo non debba avvertire l’obbligo morale di prendere atto di situazioni di oggettivo fastidio che la sua gestione politica sta alimentando tra i cittadini italiani?
Ci sono pezzi di consenso politico che hanno abbandonato l’Unione, di gran lunga più rappresentativi dei 24mila voti in più guadagnati alla Camera nelle ultime elezioni. Si sono sfilati dalla coalizione di maggioranza sia il partito dei pensionati (333.000 voti) sia Capezzone, allora leader della componente radicale della Rosa nel Pugno (990.000 voti). Al Senato l’Unione ha persino avuto ben 428.000 voti in meno della Cdl.
Ora si aggiungono al Senato almeno 5 senatori tra i liberaldemocratici di Dini, Bordon e Manzione e già si parla di ulteriori confluenze provenienti dal centrosinistra.
Sono tutti segnali politici che già per loro conto, senza ricorrere ai sondaggi rilevati da più fonti e convergenti, avrebbero dovuto consigliare al Presidente Prodi di mettersi da parte. Uomini più attenti e sensibili avrebbero persino mutato i contenuti dell’azione politica e soprattutto evitato di adottare scelte mirate a ribaltare le riforme adottate dal precedente governo ed apprezzate da larghi settori del Paese. La furbizia e l’intelligenza politica avrebbero dovuto far emergere l’umiltà di chiedere persino il sostegno dell’opposizione per migliorare, sia negli effetti che nell’impatto sociale, riforme come la Biagi o la Maroni.
Si sono invece percorse strade diverse, più dure ed orientate allo scontro, persino dissolti equilibri di rappresentatività come con la rimozione del consigliere Petroni dal Cda della Rai (ritenuta ora illegittima dal Tar) .
La maggioranza di Prodi è finita perché rappresentava un sofisma, perché ha voluto realizzare sulle finzioni una proposta politica inesistente. E’ giunto ora il momento di staccare la spina: le medicine somministrate non sono in grado di ristabilire regolari funzioni di vita, risultano persino tossiche per il Paese. L’accanimento terapeutico non serve: è necessaria una guida forte e coerente.
Possibile che sia rimasto solo Prodi a non aver ancora realizzato che il tempo è ormai abbondantemente scaduto?
Vito Schepisi

14 novembre 2007

E' stato un errore

Nel 1995 a Lamberto Dini, già Ministro del Tesoro del Governo Berlusconi, non gli sembrò di star nella pelle per l’opportunità offertagli dal Presidente della Repubblica del tempo, Oscar Luigi Scalfaro, di sostituire Berlusconi alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Fu così che l’ex Direttore Generale della Banca d’Italia, senza porsi problemi di legittimità, formò il suo governo, coi ministri suggeriti da Scalfaro e sostenuto da coloro che erano usciti perdenti dalle consultazioni elettorali dell’anno precedente, dando così vita al “ribaltone” più famoso della storia della Repubblica Italiana.
Se il leader di Forza Italia ritiene ora di poter contare su chi già una volta ha dato esempio di privilegiare l’ambizione personale alla legittimità degli atti, commette almeno due errori.
Il primo dei due è il rischio di trovarsi con un pugno di mosche in mano per la scarsa fiducia che il leader di Forza Italia dovrebbe avere verso chi già in precedenza non si è creato scrupolo alcuno. Se nelle scelte di Dini ci fossero ragioni politiche, piuttosto che ambizioni personali, non si capisce perché questi scrupoli giungano ora. L’ex ministro, prima di Berlusconi e poi di Prodi, era già pronto ad entrare nel PD e se ne è mantenuto fuori solo quando è stato reso evidente che il suo ruolo futuro sarebbe stato del tutto secondario se non marginale o nullo. Se l’ispirazione liberaldemocratica, che Dini sembra ora voler rappresentare, fosse stata sincera, non si capisce perché portare le cose alla lunga: non sono mancate nei 18 mesi trascorsi di governo di sinistra-centro sia le circostanze, sia le scelte di spessore squisitamente politico in cui le istanze di scelte di rigore e di valenza prevalentemente liberale sarebbero dovute emergere con chiarezza.
Il secondo errore di Berlusconi è di non considerare che contro lo scioglimento delle Camere esista un partito trasversale motivato dal timore di perdere l’indennità previdenziale per la mancanza del requisito della durata della legislatura. Cosa che invece Prodi sa bene tant’è che annuncia, come se fosse una minaccia, che la caduta del suo Governo porta dritto alle elezioni anticipate in primavera e cioè prima della maturazione del requisito richiesto. Non a caso Mastella, molto attento alle debolezze dei parlamentari, sembra essere diventato il più energico protagonista della compattezza della maggioranza. Ha sotterrato, per il momento, la sua ascia di guerra in attesa di circostanze migliori ed anche di cause più redditizie.
Non si sa se sia vero ciò che Berlusconi ha lasciato pensare per giorni. Ha fatto credere di disporre di un gruppo di senatori, delusi dall’immobilismo e dalla confusione della sinistra e persino spiazzati dalla nascita del Partito Democratico, pronti a passare dall’altra parte. E’ anche possibile che possa effettivamente accadere ma è stato un errore aver consentito ai media, sempre pronti ad enfatizzare i termini delle sue dichiarazioni, e senza immediate smentite, di far passare la data del 14 novembre come quella della caduta quasi certa di Romano Prodi. Se accadesse apparirebbe più una congiura di palazzo che l’implosione della maggioranza parlamentare. E’stato uno sbaglio che potrebbe rafforzare persino Prodi e la credibilità del suo governo, se invece non accadesse niente ed il voto finale sulla finanziaria passasse.
La caduta di Prodi non dipende dalle scelte di Berlusconi o di altri leader del centrodestra ma solo dalla eventuale sfiducia di una parte della sua maggioranza, ovvero da eventuali incidenti di percorso. Neanche le contraddizioni, a volte sopra le righe, tra i partiti ed i ministri riescono a dissolvere un Governo di così limitato spessore, e nonostante il precipizio della popolarità e la inconsistenza di una proposta politica credibile.
La maggioranza e la compagine ministeriale hanno dimostrato di saper inghiottire ogni rospo ed ogni pietanza indigesta. L’impressione che si ha è che sia l’ultima spiaggia per la sinistra italiana. Il collante sta nel loro timore d’avere la difficoltà d’esser credibili. Sembrano invisi a tanti e considerati generalmente incapaci ed inadeguati, e soprattutto imborghesiti e privilegiati, componenti a vario titoli delle cosiddette “caste”. Questa consapevolezza rende concreta l’ipotesi che se questa classe dirigente di oggi, sia politica che di gestione, va a casa poi ci rimane per sempre.
La sinistra, infatti, oltre a dover scontare il prezzo della incapacità dimostrata, confina con larghi settori dell’antipolitica e le invasioni di campo, che si verificano, sono ora considerate non più solo fenomeni da mettere in conto quanto, invece, realtà quotidiana con cui fare i conti. Le manifestazioni organizzate dalle sinistre contro le scelte del governo non sono solo sintomi di un disagio di militanti, quanto prove dell’emigrazione a sinistra di fette di organizzazioni sociali e di espressioni politiche alternative della sinistra più radicale.
Il rafforzamento della maggioranza potrebbe coincidere sull’altro versante con l’indebolimento di Berlusconi. Le ripetute aspettative deluse di coloro che confidano nella possibilità di vedere soccombere questo governo rischiano di trasformarsi in disillusioni e criticità nella leadership dell’ex Presidente del Consiglio.
Per queste ragioni è stato un errore.
Vito Schepisi

08 novembre 2007

Veltroni ed il "Sogno Americano"

Non penso che Veltroni sia un tonto, anzi penso esattamente il contrario. E’ per questo che dico che ci troviamo di fronte al più camaleontico personaggio politico italiano. Si pensava che, oltre Prodi, per giocolieri ci fosse poco spazio da occupare. Ci siamo sbagliati. La verità è che il Presidente del Consiglio, invece, è più assimilabile al tonto di quanto non lo sia il leader del Partito Democratico.
Prodi ci mette del suo. Diviene arrogante e spocchioso per reagire alla sua scarsa presa mediatica; è portato a far abuso del falso per far prevalere i suoi interessi politici o i suoi tentativi egemonici, come è stato con Telecom ed il Piano Rovati; si contorce nelle risoluzioni adottate per attenuare i distinguo dei suoi alleati; ha il terrore di dover aprire all’opposizione perché teme che possa essere il principio di una breccia irreversibile per la sua maggioranza.
Veltroni, al contrario, persegue il suo obiettivo essenziale per dar sostanza alla sua leadership. Ha necessità di liberarsi del condizionamento della sinistra più radicale e farebbe carte false per scompaginare l’opposizione ed acquisirne spezzoni. E’ furbo ed ha capito che in un sistema tendenzialmente bipolare non c’è spazio per una sinistra che, benché moderata, possa restare separata da quella più antagonista, senza finire nell’equivoco e nel disperdere il consenso di quegli elettori inclini a veder sviluppare la società italiana sui modelli delle democrazie occidentali.
Veltroni è intenzionato ad occupare stabilmente il centro dell’arco politico italiano e di proporsi allo stesso tempo come unica forza propulsiva di progresso del Paese. Il suo sogno è una sorta di partito popolar socialista in cui far sviluppare istanze sociali e necessità di mercato, scelte di sicurezza e tolleranza verso gli immigrati, scelte etiche ed aperture alle diversità.Veltroni sembra il filosofo dei contrapposti, vuole convincere tutti d’esser la soluzione pronta per tutto. Quello di Walter l’americano, però, è un sogno ben diverso da “TheAmerican Dream” raccontato nella metà del diciannovesimo secolo da Horatio Alger. E’ un “dream” diverso da quello passato alla storia di Martin Luther King, enunciato nel suo più famoso discorso a Washington nell’agosto del 1963: “Vi dico oggi, fratelli miei, non perdiamoci nella valle della disperazione. E anche se affrontiamo le difficoltà di oggi e di domani, io ho ancora un sogno. È un sogno profondamente radicato nel Sogno Americano.”
Il sogno dell’italiano Walter è più di basso profilo. Dopo aver esautorato il socialismo democratico, in alleanza con la magistratura militante all’inizio degli anni novanta, il post comunista Veltroni, con il neonato PD, sogna di esautorare Forza Italia e le componenti liberali, laiche e cattoliche, presidio del centro del sistema democratico italiano. Per far questo il leader ex pci ha bisogno di ricercare le strade del dialogo con il centrodestra, con chiunque, sia pure con Calderoli, se non con Casini o componenti di Forza Italia. Il richiamo all’impegno sulle riforme è la sua carta vincente. Confida sulla volontà del Presidente Napolitano che ha già detto che senza almeno la riforma elettorale non si può andare a votare.
Il feeling del PD con i potenziali elettori, dopo l’impennata iniziale, man mano che sono emerse alcune contraddizioni, si va affievolendo. Pezzi della Margherita non confluiti nel PD, prendono le distanze sino a far emergere il pericolo per Prodi del venir meno dei numeri della maggioranza al Senato.
Veltroni all’inizio sembrava propenso a non lasciarsi logorare, soprattutto dal malgoverno di Prodi. I suoi annunci programmatici erano in netta discontinuità con questo esecutivo. Ora invece è interessato a prendere tempo. La svolta è apparsa evidente soprattutto dopo la prima vera difficoltà sull’immigrazione che lo ha coinvolto in prima persona, smascherando la sua cattiva gestione del Comune di Roma, tra festival e notti bianche ma con le periferie in pieno degrado.
Il centrodestra ricompattato lo ha spaventato. Andare al voto in primavera, senza la sinistra radicale, con la Cdl unita e compatta, equivarrebbe per lui a comprare in anticipo un biglietto per l’Africa. Un biglietto di sola andata, senza ritorno, per corrispondere ai suoi progetti enunciati nel 2001 dopo la sconfitta elettorale del centrosinistra e la sua candidatura a Sindaco di Roma: chiudere con l’esperienza dell’amministrazione di Roma la sua carriera politica per dedicarsi ai bisogni delle persone meno fortunate del continente africano. Verrebbe da pensare cosa abbia fatto di male questo sfortunato continente per ricevere questa minaccia! In Africa, a dir il vero, non sembra che qualcuno lo aspetti davvero!
Se non potrà essere possibile da solo col suo PD, in caso di elezioni politiche in primavera, non gli rimarrebbe che andare al voto in alleanza con i partiti della sinistra estrema, ammesso che questi ultimi siano propensi ad allearsi con lui. A sentire Ferrero, ad esempio, qualche dubbio verrebbe: "Veltroni ha proposto nei fatti un impianto emergenzialista e securitario, facendo pressing sul governo. Oggi - continua il ministro di Rifondazione Comunista - c'è la possibilità di battere questa linea politica che porta dritti dritti all'accordo con Fini e con la destra". Questo rinnovato accordo con i neo comunisti, qualora vi fosse, non sarebbe molto credibile perché simile alla strada percorsa da Prodi: sarebbe lo stesso tragitto di un progetto miseramente fallito tra le beghe e gli equivoci sin qui rilevati.
Il sogno di Veltroni assume pian piano contorni evanescenti, sbiadito come il profilo del personaggio. Un uomo per alcuni aspetti duale. Il suo sostegno a Prodi, da quando ha realizzato che con Prodi si perde, è stato sempre condizionato dall’esigenza dello sfoggio di lealtà verso il Presidente del Consiglio e dalla necessità di marcare una serie di distinguo sulle scelte di governo e di programma. La sua strategia si è andata così permeando di sostanziale ambiguità da essere da qualche tempo sottoposta ad insistenti rappresentazioni satiriche da parte di quegli stessi comici della sinistra che sembravano fino a poco tempo fa aver messo casa, per le loro esibizioni, in un ipotetico “piazzale Berlusconi”. Sembra che ora la satira politica si sia trasferita nei pressi di casa Veltroni.
Ed assume, così, aspetto sempre più comico il suo “American Dream”!
Vito Schepisi