29 marzo 2011

Lezioni di politica in IV elementare

In quarta elementare s’insegna a far di conto; s’insegna la grammatica, la geografia; s’introducono i primi elementi di conoscenza della storia nazionale; si parla dell’Unità d’Italia, ricorrendo i 150 anni; s’insegna ad esprimersi in modo finito, per preparare le giovani generazioni a dialogare con proprietà di linguaggio e con la costruzione corretta del pensiero. Ai giovani tutti, a quelli di quarta elementare compresi, non si deve mai insegnare, invece, a odiare qualcuno. Si chiami Berlusconi o con altro nome, che sia Presidente del Consiglio o Capo dell’opposizione, non s’insegna a odiare nessuno.
Alle elementari la preparazione di base è molto importante. I giovani, con la stessa velocità con cui apprendono le nozioni, acquisiscono anche abitudini espressive scorrette e tali da non saper riportare con frasi chiare e finite i loro concetti. Le lacune poi restano e provocano non pochi imbarazzi quando si va avanti con gli studi, quando si assume una responsabilità di lavoro, quando ci si deve rapportare con gli altri. Come sarebbe bello se la scuola insegnasse a tutti i giovani a parlare e scrivere correttamente!
Un insegnante deve avere molta pazienza e nutrire molto amore per i bambini e deve saper rispettare la loro innocenza, non deve provare per nessuna ragione a violentare il loro pensiero. Non si può, infatti, scambiare la libertà d’insegnamento con il subdolo indottrinamento di adolescenti, per di più impossibilitati, per la giovane età, a difendere il loro sacrosanto diritto a sviluppare nel tempo sia il proprio pensiero, che un più articolato spirito critico.
Si sostiene che gli adolescenti di oggi saranno i testimoni futuri della nostra civiltà. Tanto più, pertanto, sarà data loro la possibilità di acquisire i principi della tolleranza, tanto più sarà possibile formare, per il domani, uomini saggi e predisposti al sapere. Solo il pluralismo dei punti di vista, che è il primo valore della democrazia, può stimolare nelle giovani generazioni la curiosità d’incamminarsi verso il bene della conoscenza, il cui percorso non è mai facile e rapido. E le diverse articolazioni delle idee aiutano a comprendere che la soluzione delle cose non è mai un piatto, ben cotto e condito, già servito sulla tavola, come vorrebbe far pensare la maestra che trancia giudizi di merito e che indica ai bambini le sue scelte assolute.
La vita è sempre molto più difficile e complessa di quanto non appaia. Serve conoscere il più possibile di ciò che circonda l’uomo e il suo tempo per percorrere in modo più rapido il lungo tratto dell’impervio sentiero che porta al sapere, ma alla conoscenza ci si avvicina soltanto con la ragione, non utilizzando idee già preconfezionate, luoghi comuni e verità assolute.
E’ capitato che il Dirigente responsabile dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Bari, Dr. Giovanni Lacoppola, abbia dovuto scrivere una lettera ai Dirigenti delle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado delle province di Bari e Barletta-Andria-Trani avente per oggetto “lezione di politica in classe”. Una lettera molto intelligente, saggia e civile con la quale il Dirigente si duole di non riuscire a “comprendere perché alle volte la scuola si trasformi facilmente ed improvvisamente in un luogo nel quale un docente possa impunemente tramutare una serena aula in un palco da comizio da cui scagliare focose invettive contro un leader politico”.
Gli insegnanti seri sono quelli capaci di educare una moltitudine d’individui e soprattutto formare quei giovani che, posti dinanzi alle scelte, invece di cercare le soluzioni nel proprio “bignami” ideologico, si impegnino nel cercare le soluzione possibili e che, per farlo, si adeguino anche a pensare. Accadeva già ai tempi di Socrate e Platone che i giovani fossero sollecitati a respingere il metodo del pregiudizio per coltivare invece il metodo della scelta critica, consapevole e razionale.
Le violenze sui minori non si esauriscono con gli atti tipici, come ad esempio con le percosse e le sevizie, o spegnendo il sorriso sui loro volti, o sottraendone l’innocente giovinezza, o tenendoli segregati, impedendo loro di giocare con i loro coetanei, oppure privandoli delle carezze dei genitori: è violenza anche impedire il libero formarsi del pensiero. E’ anche violento quel modo di inculcare, con la forza autoritaria, con il condizionamento psicologico, con i mezzi e gli strumenti educativi, un pensiero unico.
L’educazione dei giovani al pensiero unico è, infatti, il metodo usato dalle dittature per formare i quadri di partito e i sudditi del regime. In democrazia, invece, la scuola deve avere ha la funzione di predisporre i ragazzi ad arricchire il bagaglio delle proprie idee. Il pluralismo in una Nazione libera è un valore prioritario che deve consentire a tutti, agli studenti in maggior ragione, di allargare il ventaglio della conoscenza alle ipotesi e alle idee più diverse, e tali da consentire di fare nella vita le scelte che l’elaborazione del proprio pensiero può ritenere più giuste.
Se i giovani, invece, sin dall’infanzia, nella scuola, e cioè in uno dei tre pilastri del loro processo formativo (famiglia-scuola-società), non sono messi nelle condizioni di comprendere che nelle comunità si articolano diverse opinioni; se non si insegna loro che dal confronto delle diverse idee emerge il principio della democrazia, che è sempre scelta condivisa, gli stessi giovani non riusciranno mai a percepire le motivazioni che sono alla base dei loro diritti e dei loro doveri. Quando non si percepiscono le regole, però, accade che la civiltà regredisca a tutto vantaggio della barbarie.
Vito Schepisi

25 marzo 2011

Profughi e clandestini

In Italia è sempre molto più difficile. Tutto è in armonia con l’incomprensibile abitudine di flagellarci da soli. Non esiste un normale e sereno confronto politico sulle scelte. Nel bene e nel male, per ogni questione si alzano i toni, come se tutto fosse così grave e pregiudiziale o addirittura epocale. Le cose più futili sono caricate di eccessiva tensione, fino ai toni allarmistici. Al contrario, si mostra distacco e indifferenza per le scelte e gli approfondimenti di maggior rilevanza.

Più emergono problemi e più subentra, anziché l’ingegno, la furbizia di mettere in difficoltà l’avversario politico. Persino il Parlamento si trasforma in una piazza per comizi. I discorsi diventano accorati e i toni esasperati. Invece che discutere sulle opportunità delle scelte, si prova a toccare le corde emotive del pubblico, come in una stucchevole campagna elettorale. La democrazia del confronto lascia il posto alla scena, ma le questioni, se non risolte, riemergono e, se gravi, ipotecano il futuro di tutti.

La questione libica, ad esempio, va oltre le scelte e le contese politiche tra maggioranza e opposizione. L’Italia è nel gruppo delle nazioni “volenterose” interessate alla pacificazione dell’area. L’intervento in difesa della popolazione civile è stato stabilito dall’ONU con la risoluzione 1973 ed, eccetto pochi contrari e alcuni deboli distinguo, e qualche calcolo, non ci sarebbe, nel Paese e nel Parlamento, nessuna radicale frattura politica, anche se appare tutto il contrario.

L’attenzione italiana è particolare perché in quest’area geografica subentrano interessi nazionali precisi. L’Italia intende rispettare alla lettera le motivazioni dell’intervento, ma non può sottacere le particolari implicanze che ne danno un significato più ampio. La Libia è a poche miglia marine dalle coste italiane e con lo stato nordafricano sono in atto accordi economici e contratti di fornitura di gas e di petrolio. Sono, inoltre, in corso programmi di lavoro e non ultima la definizione di un contenzioso che risale ai tempi in cui la Libia era una colonia italiana.

Il Nord Africa, inoltre, sta attraversando un periodo di profonde tensioni. Alle turbolenze religiose per la presenza di movimenti fondamentalisti si sono aggiunti moti di protesta e capovolgimenti politici. Su tutta l’area mediterranea dell’Africa, la popolazione si è sollevata per rivendicare diritti e per protestare contro le loro precarie condizioni di vita. Non c’è lavoro e non c’è cibo e c’è rabbia e disperazione. Prima la Tunisia, poi L’Egitto si sono liberati dei dittatori al governo. Ora ci prova la Libia. Altre tensioni covano in Iran, in Siria, nel Bahrein. L’esito dei capovolgimenti è incerto, ma è certo che le questioni non potranno essere facilmente risolte. Le incertezze origineranno consistenti flussi migratori, l’ONU stima in 250 mila i possibili migranti, e l’Italia è paese di frontiera verso l’Europa, ed è la porta d’ingresso verso ciò che appare come il benessere occidentale.

E’ una questione importante. Si tratta di esseri umani che vedono nella fuga dalle loro terre di origine una speranza di vita, ma l’immigrazione, se non è gestita, se non trova la comunità internazionale pronta a farsene carico, può diventare un inferno per tutti. Sarebbe opportuno agire nei luoghi dove trae origine per frenarla, naturalmente con la collaborazione dei nuovi governi.

Sono stati lanciati, e da tempo, segnali di questo tipo verso la Comunità Europea, è stata chiesta collaborazione e strategie condivise, senza ottenere, fino ad oggi, risposte concrete. L’Italia dovrebbe ritrovarsi tutta unita per fronteggiare quella che si rivela come una seria emergenza nazionale. Ma non è così. Un’attenzione di segno contrario, infatti, proviene proprio dalle opposizioni che sfruttano anche questa tragedia umanitaria per creare difficoltà al Governo e per logorare l’immagine dell’Italia sulla scena europea e internazionale. E’ un film che purtroppo abbiamo già visto.

Le avvisaglie ci sono anche in questa nuova emergenza. C’è troppa retorica e dietro si nascondono due obiettivi: la visibilità e creare difficoltà al governo. Ascoltando alcuni politici è come se le emergenze non siano tali, cioè emergenze, e come se le stesse si possano gestire nella normalità. E’ il caso, ad esempio, del Cara di Bari, dove da subito Vendola, dopo aver fatto al tavolo delle regioni il paladino dei diseredati, ha denunciato disagi organizzativi nell’espletamento delle pratiche di accoglienza, inviando alla stampa, prima che al ministro Maroni, la sua accorata lettera dai toni umani.

A nessuno dovrebbe essere consentito di far lo sciacallo sulla pelle degli uomini, e sarebbe auspicabile che anche questo rientrasse nelle scelte umanitarie che si fanno, più che le prolissità verbali di alcuni. Quando si tratta di personale politico “in carriera”, chi sfrutta queste tragedie per arricchirsi di visibilità non è moralmente diverso da chi lo fa, ad esempio, saccheggiando le case dei terremotati. La Puglia, che è fatta di persone serie e concrete, è stanca di un Masaniello in formato poetico.

Il problema che si sta ponendo all’Italia richiederà grande responsabilità e molta prudenza. E’ bene non contare più di tanto sulla disponibilità degli altri paesi europei, abili a trarre giudizi morali sugli altri, ma abili anche a sfilarsi nel momento di assumersi responsabilità ed oneri.

L’Italia non può chiudere la porta in faccia a chi scappa dalla guerra o dalle persecuzioni politiche, ma non può neanche farsi carico della massa di chi abbandona il proprio paese per insediarsi nel nostro, senza un lavoro, senza una dimora, all’avventura e senza una prospettiva sicura.

Tra i flussi dei migranti si prevedono infiltrazioni di evasi dalle carceri dei paesi in rivolta, si prevedono ingressi di terroristi e di manovalanza criminale, basti pensare che un terzo della popolazione carceraria italiana è composta da extracomunitari. Non è una novità che la malavita italiana si serva dei clandestini per infoltire l’esercito del crimine.

E’ il tempo delle scelte e sarebbe auspicabile farle insieme, tutti uniti come italiani. Il nostro è un popolo che è disposto a collaborare, ad aiutare, a comprendere, ma non sempre a subire. L’Italia ha già le sue difficoltà, ha le sue emergenze, ha un sud non ancora integrato nel processo unitario del Paese - dopo 150 anni dall’Unità d’Italia - ha già sul suo territorio, tra regolari e clandestini, la presenza di immigrati pari al 10% dell’intera popolazione italiana. Ora ha il dovere, per solidarietà e per responsabilità umana, di dar asilo a chi fugge dalla paura, ma non alle masse di migranti in cerca di avventura. E’ una scelta da fare, meglio se insieme a tutti gli italiani. Profughi si, ma clandestini no.

Vito Schepisi

08 marzo 2011

Vendola sta distruggendo la Puglia

Nel 2010, la sconfitta della sinistra alle elezioni regionali è stata in parte contenuta dalla conferma di Vendola in Puglia. Quella del leader di Sinistra e Libertà è stata una vittoria annunciata, ma, complice una stampa amica, è stata ben giocata. È stato spacciato per trionfo un risultato inferiore alle attese: la sinistra di Vendola ha vinto con il 46% dei voti, contro il 44% del centrodestra.
Tra gli aspiranti governatori, si era candidata, alleata con l’Udc, la signora Adriana Poli Bortone, ex ministro del Governo Berlusconi e bandiera storica della destra nel Salento, che raccoglieva il 10% dei voti, sottratti tutti al centrodestra.
Vendola è così diventato un mito della sinistra italiana. E’ stato preso a simbolo della sinistra vincente, salvatore di quell’area politica che perdeva di botto il Piemonte, il Lazio, La Campania e la Calabria (un quinto degli elettori italiani).
Se la sinistra avesse lasciato sul campo anche la Puglia, sarebbe stata quasi cancellata dal sud. Dal Lazio e l’Abruzzo in giù, fuori dal centrodestra sarebbe rimasta solo la minuscola Lucania, mentre la presenza maggioritaria della sinistra sarebbe stata limitata solo alle regioni ‘rosse’, feudi, da sempre, prima degli ex comunisti ed oggi, con consensi minori, del Partito Democratico.
La “vittoria” in Puglia è servita al poeta di Terlizzi da catapulta per proiettarsi sulla scena politica nazionale. Non c’è stato giornale che non abbia concesso un’intervista, e non c’è stato programma di approfondimento in tv in cui non sia stata registrata una presenza, o telegiornale che non abbia raccolto una dichiarazione dell’uomo con l’orecchino. Non c’è stato episodio nazionale, di natura politica o sociale, in cui non ci sia stata la presenza o non sia stata raccolta una posizione assunta dal Governatore pugliese.
Invece che per le questioni, pur rilevanti della Puglia, Vendola si è interessato ad esprimersi sulla riforma universitaria, per il referendum alla Fiat, nel confronto sul moralismo e per l’individuazione di un candidato a premier per la sinistra.
Repubblica così lo invitava a togliersi l’orecchino e guidare le truppe degli indignati contro Berlusconi, possibilmente da Fini a Di Pietro. Quelli del gruppo di De Benedetti, di fatto vera dirigenza politica della sinistra, nella consapevolezza che le elezioni in Italia si vincono conquistando il centro moderato, e che in quest’area c’è un’idea dei brillantini alle orecchie degli uomini pari a quella di chi porta l’anello al naso, si sono persino preoccupati di consigliare al “poeta” di rifarsi il trucco.
Repubblica è il giornale dei poteri forti e della borghesia radical-chic italiana. E’ il giornale di riferimento di quelli con la “erre” moscia, di quelli … che le barche a vela, di chi presenzia alle sfilate di moda, insomma di quelli che si fanno scherno delle apparenze grossolane e volgari, ma che si ritrovano nel dare importanza più alle apparenze che alla ragione. E per Repubblica l’orecchino per un uomo non è molto fine, e neanche sufficientemente moderato e borghese.
Vendola, però, a quell’orecchino ci tiene. Gli attribuisce un significato profondo, quasi filosofico. Certamente per lui ha un significato rivoluzionario o reazionario, a seconda dei punti di vista. L’astro della sinistra risente, infatti, di un’inossidabile e vecchia contaminazione ideologica. La sua condizione di sudditanza di pensiero, bagaglio di una formazione tutto lotta e partito, resta ben ferma nella sua coscienza di combattente e nella sua perseveranza nel sentirsi un alfiere della rifondazione dell’ideologia comunista, come se lo sgretolarsi del cemento del Muro, nel 1989, non avesse anche sgretolato l’illusione, pur mitizzata, di un Paradiso che era invece un Inferno.
Vendola vive di simboli, di messaggi, di racconti, di episodi di vita, di parole e di fantasie. Vive tra le domande alle quali si risponde da solo. Non ha bisogno di confronto. La dialettica è già in lui. E’ inizio, principio, analisi e sintesi (poca e scadente) di tutto. E’ un retorico per natura. In lui si formano messe di parole che maneggia con maniacale animosità. Pervaso, esterna una struggente passione, come quei predicatori un po’ folli che parlano di fine del mondo e simili.
Dal suo pensiero escono idee tutte convergenti a riflettere i suoi imperativi categorici. Un piccolo dittatore, scadente, inutile, a volte ridicolo, sicuramente stucchevole. Scatena la sua fantasia che trasforma subito in sogno, come l “I have a dream”, di Martin Luther King, e poi da sogno l’idea si trasforma in obiettivo, ed il nostro incomincia a crederci. E da quel momento nessuno lo ferma più: si scatena e attacca chiunque gli si pari dinanzi, come se tutto ciò che non ricalchi il suo pensiero abbia parvenza di mostro. Un Don Chisciotte contro i mulini a vento. Così sta distruggendo la Puglia!
Non c’è direttiva europea, non ci sono patti di stabilità, non c’è principio costituzionale, non ci sono normative e leggi dello Stato che Vendola non abbia provato a forzare. Parte ora al grido dell’acqua bene di tutti, ora dalle energie che vengono dal sole e dal vento, ora per il lavoro, ora per l’immigrazione, ora ancora per le unioni di fatto in un crescendo di arroganti provocazioni che finiscono col mortificare il senso stesso della legalità. Persino, e di recente, mentre cresceva la diffidenza dei cittadini per la politica e i suoi consessi pletorici, la pretesa di allargare la maggioranza attraverso la “cooptazione” di 7 consiglieri trombati, e nonostante abbia fruito di 14 consiglieri in più ottenuti con il premio di maggioranza.
La sua Puglia diversa, e a suo avviso migliore, non è altro che la visione che ha di un Paese senza confini in cui ciascuno venga spogliato delle sue tradizioni e delle sue origini: spogliato del genere, delle abitudini, della cultura di riferimento ed anche della propria natura. Un mondo di diversi e di uguali nello stesso tempo. Un mondo confuso dove vorrebbe riposizionare la sua sinistra diversa.
Pensa per l’Italia a un governo “poetico” che dia sostanza alle sensazioni, come se fosse più importante sentire che essere. Come se fosse più importante immaginare che avere. La sua è una “narrazione” che si mostra profondamente diversa da un modello di società competitiva, e soprattutto poco incline alle chiacchiere, com’è oggi il mercato globale.
Dai discorsi di Vendola non si capisce mai molto: é tortuoso e barocco. Si comprende però che respinge ogni cultura di riferimento e si mostra infastidito da chi accenna al senso di appartenenza, come, ad esempio, alla civiltà occidentale, alla cultura europea, alle origini cristiane, alle tradizioni italiane, e se fossimo europei, africani o asiatici non farebbe alcuna differenza, neanche in termini di radici e di tradizioni.
Per Vendola si nasce tutti uguali, ma se questo è vero, in termini di diritti e di umanità, è altrettanto vero che sin dalla nascita si trasmettono messaggi spontanei di scelte di vita, di tradizioni, di abitudini e di sentimenti. Questa da sempre è la cultura dei popoli. La civiltà non è, infatti, che una conquista continua la cui eredità si tramanda di padre in figlio. Non è un mondo di uguali, il nostro, ma è invece un mondo d’individui, e perciò di diversi, e questa è una ricchezza, non una colpa.
Vendola alla pari dell’agente 007, James Bond, che lottava contro paranoici nemici che volevano distruggere il mondo, lotta contro 2010 anni di storia dopo la nascita di Cristo. Vorrebbe fermare il mondo perché il futuro è il suo nemico, senza accorgersi che i nemici della civiltà sono da ricercare tra chi vorrebbe trasformare il paese in una gabbia ideologica.
Vito Schepisi

01 marzo 2011

Un sistema di regole che valga per tutti


L’idea che la Giustizia possa essere asservita a una fazione politica è già notizia che desterebbe inquietudine in chi pensa che il primo valore della democrazia sia quello, per lo Stato e per le sue articolazioni, di un modo indistinto di elargire diritti e di richiedere doveri ai cittadini.

Abbiamo la sensazione di trovarci invece in un Paese in cui accadono cose strane. Ci sono pericolosi mafiosi che sono scarcerati perché ci si dimentica di depositare le motivazioni delle sentenze, pericolosi assassini assolti pur con la consapevolezza dei loro delitti, teppisti che assaltano le forze dell’ordine e che, presi, sono subito rimessi in libertà - Come se avessero solo partecipato a una fiction televisiva - pur avendo lasciato sul campo poliziotti feriti e azioni vandaliche per milioni di euro. Ci sono indagini e intercettazioni telefoniche su traffici internazionali e su spaccio di droga che sono stati bloccati - per mancanza di uomini e di mezzi economici - da quella stessa procura che per un anno non ha risparmiato un euro per seguire, indagare, intercettare chi anche per sbaglio varcava le soglie delle residenze private, ad Arcore o altrove, del Premier Berlusconi. Ci sono, inoltre, anche pericolosi terroristi internazionali che i magistrati lasciano indisturbati di progettare attentati o di predicare odio religioso, antisemita e antioccidentale sul territorio italiano. Le Procure italiane da Napoli a Milano e da Palermo a Trani mostrano però un accanimento che non ha uguali contro un solo uomo, che è poi lo stesso che ha ricevuto le preferenze degli elettori italiani.

Per la Giustizia ogni caso è a se stante. Un garantista non dovrebbe mai chiedere l’applicazione di valutazioni massive, ma spingere perché siano percepiti ed interpretati, caso per caso, i pesi, le implicanze, le responsabilità, la volontà e la natura dei crimini.

Perché sia esercitata in nome e per conto del popolo, gli operatori della Giustizia dovrebbero assicurare alcuni principi di trasparenza e di legalità. In democrazia il popolo deve pretendere che le imputazioni siano chiare, che le ipotesi di reato non siano formulate su teoremi ideologici o che risentano di inimicizie personali o di diversi sentimenti politici, ovvero che non vi siano atti di benevolenza per comunanza o affinità di pensiero.

Se, ad esempio, prendessimo in considerazione i due casi recenti che hanno interessato i protagonisti di due contrapposte fazioni politiche, si potrebbero rilevare almeno due contraddizioni. Una riguarda la mancanza di una trasparente azione giudiziaria, con regole uguali che valgano sempre e per tutti. L’altra l’azione dell’informazione e degli approfondimenti mediatici.

Si è avuta l’impressione d’essere dinanzi a due casi in cui i teoremi ideologici e l’inimicizia per un caso e di contro la comunanza e l’affinità di pensiero per l’altra, emergono. La Giustizia, invece, non può che avere una stessa bilancia.

"Spero che si possa creare un clima diverso, non strumentale – è scritto in un’intervista su Libero con il Sen. Gaetano Quagliariello - Non è
possibile che il ruolo della politica sia rispettato solo per la coscienza di alcuni magistrati: serve un sistema di regole che valga per tutti". Certo che se a Milano l’ipotesi di concussione è applicata senza un concusso, e a Bari per le pressioni sulle nomine non è ipotizzato un reato di concussione, potremmo consumare le lettere della tastiera senza uscire da questo pantano. La sanità pugliese è stata ridotta a un campo di battaglia per la conquista del voto. Controllo del territorio finalizzato al rafforzamento di partiti e fazioni, scrive il magistrato che ha chiesto l’arresto del senatore Tedesco, mentre l’altro magistrato, invece, archiviava la pratica Vendola. Intorno alla sanità pugliese si sono giocate partite e interessi diversi, fino ad ipotizzare che di per se l’assessorato alla Sanità costituisse un sottosistema per la gestione del potere. Un Presidente di Regione chiede al proprio assessore di modificare la legge per favorire la nomina di un suo segnalato ed è tutto normale, mentre in una vicina procura, quella pugliese di Trani, si voleva imputare il reato di concussione a Berlusconi per un suo sfogo telefonico contro Santoro.

In questa vicenda pugliese l’unica cosa apprezzabile è che non sia stata sceneggiata una fiction televisiva, come è accaduto invece con la questione di Ruby ad Annozero, ma senza poi chiederci il perché dei due pesi e delle due misure anche dell’informazione.

La democrazia, però, muore dinanzi all’incapacità di avere un equanime e serio sistema di regole. C’è il rischio che il popolo veda la Magistratura come uno strumento politico e, se ne comprende l’orrore, ne rimanga interdetto ed incominci a non credere più nella Giustizia e nella legalità. Il senatore Quagliariello ha così ragione nel chiedere un “sistema di regole che valga per tutti”.

Vito Schepisi