30 settembre 2011

Pregiudizi e servitù

Questa la voglio raccontare. Ieri incontro un amico, orientato a sinistra e molto critico verso il centrodestra. L’amico nutre una grande passione per Vendola (passione politica!). Lo ritiene, al momento, il vero leader della sinistra italiana. Può anche essere così, ma francamente della sinistra e delle sue beghe infinite non sono interessato. La sinistra non è nelle mie ipotesi di scelta. Non che la destra lo sia per partito preso, ma, se chiamato a scegliere, la mia preferenza va sempre verso chi propone un modello di società liberale, con uno Stato minimo e con la gente che fa il proprio dovere, senza pensare che si possa vivere alle spalle degli altri, con diritti e doveri in equilibrio, senza privilegi, con meno protagonismi. Una società meno rigida, più giusta e più responsabile, ovvero uno Stato in cui ci siano più certezze sociali e più opportunità, ed ancora più libertà e più sicurezza: uno Stato che la sinistra italiana, per il suo retroterra culturale, non potrà mai realizzare.
L’amico mi saluta e deciso a dire la sua, introduce la conversazione con una domanda che non è proprio tale. Mi dice: “hai visto che Berlusconi sapeva che le zoccole che partecipavano alle sue feste erano escort e che le pagava?”. In verità la sua frase è stata ancor più colorita, ma la sostanza era questa. Una domanda che era già una conclusione, di certo un pregiudizio.
All’istante penso che questa sia disinformazione. E penso che nell’immaginario molti abbiano già raggiunto questa conclusione. Penso che lo scopo di alcune inchieste sia, giusto, questo, e che sia persino evidente che l’obiettivo sia stato raggiunto. Una di quelle domande, stile La Repubblica con la penna della buon’anima di D’Avanzo, come se si volesse far sorgere il dubbio, ben sapendo che spesso il solo dubbio si rivela già sufficiente a far passare per acquisita una certezza che invece non c’è.
Naturalmente io tutta questa certezza non l’ho mai avuta. A dire il vero, tutto ciò che è sin qui conosciuto sembra avvalorare il contrario. Mi viene il dubbio che l’amico volesse parlarmi del suo ultimo sogno in cui, stranamente, mi comprendeva come protagonista, come se in questo sogno avessimo avuto insieme la possibilità di valutare fatti e circostanze, nella realtà inesistenti, che inducessero al formarsi di questa asserita convinzione. Sorridendo, e per sdrammatizzare, gli chiedo di escludermi dai suoi sogni, consigliandogli finanche di dedicarli a soggetti più gradevoli di me e di Berlusconi.
Gli rispondo così, con pacatezza, riferendogli che la questione si è fatta così fitta e che le ipotesi sono diventate così contraddittorie e intriganti da lasciar più di un dubbio che questa inchiesta non costituisca una grande messa in scena che qualcuno ha voluto montare e di cui ben s’intuiscono le finalità. Tutt’altro che un servizio alla Giustizia. Gli contesto che mi sembra più una cosa studiata a tavolino, persino con alcune modalità che sembrano così simili a quelle che adottano quei prepotenti che sono presi dalla voglia irrefrenabile di mollare a tutti i costi un pugno sul naso a chi gli sta sulle palle.
Nelle storie giudiziarie le responsabilità sono personali e, così, naturalmente, anche in questa ci sono i soggetti coinvolti. Alcuni si trovano a dover rispondere dinanzi alla magistratura delle contestazioni mosse con riferimento ai propri pensieri riportati a persone con cui dialogavano in amicizia. Alcuni si sono visti pubblicare sui giornali le proprie faccende personali, comprese quelle che riguardavano la propria intimità, benché prive di qualsiasi interesse giudiziario.
Se penso alle volte con cui al telefono ho raccolto, e fatto, confidenze con la preghiera di non farne cenno a nessuno, mi sale persino l’angoscia.
Su ciò che è stato detto in privato, i magistrati fanno congetture e domande, ma come si fa a ricostruire a posteriori sensazioni private e le preoccupazioni più intime di un momento della propria vita? Come si fa a ritrovarsi su cose astratte, spesso su illusioni, o su millanterie, oppure su timori e sfoghi in un momento di rabbia? Come se ti chiedessero perché hai alzato la voce contro uno che ti ha chiamato alle tre del mattino per parlarti delle sue faccende private. Le risposte restano sempre racchiuse nella reazione emotiva del momento: sono un tutt’uno con il pensiero che, in quel momento, si è formato in modo istintivo.
Sono, comunque, tutte incursioni che sottraggono scorci di vita privata alla condizione civile di persone libere. La gente vive in un personale che è fatto di luci e di ombre, in cui possono alternarsi momenti di frustrazione ad altri di grande esaltazione. La vita è un palcoscenico in cui ciascuno, in coscienza o meno, interpreta il proprio copione. Su quel palcoscenico va in scena il diritto degli uomini a vivere la propria vita secondo la propria coscienza, senza doverne dar conto a nessuno se non alle persone coinvolte nella propria vita privata.
Su queste relazioni private, però, c’è chi ci ride sopra e chi ci ricama i propri pregiudizi. Come se ci fosse un diritto che lo consenta. Nessuno, invece, avrebbe il diritto di umiliare e mortificare il suo prossimo, soprattutto se si tratta di presunti imputati e di presunte vittime, quindi individui già in uno stato di prostrazione. La Giustizia non è ridere sulle disgrazie o sulle colpe degli altri.
Il mio amico, così, per tutta risposta, mi riempie d’invettive contro il premier e mi chiama “servo”. Servo della libertà e della verità, si! E nella convinzione che ciò che si percepisce oggi in Italia non possa essere, affatto, un buon servizio alla democrazia.
Vito Schepisi

10 settembre 2011

L'11 settembre 10 anni dopo

Tremilaseicentocinquanta giorni fa, due aerei di linea, carichi di passeggeri, penetravano come in una tavoletta di burro, nelle pareti esterne delle Twin Towers a New York. In quello stesso giorno, un altro aereo di linea, anch’esso carico di passeggeri, precipitava al suolo in Pennsylvania, fortunatamente fuori da centri abitati, e un altro jet ancora si abbatteva sul Pentagono, simbolo assoluto del comando militare statunitense.
Vicende tutte integrate in un’unica azione terroristica. Atti di bestiale crudeltà in cui persero la vita circa 3.000 persone tra uomini, donne e bambini.
La lettura politica di quell’assurda catastrofe è nell’esplicito atto di guerra che una parte del mondo aveva dichiarato contro la civiltà occidentale.
Quel giorno qualcuno iniziò a capire che la guerra di civiltà non era un’invenzione delle forze reazionarie, e che non era neanche la resistenza del cattolicesimo all’imporsi, in medio oriente, dei regimi che s’ispiravano all’integralismo islamico, ma era tutta in quell’esplicita, anche se tacita, dichiarazione di guerra dell’11 settembre del 2001.
Chi nega la guerra di civiltà in atto, nega la storia. Per farlo c’è persino chi nega l’11 settembre, com’è stato ancor prima negato l’Olocausto. L’infamia dissolutrice nazi-totalitaria non sa cosa sia la vergogna.
All’apertura del terzo millennio tutti i popoli della Terra hanno così potuto osservare, in quell’atto di barbarie, la barriera di odio che il mondo musulmano stava erigendo contro la civiltà occidentale e contro tutte le sue espressioni più rappresentative.
I rapporti tra due mondi diversi per cultura e civiltà, a spregio della diplomazia e della convivenza civile, s’incrinavano per il crescere di un fanatismo intollerante e per ragioni che esulavano dalla visione di egemonia politica ed economica del mondo.
Si manifestava, così, l’odio cieco verso un diverso modello di civiltà. Veniva fuori una frattura che, se traeva le sue origini storiche nel medioevo, dai tempi delle crociate e delle missioni volute dall’influenza esercitata della Chiesa per “liberare” la Terra Santa dai musulmani, era cresciuta sulle frizioni tra due differenti condizioni di vita. Nell’era della comunicazione si è radicato più l’odio per le libertà, che il risentimento per i fatti di 900, e passa, anni prima.
Alla società civile, in alcuni paesi arabi si erano sostituite le rappresentanze teologiche islamiche che imponevano regole rigide, nel segno delle interpretazioni più radicali dei loro libri sacri. Il fenomeno, fino al 2001, si era già allargato a macchia d’olio, e prosegue tuttora sino alle ultime rivoluzioni delle popolazioni del nord-africa in cui il fattore islamico ha avuto un proprio ruolo.
Le caratteristiche più inquietanti dell’Islam sono nell’assenza di tolleranza, nella differenza di civiltà e nel rifiuto del pluralismo culturale e religioso. E’ sufficiente una scintilla, un “versetto satanico” o una citazione teologica a innescare una bomba. Basta un solo banale episodio per far partire una “fatwa” che equivale a un giudizio emesso, per il quale ogni musulmano si sente poi autorizzato a dar effetto alla pena.
Anche in Europa e in Italia gli immigrati di estrazione islamica pretendono di imporre la loro cultura e non rispettano usi e tradizioni locali, e neanche le leggi dei paesi ospitanti.
Dopo 10 anni, dall’11 settembre 2001, nonostante la scomparsa di Bin Laden, malgrado le due guerre in Iraq con la sconfitta di Saddam Hussein, e nonostante l’impegno delle N.U. in Afghanistan, per la lotta al terrorismo, il quadro è andato via, via peggiorando.
La genesi dell’insuccesso ha sempre le sue motivazioni. E’ da individuare essenzialmente nella confusione degli obiettivi. Le nazioni occidentali sono divise tra loro per meschini interessi economici e per strategie di lotta politica. All’interno degli stati sono presenti grosse spaccature. In Italia, ad esempio, ci sono partiti e movimenti che, per questioni ideologiche e per mera speculazione politica, pur di contrapporsi a paesi come Israele e gli USA, visti come baluardi del capitalismo e della democrazia liberale, e quindi additati come imperialisti e violenti, solidarizzano con il terrorismo islamico. Persino l’11 settembre è messo in discussione, con tesi complottiste imbevute di cieca viltà.
In Occidente non c’è condivisione e non c’è coscienza nazionale, sino a non avvertire il pericolo di una massa fanatica, sospinta persino al martirio per esaudire il volere del suo Dio e guadagnarsi così, con il sacrificio terreno, il paradiso con le 7 fanciulle promesse. Questa condizione dell’Occidente rende più debole la politica della fermezza e spunta le armi della diplomazia. La divisione finisce per essere la forza di coloro che oggi possono minacciare la pace e le conquiste della nostra civiltà.
L’11 settembre, invece, se non si volesse rinunciare a vivere secondo i principi della democrazia, da cittadini autonomi e liberi di scegliere, dovrebbe esser visto come un segnale per non abbassare la guardia. L’assassinio di tremila persone dovrebbe essere un monito contro il fanatismo politico e religioso. Dovrebbe servire a radicare i valori del pluralismo nella nostra cultura. Dovrebbe farci comprendere i limiti dell’integrazione possibile. Dovrebbe unirci nella conferma orgogliosa delle nostre abitudini e delle nostre tradizioni.
Sono la fermezza, il coraggio e la forza della libertà, infatti, le sole armi vincenti della gente civile per contrastare, tutta insieme, ogni rigurgito di follia.
Vito Schepisi

07 settembre 2011

Uno sciopero dannoso. Contro il Paese

Anche in Puglia la Cgil ha prodotto uno sforzo organizzativo notevole.
L’obiettivo era portare in piazza, a Bari, una decina di migliaia di persone. Sul fatto che ci si sia riusciti o meno, come anche sul numero esatto di coloro che sono scesi in piazza, meglio evitare le solite sterili polemiche.
Il sindacato rosso parla già insistentemente di un fiume di presenze, ma più che i numeri dei manifestanti deve contare il significato politico di questa manifestazione. Che, come le altre, va rispettata ma può essere anche legittimamente criticata e contestata.
C'è chi ha definito quello della Cgil uno sciopero contro il Paese. Inutile, dannoso, pericoloso, incoerente: questi sono stati gli aggettivi più usati, a Bari e non solo, da coloro (e sono tanti) che hanno ignorato lo sciopero e hanno lavorato come ogni giorno.
Non è una novità che il sindacato di Susanna Camusso da un po’ di tempo, in particolare in coincidenza con la rottura dell’unità sindacale sulla questione dei contratti esplosa con il caso Fiat di Pomigliano d'Arco, si sia colorata sempre più di rosso.
Sono finiti, però, i tempi del potere di veto e delle estenuanti concertazioni, quando tutti vincevano qualcosa meno che l’economia italiana. E’ lontana l’immagine di quella politica consociativa che ha contribuito a portare l’Italia a un debito pubblico vicino a duemila miliardi di euro.
Tutto questo passato, per fortuna, è ora visto come il ricordo stantio di un metodo non più proponibile. E la Camusso, a quanto pare legata ancora a quelli schemi, viene vista all'interno del suo stesso mondo come un campione di archeologia politico-sindacale.
L’impressione è che la Cgil abbia scelto di essere il sindacato della rottura, il cui metodo sembra essere quello della lotta al sistema: quasi mai disponibile al confronto, adeguandosi ad essere un ulteriore strumento politico dell’area del pregiudizio ideologico, molto più che una democratica espressione dell’impegno nelle battaglie sociali. L’attività di portare nelle piazze la lotta di classe prevale sull’interesse sindacale a comporre le controversie tra impresa e lavoro mediando tra i diritti e i doveri di tutte le parti in causa.
A rimarcare l’atteggiamento più politico-ideologico che sindacale della Cgil ci sono le reiterate prese di distanza della Cisl e della Uil, come è accaduto anche in questa circostanza. Bonanni e Angeletti, benché critici sulla manovra, si sono mostrati indisponibili ad alzare i toni, facendo prevalere quel senso di responsabilità che in questo momento di crisi dovrebbe accomunare tutti.
Lo sciopero della Cgil era stato indetto da tempo, quasi in modo preventivo. Da allora molte cose sono cambiate, tanto da rendere questa manovra incardinata sul recupero di risorse attraverso un intervento il meno possibile a carico delle tasche dei cittadini già provati dalla crisi.
Eppure la Cgil, ma anche Bersani e Vendola, hanno parlato di un attacco, a dire il vero inesistente, all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, allarmando sulla facoltà di licenziamento delle imprese, introdotta a loro dire con l’art. 8 della manovra, quello che prevede la possibilità di accordi in deroga ai contratti nazionali.
Nonostante il Ministro Sacconi si sia affrettato a spiegare che si tratta di “un rafforzamento dei contratti aziendali chiesto dalla Bce perché consente una maggiore crescita” con l’obiettivo di “incoraggiare nuove assunzioni”, non è mancato il fuoco di critiche strumentali.
Se riflettessimo bene, però, la maggiore preoccupazione in Italia dovrebbe essere soprattutto per coloro che sono fuori dal mondo del lavoro, messo in difficoltà dalla attuale congiuntura economica internazionale. I lavoratori sono prevalentemente garantiti, benché interessati da tanti problemi per arrivare alla fine del mese o per far quadrare i bilanci familiari, e benché siano preoccupati per il futuro dei propri figli.
Eppure, a scioperare contro la manovra bis del Governo, sono proprio loro. Quelli iscritti al sindacato di sinistra. Quelli della Cgil braccio destro e sinistro dell’area del neo-comunismo e dell’alternativa sociale.
La manovra è stata chiesta all’Italia dai partner europei per tranquillizzare i mercati e segnare passi concreti nell’indirizzo della rimessa in sesto dei nostri conti. Questa manovra non è un capriccio del governo e i suoi contenuti sono una sintesi di istanze diverse, comprese quelle richiamate dall’opposizione.
C’è anche l’impegno per le istanze invocate dai cittadini su questioni come quella del taglio ai costi della politica: a tal proposito, il dimezzamento dei parlamentari e l’abolizione delle Province, da attuare attraverso l’iter parlamentare previsto dall’art 138 della Costituzione.
Ecco perché questo sciopero della Cgil risulta non solo inutile, ma anche dannoso: uno sciopero che, in questo momento, non va di certo a vantaggio del Paese.

Vito Schepisi

su L'Occidentale

01 settembre 2011

La bilancia della Giustizia è scassata


Verrebbe da chiedersi se in Italia la bilancia della giustizia sia scassata, o se siano gli uomini addetti alla pesa inclini ai due pesi e alle due misure. La risposta ha la sua importanza. Le garanzie, e la Giustizia rientra tra queste, costituiscono le basi di un sistema di democrazia liberale.
Sin dai tempi di “mani pulite”, quando da destra a sinistra si alzò il grido giustizialista contro una classe dirigente incapace di emendarsi e di offrire soluzioni politiche di respiro strategico, apparve chiara la direzione, rimasta unica, in cui si voleva andare a parare.
Già da allora, più che una bilancia a due piatti, la giustizia italiana era apparsa come un piano inclinato che faceva scorrere tutto in un’unica direzione. E non c’è niente di più immorale della presenza di due pesi e due misure nella lotta all’illegalità e al malcostume. Le discriminazioni sono antipatiche e generano sfiducia nelle istituzioni, la giustizia parziale induce persino quella parte che la fa franca a perfezionare e moltiplicare le sue pratiche illegali.
L’odio, il pregiudizio, ma soprattutto un po’ d’ignoranza, unita all’incapacità di trasformare l’antagonismo politico in una proficua strategia democratica, e poi la voglia delle soluzioni sbrigative, assieme alla falsa idea della sinistra di una propria supremazia intellettuale e morale, impedì agli inizi degli anni ’90 di far prevalere l’autocritica e la stessa, ma più completa, riflessione morale, per avviare un confronto politico-istituzionale, propedeutico all’avvio di una stagione di sostanziali riforme. Ne stiamo pagando tuttora le conseguenze.
Prevalse nel Paese, sui media, e nelle correnti della magistratura, anche in quelle più autonomiste, trascinate da quelle più politicizzate, l’idea che la questione morale fosse un problema da risolvere prevalentemente all’interno dei partiti della tradizione capitalista e di democrazia occidentale.
Non è stato mai chiarito, ad esempio, per quale principio, ai tempi di “mani pulite”, il Vice Procuratore Capo della Procura di Milano, Gerardo D’ambrosio, poi diventato parlamentare DS, e successivamente PD, come ebbe a riferire il PM Tiziana Parenti, avesse maturato l’idea che, se l’azione giudiziaria si fosse allargata al Pci-Pds, sarebbe crollato tutto il teorema giudiziario del Pool milanese. Sarà stata questa la ragione per la quale c’era chi non poteva non sapere e chi, invece, poteva, ma anche la ragione per la quale era sufficiente fare atto di ravvedimento, interagendo con una ben precisa parte politica, per restarne fuori e farla franca.
E’ stato così che l’area politica più pluralista e meno autoritaria, benché responsabile per aver instaurato e assecondato quel costosissimo sistema dei partiti e delle correnti, sostenuto, com’è emerso, con le pratiche corruttive e con le tangenti, ebbe a trovarsi schiacciata, come dai due bracci di una tenaglia, dalle furbizie delle connivenze giudiziarie e dai sentimenti massimalisti e reazionari di opposta tendenza politica.
Da una parte a soffiare sul fuoco era la sinistra post-comunista. Il Pci aveva visto dissolversi la sua strategia di avvicinamento alla conquista del potere con l’utilizzo degli strumenti della borghesia, e facendo leva sulla conflittualità interna, come aveva teorizzato Lenin. La sinistra marxista si era così liberata, furbescamente, dopo la caduta del Muro di Berlino, di quel nome che ricordava l’orrore e le tragedie emerse dall’esperienza disastrosa e dal fallimento civile, sociale, economico e politico dell’est europeo.
La sua nuova strategia, una volta diventato Pds, mirava sempre alla conquista del potere, ma ora nel solco del socialismo democratico di stampo europeo, riciclandosi e disponendosi a sostituirsi al partito socialista italiano di Bettino Craxi che, non a caso, veniva additato come il maggior responsabile del sistema corruttivo e illegale instaurato in Italia. Il leader socialista, che in Parlamento aveva denunciato la presenza di un sistema  di corruzione che attraversava tutti i partiti (I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale), veniva, infatti, costretto all’esilio in Tunisia per sfuggire alla ferocia manettara, sapientemente alimentata da una connivente regia politico-giudiziaria.
Dall’altra parte, come secondo braccio della tenaglia, c’era quella parte della destra reazionaria e forcaiola che individuava nella Democrazia Cristiana e nel Partito Socialista le responsabilità del congelamento della sua consistenza elettorale ed il suo isolamento politico, e c’era anche l’emergente egoismo locale del Nord del Paese che faceva di “Roma ladrona” lo strumento per la richiesta di trasformazione dell’Italia in Stato federale che sapeva tanto di richiamo alla secessione.
Accade che i nodi che non sono sciolti si ripresentino, e la sensazione di farla sempre franca si trasformi, persino, in maggiore audacia. Il sistema Pci-Pds-Ds rischia ora di diventare il sistema PD. Se anche Giorgio Bocca sostiene di temere la minaccia di querele di Bersani, si rafforza il timore dell’intimidazione verso chi osserva e denuncia.
La sensazione che la bilancia della Giustizia sia scassata e che penda sempre da una parte, anche dinanzi alle querele, ora ha un che di ancora più inquietante.
Vito Schepisi