27 dicembre 2011

Giorgio Bocca non c'è più

A funerale avvenuto, anche la pietà per la morte diventa cronaca. E quando muore un uomo che ha percorso la storia, lasciandone, comunque, marcata o meno, una traccia, anche il dissenso e la critica assumono le sembianze di un tributo da assolvere per ricordare la persona scomparsa.

E la storia si scrive su ciò che è stato di buono o di cattivo, di nobile o meno. Si scrive sui sentimenti, sui lasciti, sulle sensazioni diffuse. Si scrive per chi poi resta e vuole capire.

Con Bocca è scomparso un giornalista comodo.

E’ morto un uomo che in fondo serviva a tutti. Serviva agli amici e ai nemici.

Agli uni, agli amici, è servito come l’esempio di un giudizio autorevole, simile ad una condanna da reiterare fino alla noia, in particolare se tipizzata su un singolo individuo. Una pronuncia che cade greve, senza appelli.

In quel mondo che, formato nel fascismo, è maturato nell’ideologia successiva dell’antifascismo, infatti, non esiste un processo di appello, e la condanna è emessa senza che sia persino legittima la difesa. Ed è come se da quel giudizio si debba trarre tutta la sintesi complessiva del merito della stessa esistenza del giudicando.

Passa per il tratto storico di un giudizio che, irrorato al di fuori di un vero tribunale, per le personalità più discusse, diventa un peso da portare a vita. Un giudizio che finisce con l’essere più mortificante di quello espresso dopo un processo penale che, come si sa, oggi, passa per essere sempre meno attendibile. Celebrato in quei luoghi dove non si fa più Giustizia.

Agli altri, ai nemici, serve come esempio negativo di un metodo che non riesce a rilasciare con una pacata ragione l’idea di una scelta diversa. Come è per il pregiudizio che si rivela allorquando viene meno sia la forza di comprendere che il coraggio dell’autoironia e del confronto critico.

La storia è come uno stagno.

Qui si fermano le acque limacciose che la retorica trasforma in flussi di eroismo e di viltà. Ed è lo stesso stagno che ribalta il riflesso della storia, mutandone appena il soggetto osservatore.
Ma, in uno stagno, la risultante che compone le forze che si muovono è nulla: tutto resta così ineffabilmente fermo.

Nelle acque stagnanti si riflettono, invece, le immagini dei profili rugosi, per sopraggiunta vecchiaia, di tutte le giustificazioni di comodo che chi prevale antepone alla storia che vuol raccontare. E tra le immagini sono compresi i riflessi di quei carri su cui salgono sempre nuovi vincitori ad ogni giro di ruota.

Bocca è stato un maestro di ipocrisia. Ha fatto del pregiudizio, maturato nell’astiosità preconcetta, il principio immanente del suo modo di rappresentare le circostanze presenti, come rappresentazione salvifica nel giustificare gli episodi e i comportamenti del passato.

Non irriverente, piuttosto maleducato, iroso, offensivo, ingiusto, quasi violento. Mai misurato.

E’ morto un antifascista che non è mai stato contro l’arroganza, l’ingiustizia, il sopruso.

E’ morto un partigiano che era stato fascista e che ha continuato ad essere reazionario, elitario, superbo.
E’ morto Giorgio Bocca che ha continuato a fare il partigiano scambiando per oppressione anche il confronto delle idee, la critica, la verità storica, la discussione, le scelte contrarie, la libertà di tutti, come quella dei meridionali che godevano, ingiustamente a suo vedere, della libertà di esistere e di pensare.

Vito Schepisi


14 dicembre 2011

In Puglia si allarga lo spread tra le chiacchiere e i fatti


Se n’è accorto anche il Presidente della Regione Puglia che è finito il tempo di utilizzare le risorse economiche dei contribuenti per “scialare”.
Ove mai fosse mai stato il tempo delle cicale a beneficio dei cittadini pugliesi, nessuno in passato ha avuto il modo di accorgersene.
Quello di “scialare” è un privilegio che è stato concesso a pochi. E, tra questi, a tanti amministratori che non si sono certamente ritratti dal fare delle Istituzioni e del Territorio pugliese un proprio personale campo di battaglia da utilizzare, sia per accelerare le carriere politiche e sia per alimentare gli affari privati, come più volte la stessa magistratura, seppur lacunosa nel fare piena luce su fatti e circostanze, ha, via via, rilevato.
Quella che dice di voler percorrere il tragitto che va dalla spensieratezza delle cicale all’impegno per la parsimonia delle formiche, però, è la stessa giunta che governa la Puglia dal 2004.
E’ quella che ha visto i giovani emigrare, le fabbriche chiudere, l’agricoltura abbandonata, i politici usare le risorse pubbliche per rafforzare il proprio insediamento politico sul territorio.
E’ la stessa maggioranza, con lo stesso Governatore, che ora si ripresenta per annunciare le linee programmatiche per il 2012 e che dice, in piena consapevolezza della menzogna, di non voler mettere le mani in tasca ai cittadini.
Dalla mortificazione del territorio, ferito dall’incuria e dagli insediamenti di pale eoliche che ne hanno violato l’originale bellezza, alla indifferenza verso i giovani, gli anziani, i malati, verso l’impresa ed il lavoro. E’ questo in sintesi il bilancio degli ultimi 7 anni.
L’era Vendola dovrà finire per rivedere rinascere la Puglia.
In poco tempo, il “poeta” pugliese ha trasformato la Regione da una fucina fervida di iniziative, da cui aver modo di partire per sviluppare lavoro e per dare esito alla domanda dei giovani, ad un arido deserto di promesse mancate e di speranze disperse.
In così poco tempo è stata resa arida, per ignoranza, per indifferenza, per cinismo e per trasporto ideologico, una terra su cui erano già stati piantati i semi del nuovo raccolto.
Per il 2012, però, ai cittadini pugliesi, nonostante i fallimenti, senza soluzione di continuità con il passato, arrivano promesse e nuovi impegni, come se una stessa scena possa rappresentare l’immagine sia di una terra splendida per storia, arte, paesaggio e prodotti tipici e sia quella dei servizi degradati, delle risposte insufficienti, del lavoro precario, delle truffe e dei costi onerosi.
Il Presidente Vendola è un Giano Bifronte guarda sia alla sua poltrona di Governatore e sia fuori dei confini regionali, promettendo al resto del Paese la stessa immagine “poetica” della politica delle “chiacchiere”, mentre per il presente ai pugliesi, puntuale come l’oste, presenta il conto da pagare.
Ogni anno è sempre la stessa cosa, ma come si diceva un tempo, quando il Banco di Napoli gestiva nelle nostre città meridionali il Monte dei Pegni: "Chiacchiere e tabacchere e' lignamm o' Banco 'e Napule nun ne 'mpegna!" (Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non ne impegna).
Tante, tantissime chiacchiere di cui il Nostro è maestro ma lo “spread” tra le sue parole e i suoi fatti, per usare un’espressione di moda e a lui cara, invece di ridursi si allarga sempre di più. Nonostante le affermazioni contrarie, sono anni che la Regione mette le mani in tasca ai cittadini pugliesi.
La Puglia è la Regione più cara d’Italia. I maggiori costi, gli sprechi ed i buchi della sanità sono pagati dai suoi cittadini. Vendola e il suo assessore non dicono che in puglia si paga: 0,25 cent/lt in più di accise sui carburanti (per autotrazione e per riscaldamento); un’addizionale IRAP sul valore della produzione netta delle imprese (molte sono in difficoltà per la crisi dei mercati e per mancanza di liquidità) del 4,82%; un addizionale sull’ irpef dell’1,53%, o dell’1,73, sui redditi a seconda che questi siano, rispettivamente, inferiori o superiori a 28.000 euro. A tutto questo si aggiungono i ticket sanitari sulle analisi, sui farmaci e sulle ricette (un euro a ricetta) e si estende il taglio della fascia di esenzione, allargandosi ai portatori di patologie invalidanti.
I tempi non consentano di “scialare”. Le difficoltà del Paese sono oggettive. Il debito sovrano dovrà imporci un taglio netto con le cattive abitudini del passato. I costi sono importanti e andrebbero tagliati laddove sia possibile farlo.
In questa realtà sarebbe stato più opportuno alleggerire, ove possibile, l’onere che ricade sulle fasce più deboli. Ma non sembra sia questa la logica che ispiri il bilancio di previsione 2012 per la Puglia. Nessun taglio alle spese di gestione, nessun taglio agli organici, né al numero dei dirigenti, nessun taglio alle spese di rappresentanza e di pubblicità istituzionale, nessun taglio all’effimero (tanto), né alle spese correnti e nessun programma di tagli alle sponsorizzazioni e ai contributi, in sostanza non è cambiato niente rispetto al recente passato.
Vito Schepisi

11 dicembre 2011

Shut down Minzolini

Ancora una volta la "presunta giustizia" interviene per rimuovere chi è sgradito. In questo caso un Direttore di testata che in Rai non ha accettato compromessi e "veline" di gruppi e partiti.

La magistratura, da tempo, gli ronzava intorno. 
Sin dai tempi della convocazione del giornalista, per sentirlo, come persona informata sui fatti, sulle truffe sulle carte di credito a Trani. 


Quell’inchiesta, in cui Minzolini era del tutto estraneo, è anche servita a giustificare le intercettazioni telefoniche sul premier Berlusconi (un membro del Parlamento, per giunta Presidente del Consiglio dei Ministri, per la legge italiana, non può essere intercettato) che discuteva al telefono con un consigliere dell'Agcom.
Uno sfogo, contenente la denuncia dell'uso improprio della Rai contro una parte politica, è stato trasformato dal PM di Trani in un'ipotesi di reato. Già questo sarebbe “lunare”, incredibile e grave, ma se fosse servito per formulare ipotesi di reato inesistenti e comunque, come si è visto, fuori della competenza del magistrato tranese, anche questa questione non potrebbe che destare inquietudine sull’agibilità politica e sulla libertà di esporre in privato le proprie ragioni su questioni che appartengono al dibattito politico in Italia.

C'è sempre una trama?

C’è sempre un teorema diabolico in tutto?

Sono le domande che in tanti si pongono. Non arrivano risposte, però, né si vedono prese di responsabilità delle Istituzioni. Nessuna via di uscita.

Ma l’Italia è destinata a essere un Paese governato dai poteri giudiziari?


Il protagonismo giudiziario s’è sparso a macchia d’olio: è diventato infettivo come la febbre gialla!


Il direttore del Tg1 è stato rinviato a giudizio per un uso "illecito" della carta di credito aziendale. 
Tanto basterà per motivarne, nella riunione del 13 dicembre prossimo del C. di A. della Rai, l'allontanamento dalla Direzione del telegiornale.


Minzolini ha già interamente rimborsato l'importo all'azienda, senza neanche contestare la legittimità o meno dell'utilizzo totale o parziale delle somme spese.


E' un episodio inquietante. Lo è a prescindere dal torto o dalla ragione del Direttore Minzolini.

Come si farebbe, infatti, a rimuovere l’opinione di tanti che sia stato fatto ad arte?

Interviene, in questo momento politico, come la riprova dell'esistenza di una reazione massimalista e ideologica che utilizza tutti i mezzi per abbattere il "nemico".


La sinistra italiana, bisogna pur dirlo, non cambia mai. E' rimasta al sogno del regime. Come nel passato, non intende confrontarsi con il metodo della democrazia pluralista. Predilige e vuole solo militanti. 


L’area della sinistra ideologica sa che solo discutere di soluzioni e metodi è partita persa per chi ha una formazione incentrata sul "centralismo democratico", sulla piramide del controllo e sul servilismo dei militanti. 


Quest’area, in Italia, usando la lealtà e la ragione non potrà mai essere vincente.
 La sinistra l’ha saputo da sempre, sin dai tempi del consociativismo e della concertazione, sin dai tempi della sua opposizione ipocrita e lottizzata quando era in piedi la Prima Repubblica.

Tutto ciò che riguarda l'informazione, come accadeva negli anni '70 e '80, per questa cultura, o è fazione schierata da una precisa parte politica o è da abbattere.


Allora c'erano i gruppi terroristi che sparavano, i famosi “compagni che sbagliano”, ora che c'é la magistratura che fa per loro il lavoro “sporco”?

Come si fa a vincere questa convinzione che si radica?

E come la sfiducia di tantissimi pensieri liberi?

Nella magistratura, nel giornalismo, in politica, nella società, chi non si schiera contro i suoi "nemici" per la sinistra è già un "nemico".


Tutto questo non è concepibile in democrazia.


E' vergognoso che si arrivi a tanto!

Vito Schepisi

01 dicembre 2011

L'Italia autocratica

Sta cambiando qualcosa, e ciò che appare non è confortante. La svolta voluta dal Presidente Napolitano, prima che i redditi, gli stipendi e le pensioni dei lavoratori, taglia qualcosa di più importante.
Agli occhi interessati di finanza e mercati, le fondamenta di un Paese appaiono meno fungibili, ma per i cittadini che non giocano in borsa e che non speculano sulle valute e sui titoli del debito pubblico ci sono principi molto più importanti, come quelli di libertà e di democrazia che restano ancora impressi nella nostra Costituzione.
Non si conoscono ancora nei dettagli i contenuti della manovra annunciata per il 5 dicembre prossimo dal nuovo Presidente del Consiglio Monti, ma si sa già che qualcosa sta cambiando. Ciò che appare chiaro è che, da qualche giorno, le decisioni prendono forma in luoghi del tutto diversi da quelli tipici di un sistema democratico. Da Bruxelles, ad esempio, non si arriva più con una valigia piena di impegni e di opportunità, ma con una cartellina che, come intestazione, porta scritto “prendere o lasciare” ed in cui è contenuta una lista di diktat.
Siamo dinanzi ad una svolta epocale. E’ doveroso, pertanto, rifletterci sopra. Dobbiamo farlo per registrare questa visibile nuova realtà, senza ignorare quanto sia altrettanto visibilmente pericolosa, come quella in cui le scelte per gli italiani le stanno facendo i burocrati ed i banchieri europei, non più i cittadini in libere elezioni.
Non c’è più neanche il confronto tra le diverse opzioni politiche. Questo Governo ha avuto la fiducia di quasi tutto il Parlamento, alla Camera e al Senato. Eccetto alcuni parlamentari che hanno dissentito a titolo personale, soprattutto per esprimere un malessere, e della Lega Nord che è passata all’opposizione, il Governo Monti ha avuto una fiducia larghissima ed è stato votato dalla destra, dal centro e dalla sinistra. Sulla carta gode di una maggioranza bulgara.
Ad occhio, c’è puzza di imbroglio!
Se la Conferenza di Messina del 1955 si fermò alla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) con l’auspicio di voler camminare tanto per raggiungere quella comunione di intenti che aveva animato lo spirito europeista di uomini come De Gasperi, Einaudi, Gaetano Martino, Adenauer, senza dimenticare Giuseppe Mazzini, oggi quelli che sembrano esser stati alcuni pur timidi passi avanti in senso europeista, in verità si rivelano come il tipico procedere incerto di un passo avanti e due indietro.
E’ il fallimento dell’immagine di un’Europa che si voleva unita nelle decisioni importanti. Viene meno un Comunità che si auspicava adottasse una politica comune improntata al rilancio della plurimillenaria civiltà del Vecchio Continente. Manca, purtroppo, la consapevolezza di un ruolo. Nessuna comunità cresce senza che abbia uno scopo e senza un coincidente obiettivo di diffusa equità sociale. Dalle piccole alle grandi comunità è sempre così.
L’Europa è, se si prefigge di diventare un faro di civiltà, un riferimento per la pacifica convivenza civile, un modello di democrazia. Il vecchio Continente avrebbe da porsi come riferimento per tutti quegli uomini e quei popoli che mirano alla pace, alla solidarietà e alla cooperazione.
Come gli USA che, a torto o ragione, rappresentano nel mondo l’idea della libertà della gente oppressa, l’Europa doveva rappresentare, per i popoli che vanno dall’area mediterranea fino all’oriente, la nuova frontiera dell’equità sociale e dell’umanesimo. Doveva essere la traccia di un multiculturalismo che si apriva alla comprensione e alla solidarietà, in cui ogni paese si attribuiva il suo fardello di impegni.
E’ emersa, invece, l’Europa degli egoisti e dei furbi.
Sembriamo dei pazzi, vandali ed ubriachi che si divertono a distruggere tutto ciò che capita a tiro.
Questa che c’è, è l’Europa delle mezze tacche, degli uomini piccoli che con veti, spocchia, presunzione e prepotenza mettono con le spalle al muro gli stati che ne fanno parte, e piegano le ginocchia dei più deboli.
E’ la stessa Europa che finisce con il non avere più una sua moneta credibile. Una finta unione di paesi diversi per lingua e storia, permeabile agli spifferi della speculazione e cagionevole, tanto da costiparsi a tal punto da dover ricorrere a terapie d’urto, dinanzi alla poca avvedutezza di una protagonista che un giorno ebbe la brillante idea di disfarsi dei titoli di debito pubblico italiano dal portafoglio del suo Paese.
E l’Italia è la terza grandezza economica dell’Europa dell’Euro.
Questa è l’Europa che perde prestigio internazionale, mentre si piega dinanzi alla bolla speculativa di mercati e di banchieri, senza registrare alcuna lodevole e coraggiosa reazione dei suoi governanti. Questi sono uomini che si credono statisti e che si piegano agli eventi della speculazione, senza la capacità di reagire e di riprendere in mano il timone di comando per rimettere la nave in acque più navigabili.
La finanziaria italiana ora la faranno la speculazione ed i diktat della Bce, della Merkel e dell’Amministratore Delegato dell’autocratico primo Uomo del Quirinale.
La cura da cavallo ridurrà certamente l’affanno del Paese.
Ma a che prezzo?
Vito Schepisi