A funerale avvenuto, anche la pietà per la morte diventa cronaca. E quando muore un uomo che ha percorso la storia, lasciandone, comunque, marcata o meno, una traccia, anche il dissenso e la critica assumono le sembianze di un tributo da assolvere per ricordare la persona scomparsa.
E la storia si scrive su ciò che è stato di buono o di cattivo, di nobile o meno. Si scrive sui sentimenti, sui lasciti, sulle sensazioni diffuse. Si scrive per chi poi resta e vuole capire.
Con Bocca è scomparso un giornalista comodo.
E’ morto un uomo che in fondo serviva a tutti. Serviva agli amici e ai nemici.
Agli uni, agli amici, è servito come l’esempio di un giudizio autorevole, simile ad una condanna da reiterare fino alla noia, in particolare se tipizzata su un singolo individuo. Una pronuncia che cade greve, senza appelli.
In quel mondo che, formato nel fascismo, è maturato nell’ideologia successiva dell’antifascismo, infatti, non esiste un processo di appello, e la condanna è emessa senza che sia persino legittima la difesa. Ed è come se da quel giudizio si debba trarre tutta la sintesi complessiva del merito della stessa esistenza del giudicando.
Passa per il tratto storico di un giudizio che, irrorato al di fuori di un vero tribunale, per le personalità più discusse, diventa un peso da portare a vita. Un giudizio che finisce con l’essere più mortificante di quello espresso dopo un processo penale che, come si sa, oggi, passa per essere sempre meno attendibile. Celebrato in quei luoghi dove non si fa più Giustizia.
Agli altri, ai nemici, serve come esempio negativo di un metodo che non riesce a rilasciare con una pacata ragione l’idea di una scelta diversa. Come è per il pregiudizio che si rivela allorquando viene meno sia la forza di comprendere che il coraggio dell’autoironia e del confronto critico.
La storia è come uno stagno.
Qui si fermano le acque limacciose che la retorica trasforma in flussi di eroismo e di viltà. Ed è lo stesso stagno che ribalta il riflesso della storia, mutandone appena il soggetto osservatore.
Ma, in uno stagno, la risultante che compone le forze che si muovono è nulla: tutto resta così ineffabilmente fermo.
Nelle acque stagnanti si riflettono, invece, le immagini dei profili rugosi, per sopraggiunta vecchiaia, di tutte le giustificazioni di comodo che chi prevale antepone alla storia che vuol raccontare. E tra le immagini sono compresi i riflessi di quei carri su cui salgono sempre nuovi vincitori ad ogni giro di ruota.
Bocca è stato un maestro di ipocrisia. Ha fatto del pregiudizio, maturato nell’astiosità preconcetta, il principio immanente del suo modo di rappresentare le circostanze presenti, come rappresentazione salvifica nel giustificare gli episodi e i comportamenti del passato.
Non irriverente, piuttosto maleducato, iroso, offensivo, ingiusto, quasi violento. Mai misurato.
E’ morto un antifascista che non è mai stato contro l’arroganza, l’ingiustizia, il sopruso.
E’ morto un partigiano che era stato fascista e che ha continuato ad essere reazionario, elitario, superbo.
E’ morto Giorgio Bocca che ha continuato a fare il partigiano scambiando per oppressione anche il confronto delle idee, la critica, la verità storica, la discussione, le scelte contrarie, la libertà di tutti, come quella dei meridionali che godevano, ingiustamente a suo vedere, della libertà di esistere e di pensare.
Vito Schepisi
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