29 ottobre 2009

Omofobia, xenofobia: scelte o patologie?


Le fobie sono stati dell’uomo che rivengono da particolari situazioni di natura psicologica. Di solito indicano la difficoltà di poter convivere in contesti particolari per la presenza di animali, oggetti e persone. E’ una vera patologia della psiche in cui l’oggetto stesso della fobia diventa solo il motivo scatenante della difficoltà che si manifesta. E’ordinariamente un più articolato e complesso insieme di timori che sfocia in manifestazioni di panico e di angoscia. Le origini sono diverse, ma per buona parte rivengono dalla formazione, dall’ambiente, da traumi o dal desiderio inconscio di rimuovere alcuni pensieri o alcuni impulsi che si ritengono inaccettabili. E’ una vera intolleranza che non è controllata dalla volontà, ma da un naturale fenomeno intimo, a volte invincibile e non orientabile, sebbene quasi sempre innocuo. Non c’è una vera cura per le fobie se non con le terapie di analisi, ovvero con la somministrazione di psicofarmaci, laddove i fenomeni presentino pericoli di eccessi e di violenza. In questi casi, però, si parla più propriamente di fenomeni di follia.
Quanto sopra, non è un tentativo di trattare un argomento medico, tra l’altro già diffusamente discusso in campo scientifico, ma di capire di cosa si parla quando nel dibattito politico sentiamo discussioni su questioni che si avvolgono su termini come “omofobia” e “xenofobia”.
La cosa più stupida che si possa pensare è di fare una legge contro una fobia. Sarebbe come dire facciamo una legge contro una malattia. E perché no contro il tumore? Perché non superiamo i rischi d’infarto con una bella legge che lo proibisca? Una legge contro la stupidità, però non sarebbe una cattiva idea!
Se si parla di “omofobia”, dunque, si intende una manifestazione di intolleranza verso le pratiche sessuali definite propriamente o impropriamente, contro natura. E’ omofobo chi non approva, mostra contrarietà ed avverte fastidio alla presenza di situazioni di sessualità “diversa”. Tutto questo è molto differente dalle manifestazioni di violenza e di aggressione verso chi pratica sesso diverso fuori dalla coppia uomo-donna. La violenza infatti è un’applicazione di un costume di vita maturato in un ambito di disagio ambientale, di noia o di pressioni ideologiche, spesso in un contesto in cui l’esito violento diventa la risultante di una cultura indotta e finalizzata. La motivazione omofobica è spesso solo un pretesto.
L’avversione verso l’omosessualità a volte invece è intima, epidermica, nella forma dell’aver fastidio per il contatto, per la presenza, per il contesto. Ma allora è possibile una legge contro l’omofobia? E’ possibile proibire per legge l’avversione intima all’omosessualità? Anche in questo caso spesso prevale l’ipocrisia tipica di chi fa di una manifestazione di consenso un metodo di strumentalizzazione. Di chi ci fa, più di chi ci è, come Franceschini che alle primarie ha candidato a suo vice un uomo di colore perché era nero.
Se si parla invece di “xenofobia” si intende una serie di timori che sono evocati da preoccupazioni causate da più ragioni. I più diffusi sono i timori per le diverse civiltà, per le diverse religioni, per i diversi costumi, ma anche il timore di doversi trovare a soccombere rispetto alle proprie scelte di vita, alle proprie tradizioni, ai propri riferimenti culturali, ai propri simboli. Il timore, insomma di doversi trovare a modificare i propri comportamenti di vita per uniformarli a quelli di coloro che avvertiamo diversi da noi. Il timore estremo di doversi sentire estranei nel proprio Paese. Come se un ospite entrasse in casa nostra ed incominciasse a pretendere di voler regolare un diverso sistema di vita della casa.
La xenofobia ed il razzismo sono due cose distinte, ma il razzismo è spesso una conseguenza diretta della xenofobia. Diventa la condizione dell’animo con la quale si manifesta la propria ostilità verso un modello di cultura. E’ un odio che nasce direttamente da situazioni di intolleranza, ovvero da particolari modelli formativi. Il razzismo è quasi sempre la conseguenza di un fenomeno maturato in un contesto educativo in cui sono venuti a mancare i valori di riferimento su cui basare il proprio senso di appartenenza.
Ma si può proibire per legge la xenofobia? Si può cancellare la preoccupazione che emerge dalla consapevolezza di una politica che invoca una società multietnica e multiculturale come se fosse una evoluzione ineluttabile del mondo? Ma devono essere necessariamente definiti xenofobi coloro che invece parlano di integrazione su valori di riferimento nazionale e che guardano con preoccupazione ai dati forniti sulla presenza straniera in Italia? Come se il record raggiunto fosse un traguardo di civiltà nazionale!
Vito Schepisi

25 ottobre 2009

Se devono essere dimissioni, dimissioni siano

Ma le dimissioni sono vere o a metà? Il dubbio non sembra inopportuno e neanche motivato da volontà forcaiole, ma pertinente perché la sospensione annunciata dal Governatore del Lazio è una cosa, le dimissioni un’altra diversa. Non si vorrebbe che, con tutta questa vicenda, la cosa passasse dalla constatazione di un comportamento censurabile, ad una farsa politica.
E’ necessario distinguere le vicende.
Il Marrazzo che ha la sua vita privata, condivisibile o meno, che compie gli atti sessuali di suo gradimento, per scelta, in un ambito diverso da ciò che la maggioranza degli italiani considera normale, rientra nel suo modo di interpretare al meglio la sua personalità. Sono fatti suoi. E’ libero di fare le sue scelte. Ha diritto alla sua vita privata e nessuno dovrebbe trarre giudizi morali sui suoi gusti sessuali.
Si potrebbe obiettare che questa sua condizione non era a conoscenza dei suoi elettori i quali, altrimenti, non gli avrebbero concesso il consenso elettorale ottenuto. Chi obietta pensa che il giudizio politico sull’uomo, cioè quello espresso col voto, si dovrebbe intrecciare con il giudizio morale che volente o nolente l’elettore trae sul candidato all’atto del rilascio della scheda votata nell’urna elettorale.
La condizione di Marrazzo sarebbe stata certamente più chiara se avesse fatto “outing”, cioè se avesse chiarito per tempo le sue abitudini private. Ma se quest’ultima circostanza può essere condivisibile (avrebbe evitato la ragione del ricatto), si deve anche ribadire che non deve essere considerata come la sola scelta da fare. Non è necessario fare ‘outing’ sulle proprie attitudini e preferenze. Le abitudini private, infatti, purché non pregiudizievoli allo svolgimento del mandato elettivo, possono tranquillamente restare private, senza che il richiamato giudizio politico possa minimamente restarne compromesso.
Questo è un principio inalienabile della democrazia liberale.
Il principio indurrebbe, come è opportuno che sia, a premiare o meno la capacità di governo, e non i gusti e le scelte di vita intima. Solo se si usassero immagini di vita privata, con lo scopo di ‘certificare’ un modo di essere, o alcuni valori di riferimento, che servano da richiamo elettorale, l’emergere di una diversa realtà potrebbe essere intesa come inganno verso il corpo elettorale.
Nelle recenti elezioni europee il leader dell’Udc Casini, ad esempio, si è fatto fotografare coi suoi figli in tenera età per dar di se l’immagine di un padre di famiglia che mostra attenzione verso alcuni valori, tra cui l’educazione dei figli. Se accadesse che nella realtà i suoi comportamenti contraddicessero l’immagine data, il suo messaggio sarebbe censurabile, ipocrita, ingannevole. E’ solo un esempio, perché nessuno mette in dubbio il reale attaccamento dell’On. Casini ai suoi figli ed ai valori che ha voluto trasmettere.
Si diceva che la vicenda va vista anche dall’altro aspetto politicamente, invece, più rilevante.
Il Governatore Marrazzo è stato vittima di un ricatto. Dalle notizie al momento rilevabili, su questa circostanza non dovrebbero esserci dubbi. Ciò che lascia però perplessi è che il Presidente della Giunta Regionale del Lazio non abbia sentito il dovere di denunciarne gli autori, tanto più perché servitori dello Stato, appartenenti alle forze dell’ordine. Il tentativo di estorsione è un reato che, a differenza di quelli perseguibili su denuncia di parte, è perseguibile d’ufficio. Nascondere un reato è di per se già un reato: il cedimento al ricatto col pagamento di una somma sarebbe addirittura un’aggravante del reato commesso. Sono cose, però, che solo la magistratura ha il compito ed il potere di verificare e di stabilire, valutando le circostanze e le attenuanti, perché la vicenda va vista nell’insieme, come appunto solo l’autorità giudiziaria può fare, e solo essa può formulare le diverse ipotesi di reato da far valere in giudizio.
Ma è proprio questa constatata debolezza (l’esser stato ricattabile ed essersi prestato al ricatto) che, più dell’imbarazzo delle circostanze, non può essere politicamente perdonata ad un rappresentante delle istituzioni. Le sue dimissioni dall’incarico, a questo punto, senza formule furbesche e svianti, dovrebbero essere considerate ineluttabili, ma anche utili a consentire a Marrazzo stesso di riacquistare rispetto e comprensione.
La sola sospensione dallo svolgimento del mandato non avrebbe invece alcun significato concreto, se non quello di mortificare ulteriormente tutto il Consiglio Regionale laziale.
Vito Schepisi su Il Legno Storto

22 ottobre 2009

Chi intimidisce il giudice Mesiano?

Ottenuta la bocciatura in Europa sull’ipocrisia del pericolo per la libertà di stampa in Italia, naturalmente per colpa di Berlusconi, la sinistra ripiega su d’un altro obiettivo: le presunte intimidazioni verso il magistrato che ha inflitto una condanna da 750 milioni di euro alla Fininvest.
La condanna è stata molto discussa per tante ragioni, soprattutto per il passaggio con procedura esecutiva di una somma da capogiro dalle casse di Fininvest a quelle del suo concorrente e nemico di sempre: la Cir dell’ingegner Carlo De Benedetti.
Gli osservatori, la stampa, gli avvocati, il mondo giudiziario, tutti insieme si sono posti alcuni quesiti sulla sentenza. I dubbi e le obiezioni vertono sulle sensazioni di una sostanza giuridica che ribalta le sentenze già emesse, che investe nuove e diverse interpretazioni sulle assoluzioni avvenute, che osserva sulla presenza di responsabilità non inequivocabilmente individuate, che si sofferma sul valore giuridico di accordi intervenuti con la clausola del null’altro a pretendere. E’ emerso un grosso dubbio che appare non privo di reale e fondamentale importanza: la competenza del magistrato nel calcolare un risarcimento di tale portata, senza l’ausilio di una perizia tecnica e di una specifica professionale che faccia risalire all’esatta ragione dei conteggi. Perché la giustizia sia coerente e risponda a certezze documentate e non solo ad una convinzione di un giudice unico.
Settecentocinquantamilioni di euro non sono noccioline e sono più che sufficienti a destabilizzare l’equilibrio industriale, occupazionale e produttivo di una grande azienda come la Fininvest. Non può non preoccupare il dubbio che quanto stabilito dal giudice sia motivato da un calcolo del tutto personale e poco attinente coi fatti, dato che il valore di capitalizzazione dell’intera Mondadori è nettamente al di sotto della cifra riconosciuta al presunto danneggiato, che poi è sempre l’ingegner Carlo De Benedetti, un pregiudicato che in Italia gode di opinioni e sentimenti controversi.
Sulla sentenza, sui precedenti giudiziari, sul Lodo Mondadori, sugli accordi successivi è già stato detto tutto e c’è libertà di pensarla come si crede, anche se in campo giudiziario le sentenze sono le uniche verità che contano. Ma non per questo tutto il resto può ritenersi infondato, almeno fino al terzo grado di giudizio, ed anche oltre, se è l’elaborazione intellettuale della propria convinzione.
Esiste o no la libertà di parola e la libertà d’espressione della propria opinione?
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” – art 21 della Costituzione Italiana. Certamente c’è un limite al diritto previsto dalla carta Costituzionale ed è l’oltraggio, il falso e la calunnia verso terzi.
Ma dov’è allora l’oltraggio, dove la calunnia, dove il falso? Che diritto ha il CSM della magistratura a condannare la libera convinzione dei cittadini? Dov’è l’intimidazione nel pensarla in modo diverso? La preoccupazione è invece per una deriva più marcatamente politica della Magistratura che finisce con l’essere in contrasto con la giurisdizione del diritto oggettivo dell’Ordinamento Giudiziario, previsto sempre dalla nostra Carta Costituzionale.
Una sentenza della magistratura va certamente rispettata, ma non si può pretendere che non sia discussa e criticata, nessuno è possessore del diritto d’essere l’espressione suprema ed infallibile. Non si vuole togliere niente alla sentenza ed al magistrato che l’ha emessa, ma c’è un altrettanto diritto di tutti di pensarla diversamente, d’esprimere un concetto diverso nelle forme della correttezza, del rispetto, della buona educazione e delle motivazioni. Nel caso specifico le motivazioni del dubbio esistono e sono pesanti come il peso economico di 750 milioni di Euro.
Anche il giudice Mesiano non è infallibile, come tutti, a prescindere che indossi i calzini turchesi o le mutande lilla. Ciò che non si capisce è dove siano le intimidazioni? Perché tanto zelo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo Presidente Mancino?
C’è, invece, un’intimidazione quotidiana contro chi pensa che la democrazia in questo Paese debba essere tutelata attraverso la trasparenza e l’indipendenza dei suoi organismi istituzionali. Gli organismi di garanzia previsti dalla Costituzione non possono essere trasformati in succursali della aule parlamentari in cui, approfittando delle spinte corporative di ordinamenti trasformatisi in caste, si pensa di doversi prendere la rivincita delle sconfitte politiche.
Vito Schepisi su Il Legno Storto

19 ottobre 2009

Calzini turchesi per Franceschini


Se un segretario uscente di un partito, in corsa per la rielezione, indossa i calzini turchesi, per far parlare di se, finisce col rendere inconsistente la sua intera proposta politica ed assolutamente mortificante la sua rielezione. I calzini dal colore stravagante, indossati dal magistrato che ora passa per vittima, dopo aver conquistato il primato italiano nell’uso della giustizia come arma di vendetta politica, sono diventati così il nuovo simbolo dell’intero spessore politico di Franceschini.
L’attuale segretario PD, però, dovrebbe avere ben altro da proporre al Paese, ma non risulta di contro alcuna sua chiara proposta politica, se non il solito antiberlusconismo che lo accomuna, con poche varianti tattiche, ai suoi rivali nella scalata alla riconquista della segretaria del PD.
Sembra che si imponga da noi una sorta di pregiudizio libertario per il quale possa essere consentito a chiunque di guardare, scrivere, spiare, sfruculiare nella vita privata del Capo del Governo, se questi si chiama Berlusconi, mentre diventa pestaggio mediatico, ed atto intimidatorio e politicamente scorretto, osservare le stravaganze di un magistrato che, per sua sentenza immediatamente esecutiva, chiede il passaggio di 750 milioni di Euro, il valore di circa 10.000 appartamenti costruiti nelle zone terremotate dell’Aquila, dalla Fininvest della famiglia Berlusconi alla Cir di De Benedetti.
"Oggi questi – dice Franceschini, riferendosi ai calzini turchese - sono la cosa più importante". Ma se un leader di partito per dare il meglio di se ricorre agli effetti mediatici, si capisce perché abbia poi bisogno di un simbolo, di parole d’ordine, di démoni, di feticci per polarizzare l’attenzione dei suoi possibili sostenitori. La richiesta di Franceschini “tutti coi calzini turchesi”, e l’indicazione di Mesiano a simbolo della giustizia italiana, non è un bel vedere per un partito che si propone per la guida del governo e che dovrebbe responsabilmente sapere che tra i mali italiani ci sia una giustizia che trova difficoltà ad essere tale.
I cittadini italiani, infatti, avvertono con preoccupazione la presenza di una corporazione, quella dei magistrati, che indugia più nella ricerca della notorietà e dell’invasione sul terreno della politica, che nell’assolvere al ruolo previsto dalla Costituzione d’essere autonoma ed indipendente. Assistiamo da tempo a manifestazioni di tifo e di pregiudizio politico da parte di un ordinamento che gode di assoluta insindacabilità e che ha un suo proprio organismo di autogoverno. Dovrebbe essere inquietante sapere che ci sia un magistrato che brinda pubblicamente per un risultato elettorale negativo per una parte politica su cui, come giudice unico di primo grado, sta per emettere un verdetto. Sarebbe difficile, infatti, pensare che dopo aver esultato, il verdetto non debba essere di assoluta condanna. Come è stato. Ma è strana anche la preventiva levata di scudi di un’associazione, come l’ANM, che manifesta fastidio al solo sentir parlare di riforma dell’ordinamento giudiziario, la cui necessità è invece diffusamente sentita.
C’è una ‘casuale’ coincidenza, anche fisionomica, tra il segretario dell’ANM Palamara e quello della FNSI Franco Siddi, sono entrambi segretari dei sindacati unici: Il primo dei magistrati ed il secondo dei giornalisti. Il primo reagisce per le critiche di giornalisti e politici contro la corporazione dei giudici ed il secondo quando i giornalisti vengono querelati da una parte politica per diffamazione o quando alcuni servizi focalizzano perplessità sulle “stranezze” caratteriali di un magistrato. Entrambi però tacciono e minimizzano se i comportamenti inusuali e le esternazioni di magistrati, le sentenze astruse, le interpretazioni faziose, i proclami politici, le manifestazioni di non imparzialità, ovvero se le intimidazioni, le querele, la faziosità, l’aggressione mediatica e l’uso improprio dell’informazione vengono usate da una parte politica contro l’altra, non casualmente sempre la stessa.
Un modo d’essere dei due segretari, nei modi e nei toni, che brilla per assoluta carenza d’autocritica. Non è certo questo il modo migliore per rappresentare sindacati unici che dovrebbero, invece, offrire una visione d’insieme di tutte le opinioni. Se un sindacato unico diventa strumento di parzialità, elude la sua piena rappresentatività, mortifica le diversità e denota scarso interesse per la stessa democrazia.
Vito Schepisi sul Il Legno Storto

14 ottobre 2009

Omofobia e art.3 della Costituzione

Gli strani casi della vita! L’art.3 della Costituzione viene richiamato dalla Consulta per il Lodo Alfano, laddove si voleva che le più alte cariche dello Stato potessero essere immuni dai procedimenti giudiziari di disciplina penale fino all’esaurimento del mandato politico-istituzionale ricevuto. E l’art 3 viene richiamato per impedire che una legge conceda privilegi a favore di categorie di persone con diversi orientamenti sessuali.
L’articolo della Costituzione riappare alla ribalta della cronaca, questa volta in Parlamento, perché tutti siano “eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali“.
Dice proprio così l’art.3: “senza distinzioni di sesso”!
Ma se il richiamo della Consulta nel primo si è riferito ad un a legge “Il Lodo Alfano” che riprendeva una parte delle motivazioni con cui l’Assemblea Costituente aveva varato anche l’art.68 relativo all’Immunità Parlamentare, come scudo al “fumus persecutionis” che l’autonomia e l’autogoverno della magistratura potevano e possono far temere con il loro sconfinamento sul terreno della politica, il richiamo in Parlamento all’art. 3, per respingere il tentativo di rendere più uguali degli altri gli omosessuali, è senza dubbio più appropriato.
Non può costituire aggravante un delitto contro la persona solo se motivato da discriminazioni sessuali piuttosto che di religione, o di diverso orientamento politico, ad esempio, ovvero verso fasce di popolazione come i minori ed i disabili. Tra le motivazioni dei reati contro l’individuo c’è persino quello dei futili motivi o le motivazioni più perverse e nascoste. Tra le aggravanti comuni sono comprese quasi tutti le motivazioni non colpose. Non ci sarebbe alcuna ragione per una legge specifica di aggravio dei delitti non colposi contro la persona incentrata sull’omofobia. Ha ragione la ministra Carfagna quando sostiene di volersi far garante per una legge che comprenda “aggravanti per tutti i fattori discriminanti previsti dal Trattato di Lisbona, compresi quelli dell'età, della disabilità, dell'omosessualità e della transessualità».
Non può, inoltre, essere considerato reato un sentimento di avversione naturale all’omosessualità, nello stesso modo in cui lo stesso sentimento di avversione possa esistere per gli omosessuali verso l’eterosessualità. Non è obbligatorio “esaltare” chi ha orientamenti sessuali diversi da quelli considerati naturali, come se fossero dei privilegiati. Non è neanche normale pretendere che gli omosessuali e tutte le categorie di diversità sessuale siano particolarmente cautelati come una categoria protetta. Sarebbe assurdo! Non è una categoria tra gli individui che andrebbe protetta, ma la legalità. E’ sbagliato infine pensare che ci sia un giudizio etico che motivi un senso di avversione, come se fosse un pregiudizio che parte da motivazioni religiose, come se fosse una forma di fondamentalismo etico che teme il diverso e la sua negativa influenza morale nella società.
Non è obbligatorio avere sentimenti di condivisione, come non può rappresentare reato il mostrare fastidio per la presenza di omosessuali, purché la propria difficoltà sia manifestata con civiltà e senza alcuna forma di violenza. Non può altrettanto essere reato biasimare le scene di cattivo gusto e mostrare fastidio per gli approcci provocanti di personaggi variopinti e mascherati come a carnevale. Non si vorrebbe che per la libertà degli uni si debba forzare la libertà degli altri.
Non può infine costituire motivo di aggravio al reato la responsabilità nell’offesa rivolta verso gli autori di una pratica sessuale, ovvero l’offensivo giudizio generico verso una condizione sessuale, rispetto, ad esempio, all’offensivo giudizio politico verso chi esprime un’idea o verso chi compie scelte di governo del Paese, legittimato a farlo dal voto popolare.
Vito Schepisi

07 ottobre 2009

Il Lodo Alfano e la Consulta


Se passasse la tesi di incostituzionalità del Lodo Alfano sarebbe una sentenza politica, priva pertanto di qualsivoglia sostanza giuridica. La Consulta non è un tribunale dove sia possibile far prevalere un teorema accusatorio: deve stabilire il rispetto della Costituzione ed il funzionamento dei poteri dello Stato. Il ricorso alla Corte Costituzionale è l'extrema ratio della correttezza istituzionale. Ha funzione di cautela e di controllo sulla democraticità di tutto il sistema legislativo. Una sentenza, inoltre, deve essere motivata con argomentazioni giuridiche. Deve anche tener conto della storicità delle sue sentenze. La sola contraddizione, rispetto all'evoluzione storica delle sentenze già emesse, potrebbe esser di per se una grave deriva ideologica.Se la Corte Costituzionale, infatti, non riuscisse a spogliarsi dalle incrostazioni ideologiche dello scontro politico in atto, e dalle stesse contingenze partitiche, mortificherebbe gravemente il suo ruolo. Se si dividesse, come nel Paese, come i tifosi di squadre concorrenti, senza entrare nel merito solo del principio costituzionale sollevato, e storicamente già affrontato con una sentenza motivata già emessa, verrebbe meno l'indifferibile ruolo di garante della democrazia rappresentativa incardinata sul ruolo della sovranità popolare. Se accadesse si renderebbe responsabile del possibile impedimento all'esercizio del mandato popolare, stabilendo altresì la possibilità per una magistratura militante di impedire le funzioni di Governo del Paese ai soggetti politici indicati dal popolo.
Vito Schepisi

05 ottobre 2009

Una "mortale" intimidazione


Se a Roma alcune decine di migliaia di cittadini provenienti dalle varie regioni d’Italia sono stati convogliati a Piazza del Popolo per manifestare a favore della libertà dell’informazione, messa a loro dire in discussione dal Presidente del Consiglio Berlusconi, c’è chi si chiede, invece, se in questo Paese ci sia agibilità politica.
I fatti contano molto di più delle parole e di ciò che si vorrebbe asserire con le proteste di piazza: tacitare la libera scelta, mortificarla, negarla, omologarla al pensiero unico, per indicare un modo, il solo “politicamente corretto”, viene ribaltato dai fatti che pesano molto più di mille parole e che rischiano di travolgere persino le regole della democrazia, infondendo la sensazione dell’assenza di una vera agibilità politica.
C’è chi in Italia, da tempo, pensa che la politica sia una guerra di bande, e forse per quel che accade non ne avrebbe tutti i torti. S’avverte senza dubbio la sensazione che i metodi usati prevarichino il confronto politico e lo stesso pensiero sulle regole di un sistema democratico. E’ diffusa la sensazione di una lotta politica finalizzata alla mera gestione del potere: non quindi per affermare un proprio progetto politico, ma per conquistare qualcosa. C’è chi si batte con ogni mezzo, tra cui anche quello di annientare l’avversario. Una lotta che si trasforma in odio e pregiudizio, e nell’uso di ogni strumento di offesa, ignara del consenso e con il gusto di demolire e di sopraffare. Una lotta che vede due tifoserie contrapposte, come in un campo di calcio, due tifoserie agguerrite che vorrebbero calci di rigore a favore della propria squadra, anche senza un motivo apparente, anche contro le regole del campo dove chi gioca meglio, ed è più efficace, prevale.
La mannaia della punizione passa così dal vociare di una folla convocata a protestare, anche contro la logica dei numeri, al bavaglio del colpo mortale. Nel nostro caso, il vero bavaglio alla libertà “tout court” consiste proprio nella stroncatura del nemico politico. Non c’è riuscita la magistratura penale, ora ci prova quella civile. Una condanna al risarcimento di 750 milioni di Euro è l’arma. E’ come una bomba ad alto potenziale, come un colpo mortale inferto ad un’azienda ed al suo indiscusso leader. Una somma che per l’ammontare e per i modi non ha precedenti nella storia mondiale. Un risarcimento per una faccenda già chiusa 20 anni fa con un accordo tra le parti “senza altro a pretendere”.
Se ne ricava una lezione terribile. E’ la riprova che in Italia alcuni poteri sono davvero forti. E’ un monito orrendo, truce e severo: se non si può colpire l’avversario con la democrazia delle scelte, se non in una regolare competizione elettorale, se non sul piano del consenso politico e per il giudizio del popolo sovrano, restano solo i metodi della vendetta, dei sicari, della sopraffazione fisica, dell’uso violento della giustizia.
E’ uno spettacolo che si replica da 15 anni, come una commedia di grande successo. A volte cambiano i protagonisti e la coreografia, ma la storia è sempre uguale ed è invariato il fine che si vuole raggiungere. Si ha quasi l’impressione che ci sia una regia: come di un Grande Vecchio che dica “qui comando io”. Si agisce con ogni mezzo e con una concentrazione di forze e di risorse che ha dell’incredibile, attraverso i più disparati tentativi di colpire il fatidico “mostro”.
Berlusconi diventa l’uomo sempre in prima pagina, come il classico mostro da sbattere, come una piovra gigantesca dai mille tentacoli, come un vero ed ingordo onnivoro. Assistiamo basiti alla rappresentazione di un uomo descritto così apparentemente rapace ed onnipresente su scene così disparate del male da far perdere credibilità all’intera commedia. L’essere descritto come il Male assoluto fa però sorgere più di un sospetto sull’uso politico della giustizia: il sospetto che contro il Premier in Italia ci sia una vera persecuzione giudiziaria. Il leader del Pdl viene accusato di tutto: sembra che l’unico reato di cui non sia stato ancora accusato sia quello della rapina delle vecchiette all’uscita dell’ufficio postale.
Si fa così strada l’idea che nell’Italia “post” di tutto ( democristiana, comunista, fascista) non possa esistere una democrazia pluralista senza l’omologazione di De Benedetti e delle sue creature politiche, editoriali, industriali e finanziarie. Ma quella di un gruppo che stabilisca, anche contro la volontà del popolo, chi abbia la facoltà di governare il Paese, non può essere certo una scelta di democrazia e di pluralismo, non può essere un’opzione di libertà e di legalità, ma di abuso e d’arroganza, di violenza e di prevaricazione.
Tante proteste per le citazioni i giudizio e le richieste risarcitorie di Berlusconi definite intimidazioni alla stampa libera. Dove sono ora le proteste contro questa vera e “mortale” intimidazione?

Vito Schepisi su Il Legno Storto