30 aprile 2013

Ora le rioforme per liberare l'Italia dai parassiti e dagli imbroglioni


La questione italiana non è solo nel rigore dei conti pubblici. Tanto più che, se rigore doveva esserci, doveva incidere sulla spesa e non sull'aumento delle entrate attraverso la fiscalità.
L'Italia con questo governo fa marcia indietro dal vicolo chiuso e riparte verso la responsabilità e la coscienza sociale. 
Dopo essersi trovata nelle mani di un gelido "ragioniere", amico delle banche e della finanza, con il nuovo governo recepisce proprio le indicazioni di chi è uscito dalla morsa di Monti, convinto che bisognasse liberare risorse per i consumi, ridurre la pressione fiscale e favorire la ripresa economica. 
A cose fatte, però, è bene parlare di cosa sia accaduto in Italia, perché se ne faccia tesoro.
Dopo la vittoria di Berlusconi, nel 2008, il Governo e la maggioranza s’è trovata a gestire una fase molto acuta di recessione internazionale, con l'Italia più esposta degli altri per il suo enorme debito. 
Le difficoltà, però, non sono state solo nel gestire i bisogni delle famiglie, nella difesa del lavoro, nel reperire le risorse per la cassa integrazione rifinanziata ed allargata nel tempo e nei percettori per sostenere chi perdeva il lavoro. L’attacco agli italiani e alle loro scelte è stato più profondo. La magistratura si è scatenata contro il premier votato dagli italiani. L’opposizione, quasi sempre in modo pregiudiziale, è stata dura e insensibile ai problemi che si andavano creando. Sembrava una gara al tanto peggio. Se l’Italia aveva bisogno di concordia e di fiducia, si scatenava la discordia e la diffamazione per il solo gusto di far male e di danneggiare l’immagine del Paese. 
A tutto questo modo disgustoso, inusitato in tutti i paesi normali del mondo, si è unita la scellerata opera di un alleato politico che, insediatosi per sua scelta alla Presidenza della Camera, si è messo a boicottare ogni iniziativa politica della maggioranza, tra cui provvedimenti e proposte di riforme. 
Un modo reiterato, fastidioso, stupido, taffaziano, un modo troppo scoperto per non essere voluto e mirato, un modo per il quale non ci sono motivazioni diverse da quelle della smodatezza delle ambizioni e dalla malafede. 
L’Italia è così entrata in un buco nero con la maggioranza in Parlamento diventata traballante. I mercati si sono messi in allarme. I tedeschi sono partiti spingendo le loro banche a liberarsi dei titoli pubblici italiani. La finanza si è mossa trovando nell’Italia e nei titoli italiani l’anello debole su cui speculare. La vendita dei titoli italiani sui mercati ne ha deprezzato il valore. 
Per sostenere la spesa l’Italia è stata costretta a mettere sul mercato titoli rappresentativi del debito pubblico, a lungo termine, con rendimenti molto alti. Paghiamo oggi 85 miliardi l’anno solo per gli interessi sul nostro debito pubblico. 
I principali responsabili di quest’opera di demolizione a danno dell’Italia non sono soltanto nel PD, partito senza idee, interessato solo alla gestione del potere e incapace di amare il Paese, a conti fatti le maggiori responsabilità le ha quel signore che gli italiani hanno già gettato fuori dal Parlamento, assieme ai suoi miseri scudieri. 
Fini voleva correre avanti ai tempi, si sentiva il migliore. Ora ha tempo di pensare ai suoi errori. Non è ancora dato di sapere se la svolta avutasi con questo governo si tramuterà in una speranza ben riposta. 
E’ tempo, però, che per il futuro gli italiani aprano gli occhi. L'Italia ha rischiato già molto.
Il passo che è stato fatto richiede costanza e ragione perché sia tradotta in azioni concrete.
Ci vogliono le riforme. 
Senza, il Paese non va avanti. 
Ci vogliono per liberare il Paese dai parassiti e dagli imbroglioni, per la trasparenza della gestione politica, per le responsabilità della politica e per il rispetto degli elettori. 
Chi non vuole le riforme, è bene dirlo, si è già mostrato molto abile nella gestione mediatica.
La sinistra confida sempre nella sua macchina della propaganda, alla cui guida mostra tutta la sua abilità nell’accusare gli altri delle loro furbizie. 
Non hanno mai amato l’Italia ed hanno sempre fatto così! 
Vito Schepisi

26 aprile 2013

L'intollerante Vendola


Vendola, il politico in cui pulsa un cuore orgogliosamente comunista, insofferente al pluralismo, ma anche alla democrazia liberale, inquieto e intransigente, sostenitore di ogni protesta violenta contro lo Stato, spesso in contraddizione tra l'azione rozza ed il lessico falsamente gentile, giustizialista ma collocato, in un’oasi di impunità personale, in un tribunale “amico”, ha approfittato persino del 25 aprile, giorno della liberazione dell’Italia dal fascismo, per colpire l’idea delle grandi intese, con cui le due maggiori forze politiche del Paese stanno sperimentando una nuova esperienza di governo per le riforme e per uscire dalla crisi. 
Con la sua retorica, senza mai pause di semplicità e di comprensione popolare, il leader di SEL ha sostenuto che nel Comitato di Liberazione Nazionale, da cui sorse la democrazia in Italia, non c’erano i “fascisti”. Ma nel Cnl i conflitti ci furono ugualmente perché se è vero che non c’erano i fascisti, c’erano invece i comunisti.
 
Per l’intollerante Vendola s’intuisce che l'esperienza per uscire dalla crisi, paragonata, con la consueta elaborazione enfatica, alla liberazione dell'Italia dal ventennio fascista, le grandi intese di oggi, a differenza di quelle del CLN di allora, sarebbero partecipate da soggetti politici che lui definisce “fascisti”. 
Per il Governatore pugliese, i “fascisti” sarebbero quelli del Popolo della Libertà. 

Un’accusa forte e violenta. 
I fatti dicono cose diverse. Gli uomini liberi, piuttosto, mettono il fascismo in paragone con il comunismo e ne traggono persino differenze nella somma degli effetti negativi nei crimini contro l'umanità, e contro l'individuo e la sua sfera di libertà. 
Il comunismo è stato, ed è ancora in alcune nazioni, un regime ancora più spietato e crudele del fascismo: un regime che in tutte le realtà nazionali in cui si è applicato si è retto sul terrore e sull'assoluta negazione dei diritti degli uomini. 
Il comunismo, al pari del fascismo, concettualmente, è violenza. E’ un’idea contro l’uomo e contro la sua natura libera, con buona pace di Vendola che non se ne è mai accorto, o che se ne è accorto, ma che, per mero e meschino calcolo di opportunità, è stato così ipocrita da non volerlo far vedere. 
Gli italiani liberi, però, sanno molto bene chi sono i reazionari e gli intolleranti. Sanno chi agisce contro la Nazione e contro gli italiani. Sanno chi rappresenta il nuovo pericolo per la democrazia e per la libertà. 
Tra questi Vendola è in prima fila.
 
Se l’Italia facesse le riforme (come si vorrebbe provare con le grandi intese) il ruolo di quei ronzinari che cavalcano la protesta e le difficoltà della gente fallirebbe, Vendola non avrebbe più un ruolo da interpretare e l’Italia ne trarrebbe certamente gran giovamento. 

Se con il fascismo si evoca la violenza, se nel suo accesso più comune ci ricorda i toni forti e autoritari, se con il termine “fascismo” s’indica la negazione del pluralismo, i toni apodittici, il culto dell’autoperfezione e si dà l’idea dell’arroganza … Vendola sembra una delle figure tipiche per rappresentarne la parte più inquietante e pericolosa: a lui andrebbe l’eredità sostanziale.
 
Vendola sarebbe un fascista a tutto tondo e non gli mancherebbe la tipicaretorica. 
Fallita alle elezioni la sua proposta politica - senza l’alleanza con il PD il suo partito non sarebbe neanche entrato in Parlamento - con la foto di Vasto sgranatasi dinanzi a scelte velleitarie e alle evidenti contraddizioni nel voler coniugare soluzioni demagogiche – o altre autoritarie e illiberali – con obiettivi di sviluppo e di contenimento della spesa pubblica, persa per strada la maggioranza del Paese, Vendola ora prende le distanze dal PD ed è alla ricerca di nuove aggregazioni, magari con il populismo di Grillo, con cui già condivide alcune scelte e certamente anche quella di voler violentare l’Italia e la democrazia.
 
E’ troppo ora sentire che Vendola dia lezioni di democrazia e che celebrando il 25 aprile si faccia interprete di quel cambiamento che in Italia si è arenato per via delle politiche demagogiche e illiberali della sinistra comunista. 
Vito Schepisi

17 aprile 2013

Il disastro del Monte de Paschi di Siena


E' sembrato sin dal primo momento che si volesse occultare la vera portata del disastro del MPS. Si è parlato di derivati e di obbligazioni truffa ai danni dei risparmiatori. Importi ingenti sia chiaro, ma tutto sommato ridicoli dinanzi alla questione complessiva. Sembrava che con le operazioni di qualche furbetto che desse modo di falsare i conti si potesse esaurire l'immagine negativa e le responsabilità molto più di alto profilo di quella che può definirsi come la truffa del secolo. 
E’ bene precisare che non si usano parole come "disastro", "truffa del secolo" ed aggiungerei "grande imbroglio" per dar enfasi mediatica all’azione di qualche mariuolo. L'enfasi è quella che va bene a buona parte della stampa e della tv italiana che, ad esempio, è stata per mesi su Fiorito, ma che è molto contenuta e prudente su questioni ben più pesanti: questioni che richiedono professionalità, organizzazione e coperture di alto livello.
Non roba da mariuoli, ma da criminali incalliti. Una truffa di 17 miliardi di Euro non ha uguali. 
Diciasettemiliardi di Euro è una cifra enorme. Solo un’enorme copertura politica, e non solo politica, poteva consentire questo grande imbroglio. 
Andiamo con ordine. 
Nel settembre del 2007 il Banco Santander, spagnolo, compra L’Antonveneta al costo di 6,6 miliardi di Euro. L’acquisto si rivela subito un pessimo affare. Non produce utili, perde fette di mercato, perde valore patrimoniale. 
Santander scorpora da Antonveneta la sua partecipazione interbancaria del valore stimato di 1,6 miliardi di Euro e decide di sbarazzarsi di quella che sembra una pericolosa palla al piede. Se 6,6 miliardi è il costo d’acquisto, sottratti 1,6 miliardi di partecipazioni scorporate, Antonveneta per Santander ha un costo effettivo di acquisto di 5 miliardi di Euro. 
MPS si offre di acquistare Antonveneta per 9,5 miliardi. Dopo solo pochi mesi dall’acquisto, Santander vende un bidone al doppio di quanto pagato. Antonveneta, però, ha accumulato 7,5 miliardi di euro di debiti. Vale a dire che MPS compra Antonveneta per 17 miliardi di Euro. La stima del suo valore, invece, ammontava a soli 3 miliardi di Euro. MPS compra una banca, diciamo problematica, a quasi 6 volte il suo valore. 
Solo un deficiente non si accorgerebbe che è la truffa del secolo. 
Solo un deficiente non porrebbe in parallelo il valore del MPS (stimato al tempo in 9 miliardi di Euro) con il costo di ciò che MPS acquistava (17 miliardi di Euro). E per compare cosa? Una bancarella se rapportata a quella che era il terzo gruppo italiano. 
Solo un deficiente o uno che sapeva ciò che faceva e che aveva motivo per farlo. 
La Procura di Siena ci fa sapere, ora, che la spesa per l’acquisto di Antonveneta “al netto delle liquidità effettiva è pari ad Euro16.767.652.631,96”. 
Bella scoperta! Sapevamo già far di conto. 
Ma non è finita qui perché gli amministratori del Monte de Paschi di Siena non avevano i soldi per comprare a quel costo la Banca Antonveneta. Per coprire la voragine che si era creata, e per mantenersi al comando della Banca, hanno iniziato a dar corso ad operazioni da trapezio circense a danno dei risparmiatori. 
Alcuni amministratori, dato che erano in ballo, con la complicità di banche di affari e di funzionari interni, ne hanno approfittato per metterci qualcosa di proprio e per arricchirsi alle spalle di chi dava fiducia alla banca comprando i suoi prodotti finanziari. 
A questa banca, per dar modo di risolvere i grossi problemi di liquidità, il Governo Monti all’inizio dell’anno ha concesso un prestito di 3,9 miliardi di euro, ricavati dalle tasse dei contribuenti italiani o, ancor meglio, sottratti alle famiglie che hanno pagato la stessa cifra per l’IMU sulla prima casa. 
Così van le cose in Italia. Mps l'aveva fatto già con Banca 121. 
A proposito quando va tutto in prescrizione?
Vito Schepisi

15 aprile 2013

Pericolo autoritario


Se per il cambiamento si pensasse a Prodi, non vorrei neanche pensare a cosa accadrebbe se Bersani pensasse invece ad una stagione di continuità con la tradizione passata.
Ritornerebbero gli “zombie” del pci (li chiamava così il Presidente Francesco Cossiga).
Bersani chiede il cambiamento. Il suo leitmotiv è “cambiare si può”. 
Anche l’igiene pubblica lo richiederebbe, e non solo quella personale. 
Dopo tanto mescolare sui nomi, con i soliti personaggi gettati nella mischia, tutti rigorosamente giustizialisti e tutti ben contraddistinti per i modi sbrigativi con cui si adatterebbero a rimuovere l’ingombro scomodo di una parte politica, emerge anche una candidatura Prodi. 
Guarda, guarda che gran bel cambiamento! 
L’idea è che possa essere una prepotenza, cioè una provocazione buttata là perché arrivi il messaggio che al peggio non c’è limite. Un modo per dire che è meglio accontentarsi di arbitri di parte, anziché di arbitri venduti, che è come dire: se non è zuppa è pan bagnato. Si vorrebbe forzare la mano. 
Ci provano con le intimidazioni, ma non bisogna cedere alle provocazioni. Il no di Berlusconi su Prodi al Quirinale è così più che motivato. 
Prodi non è al di sopra delle parti e porta con se rancori personali, legati a episodi politici italiani. Non è l’uomo adatto a rappresentare con distacco e serenità l’unità Nazionale e il ruolo di garanzia previsto dalla Costituzione. Proporlo appare un’indecente provocazione.
Vendola, ridimensionato nelle elezioni del 24 e 25 febbraio, defilatosi dal precario Parlamento per restare attaccato alla poltrona di Governatore della Puglia, ora nel ruolo di spavaldo alfiere del PD e di testa d’ariete di Bersani, giudica "intollerabile l'esclusione di Prodi dai nomi in corsa per il Quirinale". 
Nessuna meraviglia. Le parole apodittiche di Vendola sono piuttosto la conferma, ove mai servisse, dello strano concetto di cambiamento che anima la sinistra italiana. 
Il cambiamento consisterebbe nell’imporre con il 30% dei voti il controllo sistematico di tutto, come già avviene nella Puglia di Vendola. Lo chiamano cambiamento ma, come si è già visto nei quattro lati del mondo, è dogma, è dittatura, è arroganza. 
Si è detto tanto di Prodi in Italia. La stampa per anni si è divisa nell’illustrarne il bene ed il male. I suoi governi sono stati definiti a trazione fiscale. I suoi conti “pubblici” si sono rivelati manipolati e discutibili, tra poste nascoste e giochetti contabili. Anche il suo ruolo di Presidente della Commissione Europea, tra scandali e spese fuori controllo, ha destato molte perplessità e non pochi dubbi. 
La protervia di Prodi si è dimostrata pari alla sua incapacità di unire. Anche il suo passato di boiardo di Stato grida ancora vendetta: non può, infatti, essere cancellato con un tratto di penna il saccheggio sistematico dei beni pubblici. Le difficoltà di oggi dell’Italia sono anche le conseguenze di quei saccheggi. A conti fatti, però, nessuno dei protagonisti ha pagato, neanche politicamente. La stagione di “mani pulite” appare ancora densa di ombre. E’ arrivata in modo affrettato - ora o mai più - rilasciando la sensazione che si volesse solo imprimere una svolta politica all’Italia. C’era fretta in un momento in cui il mondo intero cambiava. 
C’è chi ricorda Prodi per la seduta spiritica nel mezzo del rapimento di Aldo Moro e chi strattonato dai magistrati di mani pulite. Per togliersi Di Pietro di dosso, Prodi si rivolse a Oscar Luigi Scalfaro, il peggiore dei presidenti dell’Italia repubblicana. 
Sono note le sue amicizie con la finanza “coraggiosa”, note le sue contraddizioni e altrettanto noti i modi che gli hanno valso gli appellativi di “mortadella” e di “Pinocchio”.
Romano Prodi ha, inoltre, difetti di chiarezza e di comunicazione. 
La sua candidatura a Capo dello Stato avrebbe il sapore di un brutto passato, non del cambiamento. Sarebbe una provocazione e costituirebbe un pericolo autoritario. 
Gli italiani, invece, invocano la coesione nazionale ed il recupero del senso dello Stato. Sono stanchi degli eccessi della contrapposizione politica. 
Servirebbe un Presidente della Repubblica che fosse davvero al di sopra delle parti. 
Vito Schepisi