31 marzo 2010

Dalla Puglia la richiesta di un nuovo Pdl



Le dimissioni di Fitto da ministro non hanno alcun senso, ora. L’errore è stato nel pensare che l’ex coordinatore del Pdl in Puglia potesse imporre il suo candidato, a dispetto degli elettori e per suo calcolo di opportunità. Non è in discussione la persona, squisita, preparata e capace, del candidato Rocco Palese, ma il metodo con cui si è arrivati alla sua indicazione. Alla luce dei fatti, risultano fondate le preoccupazioni, manifestate per tempo dal Presidente Berlusconi, quando chiedeva, per la candidatura alla Presidenza della Regione Puglia, una soluzione forte e tale da poter recuperare l’unità degli elettori pugliesi di centrodestra. Ma, per ben individuate responsabilità, non è stato così.
Non hanno alcun senso ora le dimissioni. La responsabilità di ciò che è successo non è soltanto di chi ha ritenuto di fare a modo suo, e per proprio interesse ed opportunità, ma è anche del sistema organizzativo del Pdl che l’ha consentito. Si abbia ora il coraggio e la forza di cambiare metodi e strumenti.
Non è in discussione la scelta, legittima, del Pdl e del centrodestra pugliese nell’opporsi alla candidatura della Poli Bortone. Se si contesta il ruolo di “tenore” di Fitto, si deve poter contestare anche quello di “soprano” della signora della destra pugliese. Nessuna fiducia era, infatti, possibile rimettere nelle mani di colei che, per una mancata nomina nella compagine ministeriale, da circa due anni alimentava un rancore contro l’area politica che l’aveva portata in Parlamento, ed in cui ancora dice di riconoscersi.
Se non è pensabile l’applicazione in politica del principio che la somma faccia sempre il risultato e se non deve, altresì, ritenersi possibile il ricorso alla libera uscita ed al dispetto come forma di ritorsione, non deve neanche ritenersi possibile pensare che il confronto, le diversità, i contrasti personali vengano regolati da una sola persona, e che questi stabilisca da solo le scelte di tutto il Pdl pugliese.
Su questo il centrodestra, non solo della Puglia, dovrebbe prendere esempio dalla scuola consolidata della sinistra che, invece, pur tra mille contraddizioni, spesso oltremodo divisa, a volte inscenando finzioni, riesce sempre a compattarsi, come è appunto capitato in Puglia con Vendola.
Nel tacco d’Italia è venuta a mancare una vera partecipazione complessiva alle decisioni dei responsabili del Pdl, sia a livello locale che nazionale. La responsabilità è nell’aver consentito ad un solo uomo di fare la sua scelta, benché controversa. E’ sembrato un vero atto di forza, imposto senza un dibattito ragionato e senza un vero confronto sulla scelta che si stava facendo. Ancora più grave è apparso il modo di lasciare Il popolo del Pdl, quello al di fuori della vita di partito, dilaniarsi sulle possibili candidature che circolavano, per restare, alla fine, completamente tagliato fuori dalle decisioni prese da un solo uomo.
Il popolo del centrodestra si è diviso ed è persino entrato in conflitto, rincorrendo, in termini a volte esclusivi, le proprie diverse correnti di pensiero. Non è sembrato saggio deludere il sostegno spontaneo dei sostenitori dei diversi candidati proposti con un colpo di mano, pochi minuti prima della conoscenza del risultato, ampiamente previsto, alle primarie della sinistra, della candidatura di Vendola.
Una scelta di tempo affrettata e scomposta che ha consentito alla Poli Bortone ed a Casini di raggiungere con facilità il loro risultato personale e politico. La senatrice ex Pdl ha potuto così dimostrare ciò che asseriva, e cioè che senza la sua candidatura alla Presidenza il centrodestra sarebbe stato perdente. Il leader dell’UDC, invece, ha centrato l’obiettivo di impedire che la vittoria del Pdl, in questa tornata elettorale, potesse avere le caratteristiche di un trionfo della linea bipolare del Pdl e di Berlusconi. Per Casini si è trattato dello stesso gioco riuscito in Liguria e tentato in Piemonte.
Se non è pensabile, come si è detto, che la somma faccia sempre il risultato, è immaginabile, invece, che la divisone lo allontani. Per intelligenza politica, se si è veri leaders, occorre sempre prenderne atto.
L’intuito di poter coniugare, in una strategia complessiva, le indicazioni ideali con i sentimenti del popolo è fondamentale in politica. L’esempio di Berlusconi è una prova evidente di questa capacità. Occorre che ci sia sintonia e coerenza tra gli obiettivi ed il mezzo con cui si voglia raggiungerli. Ma, se questa intuizione va bene ove vi siano uomini capaci di interpretarla con intelligenza ed umiltà, va meno bene ove vi sia arroganza e presunzione.
Una regione come la Puglia che va dal Salento al Gargano, molto diversificata nelle specificità del territorio, così lunga e vasta da potersi pensare unita nelle indicazioni delle sue priorità politiche, non può pensarsi confinata in un conflitto di predominio personale tutto salentino. Il risultato è che il candidato del Pdl Rocco Palese ha subito la sua sconfitta andando sotto non solo a Bari e provincia, ed in modo massiccio (meno 10,6% rispetto a Vendola), ma anche a Lecce e provincia (meno 0,9%).
L’elettore si mostra intransigente sui conflitti personali, perché non li comprende e non gli interessano.
E’ arrivato il tempo di pensare, invece, a forme di maggiore partecipazione popolare per l’indicazione dei candidati da eleggere. Il ricorso alle primarie, fatte in modo vero e serio, con contendenti veri, potrebbe essere una soluzione. Non si può pensare che un partito pluralista e popolare possa dipendere dagli umori di un solo uomo: non è serio, né condivisibile e, come nel caso pugliese, c’è il rischio che si mostri perdente.
Vito Schepisi

23 marzo 2010

Voto utile in Puglia




Non è mai superfluo ricordare anche ciò che, più che le parole e le trame, stabilisce un semplice calcolo coi numeri. Mi riferisco al voto utile che può apparire uno slogan o una furbata elettorale, ma che è invece fondamentale per le scelte che può determinare per i prossimi 5 anni nelle amministrazioni regionali.
Il voto utile potrà produrre il suo effetto anche sul clima politico nazionale, soprattutto se c’è chi nella politica e nella magistratura, o viceversa, prova ad avvelenare i pozzi ed a giocare allo sfascio.
Se ad esempio ci sono due coalizioni, ciascuna con un presunto serbatoio elettorale vicino, più o meno, al 45% dei voti, e poi c’è un’altra coalizione che si sa già perdente, accreditata di circa il 10% dei voti da raccogliere nell’area moderata e di centrodestra, appare evidente che quest’ultima sia sorta non per competere, ma per sottrarre consensi al candidato più forte dell’area moderata e di centrodestra. Diventa persino fondato il sospetto che sia sorta per provare a regalare la vittoria al candidato della sinistra che, ad esempio nella Puglia, è anche orgogliosamente neo comunista. Questa candidatura in Puglia sembra che abbia il solo scopo di tradire il sentimento dei suoi elettori. Non è né leale, né bello! Non lo è soprattutto quando ci si appella ai valori di moderazione, alle ragioni del rilancio del mezzogiorno e si condanna anche la politica clientelare, immorale e fallimentare dell’amministrazione uscente.
Perché questa finzione? C’è chi parla di tradimento e di furbizia, chi di accordi sotto banco, chi di trasformismo, mentre altri sostengono che ci siano capricci, interessi, rancori e ripicche. Ma ai pugliesi cosa interessa di fatti e strategie di piccoli personaggi che si sbracciano come tanti avventurieri della politica? Ai pugliesi, ad esempio, cosa interessano tanti casini? Cosa di rancorose e superbe prime donne, ormai decotte come polli al limone?
C’è ancora chi va sostenendo, ad esempio, che le regionali siano, come per le comunali, a doppio turno e che al ballottaggio basterà far confluire i voti sul candidato di centrodestra, ad esempio in Puglia su Rocco Palese, ed il pericolo della riconferma di Vendola viene così scongiurato. Ma non è vero! Non è così!
Le elezioni regionali sono a turno unico. Vince chi prende più voti come candidato presidente. Ogni voto sottratto, ad esempio sempre in Puglia, al candidato di centrodestra, si trasforma in un vantaggio per il governatore con l’orecchino. Il meccanismo elettorale è complesso, ma assicura al presidente eletto una maggioranza sicura, sufficiente per governare la regione solo vincendo la corsa per la Presidenza.
I voti alla Poli Bortone, pertanto, non serviranno a niente, se non a sottrarre consensi a Rocco Palese ed a favorire, invece, il governatore che ha gestito una Regione con metodi discutibili, perversi, dispersivi, dispendiosi e clientelari. Favoriranno il poeta del nulla, il filosofo della filastrocca, che ha disatteso le promesse elettorali (abolizione dei ticket sanitari e salario ai giovani ed eliminazione delle liste d’attesa nella sanità) con cui aveva acquisito popolarità e voti nel 2005.
I voti dati alla ex passionaria della destra pugliese rischiano paradossalmente di favorire l’espressione della sinistra più spinta. Ogni voto dato alla Poli Bortone favorirà, invece, l’arrogante, ma distratto, presidente uscente pugliese che ha consentito una gestione immorale della macchina regionale e che ci lascia una sanità sommersa dai debiti (3,6 miliardi tra debiti della Regione e debiti delle Asl). Una sanità che eroga prestazioni in condizioni di mortificante degrado delle strutture e di grande disagio per i pazienti. Tutto in stridente e beffardo contrasto con la vita piena di lussi, donnine, lustrini, droga, viaggi,vacanze, cafonate e festini di amministratori e affaristi che hanno ruotato attorno ed alle spalle della sanità pugliese.
In Puglia la partita doveva essere diversa. In Puglia, sin dallo scorso anno, era stato messo su un laboratorio politico su cui stava lavorando l’alchimista Massimo D’Alema, leader d’adozione pugliese. L’attuale presidente del Copasir aveva preparato la sua rete di luogotenenti (tutti poi inquisiti) ed anche “previsto” il terremoto politico-giudiziario con cui meditava di far crollare la popolarità ed il prestigio del Presidente Berlusconi.
Dalla Puglia doveva partire la “scossa” preannunciata in tv nella “mezz’ora”di trasmissione amica con la Lucia Annunziata. Le trame dalemiane dovevano ridurre allo stremo la popolarità ed il consenso elettorale di Berlusconi e dovevano, nella strategia di “baffino”, preparare la sconfitta del centrodestra proprio alle regionali del 29 e 30 marzo. A questo gioco si prestava Pier Ferdinando Casini, alla ricerca di una nuova strategia politica che scompaginasse il bipolarismo e riproponesse la vecchia partitocrazia. A questo gioco in Puglia si è prestata la senatrice Adriana Poli Bortone, eletta nelle fila del Pdl e trasmigrata nel gruppo dell’Udc, dopo che per un ministero in quota AN le era stata preferita l’on. Giorgia Meloni.
Il laboratorio pugliese di D’Alema, però, è venuto meno. E’ prevalsa l’ostinazione di Vendola nel riproporre la sua riconferma. L’uomo della “poesia nei fatti” ci aveva lavorato per 5 anni, rafforzando, come rilevato dalla magistratura, la presenza sua e dei suoi uomini, attraverso la formazione di cupole di gestione politica del territorio. Il metodo della politicizzazione delle nomine, dei finanziamenti clientelari, degli interventi mirati, dei convegni delle chiacchiere, delle assunzioni selettive, delle consulenze agli amici e compagni ha travolto la scala dei bisogni e quella del buon senso, trasformano la poesia in un prosaico mercato.
I pugliesi ora chiedono di essere liberati. Sanno che possono farcela, ma temono solo due cose: l’astensione della popolazione stanca di sopportare ed il voto inutile.
Necessita un moto di orgoglio, una scossa di fiducia, un atto di coraggio e soprattutto un voto utile.
Vito Schepisi

17 marzo 2010

Il disagio e la libertà



Sono in grande disagio. Non so se posso telefonare, se posso scrivere, se posso parlare con qualcuno. Vorrei farlo per sfogarmi, per poter dire ciò che un qualsiasi cittadino sereno, libero, rispettoso, amante della democrazia direbbe in questo momento. Vorrei poter esprimere in modo composto, ma con forza e indignazione, tutto ciò che mi passa per il cervello. In un Paese libero tutto questo dovrebbe essere consentito, anzi dovrebbe essere garantito, soprattutto quando lo si fa in modo civile.
Mi chiedo, pertanto, se in Italia ci possa essere qualche potere che abbia la facoltà di limitare questa libertà. Più che una domanda, però, la mia è la conferma di un dubbio che mi assale da tempo. Il quesito è divenuto dubbio perché, con la modifica, sulla scia di un disagio politico, intervenuta nel 1993 all’art 68 della Costituzione e con l’interpretazione estensiva dei ruoli assunti dalla magistratura e dal suo organo di autogoverno, su questa domanda, trasformatasi in ragionevole dubbio, ruota tutta la kermesse dell’inganno.
Chiediamoci, dapprima, che cosa sia la libertà. E, per non divagare, limitiamoci, in uno sforzo di sintesi, alla definizione costituzionale. La libertà di un Paese, in primo luogo, consiste nella libertà dei cittadini di potersi esprimere, e non solo in modo formale, come con la libertà di comunicare, con la libertà di parola, con la libertà di scrivere, ma anche in modo sostanziale attraverso le scelte. Tra quest’ultime la più importante è quella elettorale. Tutti i cittadini italiani, tranne i pochi condannati alla interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, hanno diritto di esprimersi col voto e sono eleggibili.
Per l’articolo 13 della Costituzione, inoltre, “la libertà personale è inviolabile”. L’ipotesi contraria è consentita solo “per atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Mentre per l’art.15 della Carta Costituzionale anche “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. L’ipotesi contraria “può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria”.
Solo l’autorità giudiziaria, pertanto, può limitare la nostra libertà. Tutto sarebbe, così, lecito, anche se non abbiamo ancora dissipato i molti dubbi nel merito. Ma ciò che la Costituzione sancisce serve senz’altro ad affermare che l’unico ordinamento che abbia il potere di limitare le libertà nel paese è quello giudiziario. E, siccome in Italia non mi sembra che ci sia stato un colpo di stato e che, per effetto di questo “golpe”, i poteri, compresi quelli giurisdizionali, siano stati assunti dal Capo del Governo, l’unico pericolo per la nostra libertà, e penso anche per la nostra democrazia, può arrivare solo dalla politicizzazione della magistratura.
Nel merito, infatti, ci sarebbe da chiedersi se la magistratura esercita correttamente i suoi poteri. Se lo facessimo, però, entreremmo in un’area che in questi giorni si manifesta molto pericolosa: quella del dubbio circa la correttezza nell’esercizio del mestiere di alcuni magistrati. Ma se entrassi in quest’area siamo certi che ne uscirei indenne? Non ho soldi da dare alla casta! Ecco dunque i motivi, accennati in apertura, del mio “grande disagio”. Un disagio come cittadino, come soggetto pensante e come comunicatore.
Non credo che chi ha scritto la Costituzione Italiana, scegliendo la separazione dei poteri, abbia proprio voluto attribuire ad un ordinamento burocratico, privo della legittimità democratica, il potere di intervenire significativamente sulla libertà del Paese.
Non penso che i Padri Costituenti abbiano voluto attribuire all’Ordinamento Giurisdizionale il primato del rispetto delle regole della democrazia ed il controllo del suo ordinato esercizio.
Non penso, ancora, che ci si debba arrivare a sentirsi a disagio nell’esprimersi in privato, nell’esternare il proprio disappunto, nell’assumere la difesa della propria dignità personale, nell’osservare d’essere vittima di una puntuale e metodica aggressione mediatica, com’è capitato al Presidente del Consiglio Berlusconi, e d’essere per questo sottoposto ad indagini giudiziarie.
Dicono, ad esempio, che il premier manovri l’informazione, che abbia un controllo mediatico quasi totalitario, che intimidisca e che eserciti un potere incontrollato. I più analfabeti, soprattutto per ignoranza della Costituzione Italiana, dicono anche che sia un dittatore. Ma se è così, perché c’è un’informazione invadente che riempie le pagine dei giornali e le tante trasmissioni televisive Rai contro il premier?
Non è che in Italia ci sia una parte che può dire, e l’altra che debba tacere? Ed il mio disagio riviene proprio dalla consapevolezza che possa trovarmi dalla parte di chi debba essere indotto a tacere.
Vito Schepisi

12 marzo 2010

Il sindacato zerbino della sinistra


Anche questa volta sarà solo una questione di cifre e di tanta retorica. Di tante parole sprecate. E’ l’usuale balletto che si anima nelle cronache di tutte le manifestazioni e di tutti gli scioperi a destra e, soprattutto, a sinistra. È come se, al di là dei contenuti della protesta, assumano valore i numeri delle persone che, con tutti i mezzi, si riesce a far convergere nelle piazze, ovvero il conteggio di quelli che si riesce a non far andare al lavoro. Ma i numeri delle persone, se non proprio importanti, nell’ordine di milioni, sono sempre una parte minore del Paese, dei lavoratori o degli studenti.
Uno sciopero, ovvero una manifestazione, ha valore se passa attraverso il sentimento del Paese, se è sentito come qualcosa di importante e di fondamentale. Ma non ha niente, invece, di importante uno sciopero indetto da una sola sigla sindacale, ben politicamente schierata, abituata a dire sempre di no ad ogni proposta, ma a tacitarsi quando i suoi compagni governano il Paese.
Uno sciopero generale dovrebbe essere il ricorso estremo contro un potere sordo ed arrogante. Fallite le trattative, disattesi i diritti, passati i confini della ragionevolezza, dinanzi ad un potere arrogante, irrazionale e repressivo, si passa allo sciopero come forma di pressione e testimonianza di disagio e di malessere.
Lo sciopero generale può essere utilizzato come strumento di pressione, di solidarietà e di conferma della reale volontà dei lavoratori. Nelle fasi acute dei rinnovi contrattuali, l’utilizzo del diritto di sciopero è quello più naturale e rispettoso dei ruoli che la stessa Costituzione assegna alla legittimità del diritto dei lavoratori di organizzarsi in associazioni sindacali e di farsi rappresentare in vertenze di lavoro e nelle attività contrattuali. Solo nelle democrazie liberali, però, i sindacati sono liberi ed indipendenti, ed è consentita loro l’agibilità delle attività sindacali nelle aziende.
Quando non serve a rivendicare un diritto, quando non c’è una materia del contendere tra il datore di lavoro ed i prestatori d’opera, lo sciopero è invece inutile e dannoso. E’ dannoso all’economia del Paese, è dannoso all’occupazione, è dannoso alle imprese, è dannoso alla democrazia, è dannoso agli stessi lavoratori.
Uno sciopero generale, senza il coinvolgimento delle responsabilità delle controparti, finisce con l’essere uno sciopero politico. Ed uno sciopero politico, se non in casi di grandi soprusi e di forme di autoritarismo e di violazione grave dei diritti generali delle persone, non avrebbe senso. Chi lo propone con la pretesa che si trasformi in un giudizio d’appello contro l’espressione politica del Paese, ovvero qualora si voglia che sia posto come un improprio giudizio di merito sul Governo, quasi un’alternativa allo stesso Parlamento, investito, invece, in forma esclusiva dalla sovranità popolare, mostra solo una grande arroganza.
Lo sciopero generale, perché possa avere valore di monito, se lo si volesse davvero come segnale di un momento di riflessione su questioni che coinvolgano situazioni di profondo malessere nel Paese, talmente gravi però da poterlo giustificare, dovrebbe trovare una convergenza ampissima delle parti sociali, la più ampia possibile. Non sembra, però, che sia così!
Lo sciopero generale di oggi è indetto dalla Cgil, dalla sola Cgil, mentre si dissociano e sono critiche le altre organizzazioni sindacali. Ma l’azione più velleitaria ed insensata di un sindacato è proprio quella di dividere i lavoratori. Anche se capita che la concorrenza sindacale si faccia serrata, a volte anche sleale, ma trovarsi separati agli appuntamenti, forzare i toni, esasperare le difficoltà, cercare la rottura, politicizzare le questioni, sono tutti modi sbagliati di interpretare il ruolo del sindacato. E’ senz’altro sbagliato fare i furbi e travalicare la sostanziale trasversalità degli interessi delle categorie rappresentate. La lotta è un momento di unione, in caso diverso è una velleità, è una pazzia, è inutile, è strumentale, è attività politica. E per far politica bastano già i partiti.
L’utilizzo delle manifestazioni di piazza come alternativa alla proposta politica è nello stile della sinistra. Ci si serve della piazza quando si voglia contrapporre il frastuono alla ragione, gli slogan al consenso, la strumentalizzazione alla democrazia. La stessa sinistra che, quando invece governa, sopisce la protesta e si attrezza a difendere persino i provvedimenti di macelleria sociale, come abbiamo visto con Prodi.
E’ spesso ipocrita, invece, quella la sinistra italiana che biasima le manifestazioni di protesta dei cittadini italiani contro la lesione dei diritti, spacciando per violento chi si accingerebbe, invece, a protestare contro le aggressioni dei pezzi dello Stato che si contrappongono alla legittimità della volontà popolare.
La sinistra che oggi sciopera contro il Paese è la stessa che indica come autoritaria la manifestazione indetta per protestare contro coloro che falsificano l’esito delle elezioni e ledono il diritto democratico del voto. Sarebbe così antidemocratica e golpista la protesta contro quella burocrazia politicizzata che interpreta leggi e forme a proprio uso e consumo e che si presta a sostituirsi al corpo elettorale per modificare, attraverso l’esercizio spesso invadente e persecutorio dell’ordinamento giurisdizionale, la volontà politica del Paese.
Quante centinaia di migliaia di italiani, lavoratori e studenti saranno conteggiati da Epifani come partecipanti alla protesta contro il governo? Ma quanti di questi conoscono e condividono le ragioni per cui è stato loro chiesto di scioperare e manifestare?
Lo sciopero di Epifani e della Cgil è per la riduzione della pressione fiscale. La stessa pressione fiscale che al momento del giro di vite di Prodi (l’attuale situazione è quella ereditata 2 anni fa) ha trovato la Cgil indifferente e silente. La stessa pressione fiscale che dopo una crisi devastante nel mondo, tenuta sotto controllo in Italia, ma non senza ferite ancora aperte, non è possibile ridurre senza tagli alla spesa, o senza trovare fonti alternative di entrata. Epifani, al contrario di altri sindacalisti italiani, mostra di ignorare persino l’impiego di ingenti risorse finanziarie utilizzate per supportare i meno fortunati che hanno perso, e rischiano ancora di perdere, il loro posto di lavoro.
Il leader della Cgil sa bene che la spesa corrente del Paese nel 2009 ha superato le entrate correnti, ma si oppone ai tagli, si oppone ai ricavi di efficienza della pubblica amministrazione, si è opposto allo scudo fiscale che è servito a far rientrare nelle disponibilità degli investimenti in Italia ben 100 miliardi di Euro, ma chiede invece di ridurre la pressione fiscale. Il gettito fiscale in Italia nel 2009, per effetto della crisi, ha registrato un calo di entrate di circa 12 miliardi di euro. Pensare di ridurlo senza copertura sarebbe delittuoso.
La protesta, pertanto, senza una proposta alternativa è sterile, ma Epifani ed il suo sindacato non indicano dove reperire le risorse, se non con il solito recupero dell’evasione fiscale, verso cui questo governo, più di altri, ha concentrato i suoi sforzi con ottimi risultati, oppure colpendo i settori del risparmio e della produzione, già in difficoltà: settori in cui, con l’aumento della pressione fiscale, i benefici sarebbero di gran lunga inferiori ai pericoli di compromettere la ripresa, gli investimenti, e gli stessi livelli occupazionali.
Uno sciopero generale con ancora in corso la coda di una crisi che sta mettendo a dura prova la tenuta produttiva ed occupazionale del Paese è una follia, ma ancora di più un tradimento ai lavoratori.
Vito Schepisi

03 marzo 2010

L'apologia del fallito



L’Italia è sempre il Paese in cui c’è chi si lamenta per la siccità, quando non piove, mentre invece c’è chi si lamenta per le calamità atmosferiche, quando piove. Niente va mai troppo bene. Sempre, invece, si dice che comunque vada male, anche quando ci sarebbero ragioni per pensare che invece possa andar bene. Non c’è meraviglia che regga. Neanche quando, ad esempio, si sente parlare di grande successo per un fallimento o viceversa di fallimento per un grande successo.
Sarebbe grandissimo, il nostro, come Paese, se non fosse per l’eccessiva presenza di gente che, nonostante più di un fallimento, si mostri sin troppo capace, tanto dal risultar d’essere solo un po’ troppo furba, e qualche volta anche un po’ eccessivamente truffaldina e bugiarda.
In questa abitudine dei molti acrobati delle parole, di coloro che usano il dire in stridente contraddizione col fare, e di quelli che fanno a meno anche dal dire il vero, ed abitudinariamente si esimano anche dal fare, si finisce col perdere persino la bussola. In politica, ad esempio, non si capisce chi o dove o il quando delle cose, delle persone, dei partiti, né chi sia responsabile e di cosa, o perché. Nella confusione non si capisce mai la dimensione reale dei fatti. Si capisce solo che l’arte della parola, usata dai fantasiosi professionisti del niente, camuffa la realtà e stravolge la storia. E’ come quando si spacciano per pietre preziose i fondi delle bottiglie o per oro colato il vile metallo.
La partita si gioca più sul metodo del far apparire, sui colpi di scena, sui colpi di teatro. E’ come una fiction, come un film, come un festival. Sculettano e si mostrano le soubrettes scollacciate, come nelle passerelle delle sfilate. Ci provano a vendere nuvole di fumo ed usano le istituzioni per il loro consumo. Richiamano il popolo alla guerra santa, demonizzano l’avversario, finiscono col mettere in pratica gli unici strumenti che hanno imparato bene ad usare: la chiacchiera, l’illusione, la calunnia ed il falso. Come è successo con Prodi al Governo, dal 2006 al 2008, quando si faceva passare per grande successo politico ciò che era una macelleria sociale e per risanamento dei conti l’aumento della pressione fiscale.
Il fallito è colui che attribuisce sempre ad altri le sue responsabilità. In politica il fallito parla sempre di battaglie vinte, mentre tutt’intorno la popolazione si lecca le ferite. Si spaccia così per vittoria anche lo spreco del danaro pubblico, in nome di un dichiarato impegno sociale, come è capitato a chi di recente ha pensato che il sociale dovesse consistere nell’anticipare di qualche mese l’esodo per la pensione a pochi lavoratori garantiti, a danno delle giovani generazioni, ovvero nel proteggere oltre il dovuto lo spreco di chi percepisce un salario pubblico, senza profondere impegno e, a volte, senza neanche l’impegno di recarsi al lavoro.
E’ un fallito Vendola in Puglia. Lo dicono i numeri e le cronache degli ultimi tempi. Lo dice chi ha il buon senso di andare oltre le illusioni ed i richiami ideologici e fa un bilancio degli ultimi 5 anni. Resta un fallito a prescindere dalla cronaca giudiziaria e dalle responsabilità politiche di una gestione moralmente raccapricciante. Le cupole affaristiche e di controllo politico del territorio, finalizzate al rafforzamento elettorale, le pratiche clientelari, i ricatti sessuali, le infiltrazioni malavitose, i festini, il denaro pubblico sprecato nelle forniture sanitarie, costituiscono solo la cornice del quadro fallimentare di una complessiva gestione. Vendola resta un fallito ben oltre le ragioni del soffermarsi sullo squallido uso fatto della Istituzione pugliese.
I partiti della sinistra, PD in testa, che oggi sostengono il Governatore pugliese uscente, fino a qualche settimana fa, volevano, invece, metterlo da parte. La sinistra voleva girar pagina, chiedeva l’accantonamento dei responsabili della passata gestione ritenendoli impresentabili. Anche se correo nel fallimento, il PD si preoccupava solo di correggere l’immagine fallimentare vigorosamente emersa. Ora con la classica doppiezza di sempre rimescola le carte. Ma, se non per il suo fallimento, perché allora il PD si ostinava a chiedere la discontinuità con la precedente gestione? Perché la base si è spaccata ed il partito si è accapigliato al suo interno? Perché il caso Puglia, per mesi, ha rappresentato un fatto politico di interesse nazionale sui più grandi quotidiani nazionali? Perché il PD si è trovato a dover scuotere le ambizioni e le responsabilità del sindaco di Bari Emiliano? Perché questi chiedeva una legge regionale a suo uso e consumo per farsi eleggere Presidente della Regione Puglia e restare Sindaco di Bari? Perché il PD ha dovuto accettare le primarie in Puglia, sacrificando l’immagine di Francesco Boccia, se non per recuperare le ragioni di una politica dall’apparenza più composta, più orientata alle soluzioni e più moderata?
L’ostinazione di Vendola a volersi ricandidare ad ogni costo era fondata invece solo sulla sua certezza di aver lavorato bene nella Regione, ma il suo è stato solo un buon lavoro di consolidamento elettorale per la sua riconferma. Niente di più! Una grande rete capillare finalizzata al consenso personale. La sua emarginazione, per mano dei compagni di cordata, avrebbe invece esaltato il suo fallimento politico, con grave pregiudizio anche delle sue ambizioni nazionali. Vendola è un fallito che sa bene di esserlo, come bene lo sanno i suoi alleati che si sperticano oggi nell’apologia del fallito.
Le ragioni stanno nei fatti, come sostiene il suo avversario del Pdl Rocco Palese: “Una Regione che sintetizza il peggio delle regioni guidate dal centrosinistra”. Ed i fatti sono: un miliardo di debiti nella sanità; aumento di Irap, Irpef e benzina per i pugliesi; il 63% dei Fas 2000-2006 non spesi; 500 milioni di risorse nazionali ed europee non spese; 2 miliardi in cassa non utilizzati (e ciò nonostante la crisi e le difficoltà delle piccole e medie imprese che si ripercuotono sui livelli occupazionali); i giovani costretti ad emigrare; promesse sui salari sociali fatte ai giovani nel 2005 non mantenute; uno stato comatoso del territorio. Insomma, un fallimento!
Vito Schepisi