12 marzo 2010

Il sindacato zerbino della sinistra


Anche questa volta sarà solo una questione di cifre e di tanta retorica. Di tante parole sprecate. E’ l’usuale balletto che si anima nelle cronache di tutte le manifestazioni e di tutti gli scioperi a destra e, soprattutto, a sinistra. È come se, al di là dei contenuti della protesta, assumano valore i numeri delle persone che, con tutti i mezzi, si riesce a far convergere nelle piazze, ovvero il conteggio di quelli che si riesce a non far andare al lavoro. Ma i numeri delle persone, se non proprio importanti, nell’ordine di milioni, sono sempre una parte minore del Paese, dei lavoratori o degli studenti.
Uno sciopero, ovvero una manifestazione, ha valore se passa attraverso il sentimento del Paese, se è sentito come qualcosa di importante e di fondamentale. Ma non ha niente, invece, di importante uno sciopero indetto da una sola sigla sindacale, ben politicamente schierata, abituata a dire sempre di no ad ogni proposta, ma a tacitarsi quando i suoi compagni governano il Paese.
Uno sciopero generale dovrebbe essere il ricorso estremo contro un potere sordo ed arrogante. Fallite le trattative, disattesi i diritti, passati i confini della ragionevolezza, dinanzi ad un potere arrogante, irrazionale e repressivo, si passa allo sciopero come forma di pressione e testimonianza di disagio e di malessere.
Lo sciopero generale può essere utilizzato come strumento di pressione, di solidarietà e di conferma della reale volontà dei lavoratori. Nelle fasi acute dei rinnovi contrattuali, l’utilizzo del diritto di sciopero è quello più naturale e rispettoso dei ruoli che la stessa Costituzione assegna alla legittimità del diritto dei lavoratori di organizzarsi in associazioni sindacali e di farsi rappresentare in vertenze di lavoro e nelle attività contrattuali. Solo nelle democrazie liberali, però, i sindacati sono liberi ed indipendenti, ed è consentita loro l’agibilità delle attività sindacali nelle aziende.
Quando non serve a rivendicare un diritto, quando non c’è una materia del contendere tra il datore di lavoro ed i prestatori d’opera, lo sciopero è invece inutile e dannoso. E’ dannoso all’economia del Paese, è dannoso all’occupazione, è dannoso alle imprese, è dannoso alla democrazia, è dannoso agli stessi lavoratori.
Uno sciopero generale, senza il coinvolgimento delle responsabilità delle controparti, finisce con l’essere uno sciopero politico. Ed uno sciopero politico, se non in casi di grandi soprusi e di forme di autoritarismo e di violazione grave dei diritti generali delle persone, non avrebbe senso. Chi lo propone con la pretesa che si trasformi in un giudizio d’appello contro l’espressione politica del Paese, ovvero qualora si voglia che sia posto come un improprio giudizio di merito sul Governo, quasi un’alternativa allo stesso Parlamento, investito, invece, in forma esclusiva dalla sovranità popolare, mostra solo una grande arroganza.
Lo sciopero generale, perché possa avere valore di monito, se lo si volesse davvero come segnale di un momento di riflessione su questioni che coinvolgano situazioni di profondo malessere nel Paese, talmente gravi però da poterlo giustificare, dovrebbe trovare una convergenza ampissima delle parti sociali, la più ampia possibile. Non sembra, però, che sia così!
Lo sciopero generale di oggi è indetto dalla Cgil, dalla sola Cgil, mentre si dissociano e sono critiche le altre organizzazioni sindacali. Ma l’azione più velleitaria ed insensata di un sindacato è proprio quella di dividere i lavoratori. Anche se capita che la concorrenza sindacale si faccia serrata, a volte anche sleale, ma trovarsi separati agli appuntamenti, forzare i toni, esasperare le difficoltà, cercare la rottura, politicizzare le questioni, sono tutti modi sbagliati di interpretare il ruolo del sindacato. E’ senz’altro sbagliato fare i furbi e travalicare la sostanziale trasversalità degli interessi delle categorie rappresentate. La lotta è un momento di unione, in caso diverso è una velleità, è una pazzia, è inutile, è strumentale, è attività politica. E per far politica bastano già i partiti.
L’utilizzo delle manifestazioni di piazza come alternativa alla proposta politica è nello stile della sinistra. Ci si serve della piazza quando si voglia contrapporre il frastuono alla ragione, gli slogan al consenso, la strumentalizzazione alla democrazia. La stessa sinistra che, quando invece governa, sopisce la protesta e si attrezza a difendere persino i provvedimenti di macelleria sociale, come abbiamo visto con Prodi.
E’ spesso ipocrita, invece, quella la sinistra italiana che biasima le manifestazioni di protesta dei cittadini italiani contro la lesione dei diritti, spacciando per violento chi si accingerebbe, invece, a protestare contro le aggressioni dei pezzi dello Stato che si contrappongono alla legittimità della volontà popolare.
La sinistra che oggi sciopera contro il Paese è la stessa che indica come autoritaria la manifestazione indetta per protestare contro coloro che falsificano l’esito delle elezioni e ledono il diritto democratico del voto. Sarebbe così antidemocratica e golpista la protesta contro quella burocrazia politicizzata che interpreta leggi e forme a proprio uso e consumo e che si presta a sostituirsi al corpo elettorale per modificare, attraverso l’esercizio spesso invadente e persecutorio dell’ordinamento giurisdizionale, la volontà politica del Paese.
Quante centinaia di migliaia di italiani, lavoratori e studenti saranno conteggiati da Epifani come partecipanti alla protesta contro il governo? Ma quanti di questi conoscono e condividono le ragioni per cui è stato loro chiesto di scioperare e manifestare?
Lo sciopero di Epifani e della Cgil è per la riduzione della pressione fiscale. La stessa pressione fiscale che al momento del giro di vite di Prodi (l’attuale situazione è quella ereditata 2 anni fa) ha trovato la Cgil indifferente e silente. La stessa pressione fiscale che dopo una crisi devastante nel mondo, tenuta sotto controllo in Italia, ma non senza ferite ancora aperte, non è possibile ridurre senza tagli alla spesa, o senza trovare fonti alternative di entrata. Epifani, al contrario di altri sindacalisti italiani, mostra di ignorare persino l’impiego di ingenti risorse finanziarie utilizzate per supportare i meno fortunati che hanno perso, e rischiano ancora di perdere, il loro posto di lavoro.
Il leader della Cgil sa bene che la spesa corrente del Paese nel 2009 ha superato le entrate correnti, ma si oppone ai tagli, si oppone ai ricavi di efficienza della pubblica amministrazione, si è opposto allo scudo fiscale che è servito a far rientrare nelle disponibilità degli investimenti in Italia ben 100 miliardi di Euro, ma chiede invece di ridurre la pressione fiscale. Il gettito fiscale in Italia nel 2009, per effetto della crisi, ha registrato un calo di entrate di circa 12 miliardi di euro. Pensare di ridurlo senza copertura sarebbe delittuoso.
La protesta, pertanto, senza una proposta alternativa è sterile, ma Epifani ed il suo sindacato non indicano dove reperire le risorse, se non con il solito recupero dell’evasione fiscale, verso cui questo governo, più di altri, ha concentrato i suoi sforzi con ottimi risultati, oppure colpendo i settori del risparmio e della produzione, già in difficoltà: settori in cui, con l’aumento della pressione fiscale, i benefici sarebbero di gran lunga inferiori ai pericoli di compromettere la ripresa, gli investimenti, e gli stessi livelli occupazionali.
Uno sciopero generale con ancora in corso la coda di una crisi che sta mettendo a dura prova la tenuta produttiva ed occupazionale del Paese è una follia, ma ancora di più un tradimento ai lavoratori.
Vito Schepisi

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