28 dicembre 2009

L'uso politico della giustizia


Se una parte consistente della magistratura, da oltre 15 anni, ha sotto tiro il capo del Governo o il capo dell’opposizione a seconda del ruolo svolto, e lo fa ricorrendo ad ogni espediente giudiziario, spesso rasentando i limiti della correttezza giuridica, vuol dire che in Italia c’è qualcosa che non funziona a dovere. E non è solo la magistratura!
Non è solo l’ordinamento giurisdizionale del Paese ad avere responsabilità se si trova ad esercitare un potere che, per le modifiche intervenute all’Impianto costituzionale, alimenta le sue facoltà di intervento-interdizione sull’esercizio legittimo del potere legislativo e di quello esecutivo.
E’ come l’inverso dell’esempio della bicicletta: se la si dà, non ci si può lamentare che la si usi pedalando. La magistratura ha voluto la bicicletta, e gli è stata data. Ora la usa e pedala. Resta da sapere se sia legittimo che la usi su tutti i percorsi, e se possa invadere spazi occupati da altri poteri. Se ci chiedessimo: la magistratura, e con essa il suo organo di autogoverno, è lo Stato o è solo una funzione dello Stato? La risposta l’avremmo nel testo stesso della Costituzione. Per la nostra Carta fondamentale, infatti, non ci sarebbero dubbi: lo Stato è espressione dalla volontà del popolo.
Una democrazia ha nella sua organizzazione politico-istituzionale gli anticorpi per impedire che le funzioni dello Stato si rivoltino contro le scelte del popolo. Ma se questi anticorpi non reggono più vuol dire che si sono indeboliti col tempo o che siano stati aggrediti dalla trasformazione genetica dei virus che, invadendo gli spazi della democrazia, ne hanno deformato le funzioni. Anche il vaccino, come per le malattie influenzali, va così modificato ed adeguato alle necessità perché sconfigga gli assalti e non metta a rischio la salute dell’intero Paese.
La politica ha così il dovere di difendere il suo primato di dispensatore di strumenti di democrazia, soprattutto se le difese sono state aggredite e se le forze di garanzia mostrano d’essere state invase dagli assalti virulenti di germi. L’inerzia della politica, alla lunga, finirebbero con indebolire le certezze dei cittadini, col rendere inutile persino l’esercizio del voto e col far prevalere la cultura dell’antipolitica, già purtroppo ampiamente diffusa.
Il primato della politica si difende in un solo modo, ed in due tempi. Il modo è solo quello ineludibile delle riforme. I due tempi sono relativi al rispetto delle regole della democrazia. Il primo è rappresentato dalla ricerca del dialogo e del pluralismo delle proposte, per ricercare le più ampie convergenze possibili. Il secondo, superato il confronto con l’opposizione e con le parti rappresentative della società, stabilisce l’immediato passaggio alle scelte attraverso l’attività del Parlamento. E’ così, e solo così, che prevale la sovranità popolare.
In nessun caso si deve, invece, lasciar spazio alla pressione dei media, a quella delle caste, delle corporazioni, ed alle spinte di quei poteri che pretendono di intervenire per stabilire le loro regole di gestione della cosa pubblica.
Le Istituzioni di un Paese sono come un mezzo meccanico dove ogni strumento ha la sua funzione. Non si può sottrarre una parte e pretendere che funzioni anche meglio, come in un’automobile non si può sottrarre un pistone e pretendere che la macchina cammini più spedita. E, come per un mezzo meccanico, anche le Istituzioni hanno bisogno di manutenzione. Come le auto, anch’esse subiscono nel tempo il peso dell’obsolescenza. Se si tolgono dalle auto pezzi di motore, questi vanno sostituiti, e se non regge più il suo uso, il motore va anche cambiato e le tecnologie vanno aggiornate.
Il motore dello Stato è La Costituzione ed il suo meccanismo ruota intorno ai tre poteri previsti. Ma come la camera di scoppio in un auto non può esercitare la funzione del cambio, nello Stato il potere giurisdizionale non può esercitare quello legislativo, né impedire che la macchina cammini, imbrigliando il potere esecutivo. La Giustizia non può esercitare il ruolo della politica.
Vito Schepisi

21 dicembre 2009

Le riforme


Da qualche anno, la parola magica della politica è “riforme”. E’ come per il Barbiere di Siviglia … tutti le vogliono, tutti le cercano … purché siano di qualità. E’ dal 1983, con la Commissione Bicamerale di Aldo Bozzi, che provano in Italia a farle queste benedette riforme costituzionali e legislative dello Stato. Fino ad ora è stato un inutile processo di ipocrisia politica, un tentativo reiterato e dispendioso, nebuloso, dispersivo e senza senso. Tutti, a parole, le riforme le vogliono, ma tutti purché non siano un qualcosa. E ciascuno fa un elenco di ciò che non devono essere. Nella perizia di fare elenchi di ciò che non devono essere, va sempre a finire che non lo sono affatto: cioè che non si facciano. Non devono servire a questo, non devono favorire quello, così stranamente sfugge la percezione di ciò che invece dovrebbero essere.
La verità è ben diversa. Appare un gioco ostruzionistico, una melina politica. Sembra, infatti, che sia come se ben si sapesse che le riforme servano a chi ha un modello sociale da proporre, ma che, allo stesso tempo, sia anche consapevole di non avere nell’area di riferimento una larga coesione su una strategia politica, costruita questa su un nuovo modello di società da rilanciare. Va a finire che ci si preoccupi solo che non siano altri a prendere l’iniziativa, ed in questo caso a stroncarla.
Sembra la politica degli interessi conservatori degli strati più retrivi e corporativi del Paese. Uomini che spacciano la distruzione dei valori tradizionali di un popolo per nuovo progresso. Soggetti che fomentano lo scontro etico ed i dubbi sui valori della nostra civiltà e che si attrezzano a porre steccati di incomprensione, per trascinare alla reazione contro uno sviluppo ordinato del Paese. Una classe conservatrice e reazionaria dove il dividere serve per imprimere una precisa ragione di casta e di controllo. Parrucconi e sepolcri imbiancati che si nascondono dietro le contrapposizioni pregiudiziali, che fomentano odio, che diffondono le parole d’ordine del disfattismo, per nascondere i successi, come è capitato nel periodo più nero dei mercati mondiali dal 1929, quando si è usato anche il gossip per celare i successi del Paese. E’ emersa persino la volontà di infangare l’Italia. Un rancore che sembra il frutto non solo dell’invidia, ma del calcolo. C’è una commistione tra poteri e partiti preoccupata ad impedire che l’azione dell’esecutivo riesca efficacemente ad incidere, perché ciò li metterebbe definitivamente fuori gioco per “impotentia generandi”o addirittura “coeundi”.
Non si capisce, però, come si faccia a fare le riforme senza cambiare qualcosa. Tutti le vorrebbero purché non favoriscano qualcuno. Ma le riforme in democrazia favoriscono tutti. Bisognerebbe che sia ben chiaro ai competitori della politica che prima di essere premier, in democrazia, si compete per esserlo. Se volessimo trovare una riforma democratica che impedisca per legge che il governo del Paese sia presieduto da chi vince le elezioni, bisognerebbe rivolgersi ad un altro sistema. Di Pietro ed i suoi modi, pertanto, non sono un esempio di democrazia, ma di reazione squadrista. Il neo fascismo violento è reazione. E tra le riforme non rientra.
Bisogna aumentare i poteri dell’esecutivo, ma senza con questo favorire Berlusconi. Bisogna riequilibrare i poteri costituzionali ma senza favorire Berlusconi. Bisogna riformare la Giustizia ma senza favorire Berlusconi. Bisogna riformare la funzione del Parlamento ma senza favorire Berlusconi. In questo modo, però, non si può che vedere una vita dura per le riforme. In definitiva alcuni, forse troppi, vorrebbero solo mettere in un angolo Berlusconi, non fare le riforme.
La verità è che in Italia ci sono larghi strati di burocrati e di detentori di poteri di casta che le riforme invece non le vogliono affatto e che si servono dei politici compiacenti per affossare ogni tentativo. E lo fanno ponendosi strumentalmente sempre dietro l’ipotetico paravento del “cui prodest?” Naturalmente tutti dicono che sia sempre e solo Berlusconi.
Vito Schepisi

17 dicembre 2009

Regime giudiziario



Saranno trascorsi 18 anni il prossimo febbraio da quando la Procura di Milano arrestò il “mariuolo” Mario Chiesa e dette il via alla stagione di Mani Pulite. Da quella data cambiarono le stagioni politiche del Paese. Era crollato tre anni prima il Muro di Berlino, il Pci aveva appena cambiato nome in Pds, e si collocava, con l’aiuto di Bettino Craxi, nella famiglia dei socialisti europei, dopo averli per anni considerati revisionisti e borghesi. Nelle politiche del 1992, con il 16,1% e facendo registrare un meno 10, 5% rispetto all’ultimo risultato del Pci, i post comunisti, avendo anche subito una scissione col Partito della Rifondazione Comunista, 5,6% alle stesse elezioni, facevano registrare un rilevante minimo storico. Un tracollo!
La caduta del muro aveva liberato il voto degli italiani. Veniva giù, assieme ai blocchi di cemento che avevano diviso la città tedesca, anche quel consociativismo che aveva congelato il quadro politico e che, come aveva sostenuto fino all’ultimo momento della sua prigionia e del suo assassinio, Aldo Moro, si apprestava a sconfinare nell’ineluttabile fase del compromesso di potere tra cattolici e marxisti. E’ in quella fase che nasce mani pulite. In quella fase in cui il partito post comunista è travolto dalla consapevolezza del fallimento del modello sociale che pretendeva importare in Italia. Nel momento in cui emergono le omertà, le viltà, le bugie, la propaganda, le illusioni, l’orrore.
“I comunisti sono gli unici che ci difendono" - Sono le parole che l’allora Vice Procuratore capo del pool di mani pulite, Gerardo D’Ambrosio (dal 2006 parlamentare del PD), disse al PM Tiziana Parenti che indagava sulle tangenti incassate dal Pci. La stessa Parenti che, dimessasi dalla magistratura nel 2003, dirà: “Mi venne affidata l'inchiesta Greganti non perché fossi la più brava fra i 50 sostituti, ma perché ero comunista e quindi avrei dovuto avere un occhio di riguardo. Era una questione di "opportunità"! In pratica mi chiese (D’Ambrosio) di fare una cosa disonesta deontologicamente, proponendo l'archiviazione. Fatelo voi, dissi a lui e a Borrelli, ma lasciate fuori me -Mi fu detto che mi divertivo a perseguitare i comunisti”.
Sono le stesse cose che la sinistra dice tuttora quando accusa Berlusconi di “ossessione dei comunisti”, quando vengono ricordate le viltà e le gesta infelici degli uomini di quel partito. In Italia si vuole che sia proibito parlare del fallimento comunista, e delle sue malefatte, come se non si dovesse più parlare degli orrori delle ideologie di massa, se non solo in riferimento al nazi-fascismo. Invece no! Il comunismo è stato del tutto simile ed a volte speculare al nazi-fascismo. Perfettamente sovrapponibile!
Il Pool di mani pulite partiva da una volontà politica più volte emersa a margine di quelle inchieste: quella di tener fuori la sinistra post comunista. Un salvacondotto che politicamente doveva legittimare la richiesta degli ex comunisti di assumere la guida del Paese. Benché fosse crollato il comunismo, l’Italia si doveva rivolgere agli ex comunisti per dare una svolta di cambiamento ai quasi 50 anni di corruzione, di immobilismo e di politica consociativa in cui anche il Pci aveva sguazzato. La rivoluzione di mani pulite eludeva la verità giudiziaria per trasformarsi in una ben precisa azione politica. Eludeva la costatazione che c’era un sistema di partiti che, salve alcune eccezioni (missini e radicali), toccava tutti i partiti in ordine direttamente proporzionale alla loro influenza. Il Pool aveva deciso di stroncare solo una parte della classe politica, facendo prevalere l’assunto che, se si toccavano gli ex comunisti, veniva meno tutto il castello di mani pulite. E’ stato un golpe giudiziario, lo stesso che ha smosso la fantasia del simbolo più crudo di quella stagione, Antonio Di Pietro, ideatore a quei tempi di un teorico golpe giudiziario di rilevanza prima europea e poi mondiale, come l’Ulivo mondiale di Prodi e compagni.
Sono trascorsi 18 anni e siamo ancora allo stesso punto. La magistratura, caparbia, delegittima le scelte democratiche degli elettori, anche se il Paese, di contro, non ne vuole sapere di affidarsi alla sinistra, anche se mischia le carte per confondersi e nascondersi dietro i nuovi soggetti politici che costituisce. I tre ultimi presidenti della repubblica che si sono succeduti, espressi da quell’area, o convertitisi dopo accuse gravi, ottenendone la redenzione, hanno infarcito gli organi che presiedono le garanzie (legittimità delle leggi ed autogoverno della magistratura) di uomini schierati a sinistra. Un pericolo che richiede attenzione e riforme. Il Paese è ora in una morsa che stringe l’esecutivo in un attacco, senza soluzione di continuità alla sua legittimità, benché sia espressione del voto popolare. L’Italia vorrebbe, invece, girar pagina.
Sarà mai possibile chiudere questa stagione e porre fine a questo regime giudiziario?
Vito Schepisi

14 dicembre 2009

Uomini e modi disgustosi


A margine della notizia c’è il disgusto. Naturalmente sto parlando della vile aggressione al Presidente del Consiglio. C’è il disgusto per una politica che è uscita dall’alveo della lotta per le scelte, ed è uscita dalle ispirazioni ideali degli elettori che si cimentano con le immagini di una società, non priva di carenze e di difetti, ma impegnata a rincorrere gli obiettivi della crescita.
Nella vita politica italiana, dalla caduta del fascismo in poi, nell’era repubblicana, ci sono stati due macigni che hanno ostruito la strada alla normalità del confronto politico. Due grossi ostacoli che hanno impedito l’accesso sereno alla normale agibilità politica di un Paese libero. Il primo ostacolo è arrivato dal pericolo del possibile avvento di una nuova dittatura, quella comunista, del tutto simile a quella realizzata sulla base dell’intolleranza reazionaria e del nazionalismo autarchico fascista. L’Italia ha dovuto lottare e fare le sue scelte, a volte obbligatoriamente intorno al simbolo religioso che richiamava la comune tradizione popolare, per sventare il pericolo del reiterarsi dell’oppressione contro il libero pensiero, la libera iniziativa e la libera autodeterminazione del popolo. Questo pericolo diretto, su cui il PCUS di Mosca aveva investito rubli ed impegno strategico, è durato sino al 9 novembre del 1989, fino al crollo del Muro di Berlino. Un evento quello di 20 anni fa che ha liberato popoli e speranze, e che ha liberato anche l’Italia dall’obbligo irreversibile di una scelta elettorale, qualche volta con la mano sul naso per alleviare la puzza.
L’Italia però è il Paese di Depretis. Il trasformismo è nel dna della sinistra. Lo si è visto anche con la conversione all’antifascismo dell’ultima ora, o alla riconversione a regime abbattuto, di politici e di uomini di cultura. In Italia ci si può anche definire liberaldemocratici da sempre, solo per un auto referente atto di fede, anche avendo assunto in passato incarichi importanti nel Pci. Nel nostro Paese, Veltroni, ad esempio, ha potuto dire, senza far ridere tutti, di non essere mai stato comunista.
Il secondo macigno che ostacola la normalità è l’antiberlusconismo. E’ questa un’altra artefatta corrente di pensiero che raccoglie per strada coloro che per motivi di contrapposizione politica, ovvero di lotta di potere, di antiliberalismo, di dirigismo, di interessi economici, di opportunismo, di difesa corporativa e di casta, ovvero per rancori ed ambizioni personali, vedono in Berlusconi un ostacolo alle loro scelte ed ai loro interessi. L’antiberlusconismo è visto, anche e spesso, come uno strumento per conservare i privilegi acquisiti: si guardi alla magistratura, alla finanza, alle banche ed alla grande industria.
Campione dell’antiberlusconismo più becero e sbracato è l’ex PM di Mani Pulite, Antonio Di Pietro. Mai poté il suo cervello quanto la sua ferocia, mai poté la sua lingua quanto il suo cinismo, mai la sua capacità politica quanto la stupidità di quelli che l’hanno buttato nella mischia per usarlo, finendone usati. Ci sono uomini che non hanno il senso della misura, reazionari, ignoranti, violenti, furfanti che si rifugiano dietro la democrazia per farsene scudo. Si trovano tutti tra i fautori dell’antiberlusconismo.
Ciò che è capitato a Milano al Capo del Governo dà la misura del pericolo dell’antiberlusconismo: un ulteriore ed ingombrante macigno che ostacola e svilisce il confronto democratico. Non esiste, infatti, un berlusconismo come corrente di pensiero politico, ma esiste solo una parte moderata del Paese che prevale elettoralmente sui temi della sicurezza, dell’efficienza, del controllo dell’immigrazione, dell’occupazione, delle riforme e dello sviluppo degli investimenti in una prospettiva di garanzie sociali coerenti con la tradizione europea e con i diritti relazionati ai doveri. C’è un Paese di cittadini e non di caste che vorrebbe vedere aumentare i servizi e la loro efficienza e vedere ridotto e ben utilizzato il prelievo fiscale. Non c’è un sistema Berlusconi, ma un sistema liberale che si contrappone al sistema della conservazione, dei privilegi, degli abusi, dell’arroganza, della mortificazione, dell’ingiustizia, della burocrazia, della cooptazione politica e della demeritocrazia.
Ci sono responsabilità per il linguaggio improprio usato oggi nel Paese, per le parole d’ordine che circolano su internet, per le manifestazioni politiche di piazza organizzate sul concetto dell’antiberlusconismo. C’è una responsabilità per i processi sceneggiati in televisione, con lo stravolgimento di verità giudiziarie, con monologhi di accuse estratte dalle tesi accusatorie, senza dar spazio alla difesa. Sono responsabilità che appartengono a uomini e modi disgustosi. I democratici veri dovrebbero respingere questa barbarie!
Vito Schepisi

11 dicembre 2009

Un Paese strano



E’ uno strano Paese l’Italia. Non me ne vogliano i connazionali, anche perché parlo dell’Italia che appare, non di quella della gente umile che lavora, che si impegna, che si batte, che fa sacrifici. Sembra persino strano che ci sia ancora gente che si dà da fare, che ci siano uomini che ci provano, che a volte riescono ed altre no, come è dappertutto nel resto del mondo. Parlo dell’Italia che è sui giornali, di quella che parla, di quella che grida, di quella che accusa, di quella che finge, di quella che non mostra d’avere grandi problemi di vita, di quella che appartiene per un verso o per l’altro al mondo dell’informazione, della cultura, del gossip e della politica. Sono questi i quattro filoni portanti della notorietà che una volta erano, salvo eccezioni, attività ben distaccate e che oggi, invece, si intrecciano, come accade in un circo, dove dal ruggito di leoni e tigri si passa al trapezio, e dai giochi di prestigio ai clowns.
E così che capita che un paparazzo dica che l’Italia gli faccia schifo, solo perché è stata ritenuta illegale la sua abitudine di chiedere alle vittime, colte in immagini fotografiche imbarazzanti, spesso ricorrendo a stratagemmi e violazioni della privacy, di pagare per togliere le immagini dal mercato, prima che fossero vendute ai giornali di gossip. E così che capita che ad alcuni politici venga in mente di pubblicare a pagamento su giornali stranieri pagine di ingiurie verso il Presidente del Consiglio, leader di una maggioranza eletta democraticamente dal popolo italiano, a cui, stranamente, il politico in questione chiede ancora voti elettorali. E così capita anche che in un pomeriggio romano vengano organizzate manifestazioni a favore della libertà di stampa, perché un Presidente del Consiglio, ritenutosi diffamato da alcuni giornali, si è rivolto alla giustizia. Tra loro uomini dalle facce di bronzo che contestano ad altri di fare né più e né meno di quanto loro hanno già fatto, spesso intervenendo con richieste risarcitorie non sulle ingiurie, ma sulle opinioni; non sulle insinuazione disgustose, ma sulla satira. E capita che ad organizzare la manifestazione ci sia la Federazione della stampa, la Fnsi, sempre assente invece quando l’arroganza della politica è stata davvero intimidatoria nei confronti di alcuni giornalisti. E così che capita anche che il Parlamento europeo sia stato investito dal compito di stabilire se in Italia ci sia o meno agibilità per la libera informazione o se ci siano motivi di preoccupazione per le stesse istituzioni democratiche. Ed è stano che tutto questo accada mentre una gran parte degli italiani avverte un’aggressione quotidiana verso la maggioranza ed il Governo e verso il Presidente del Consiglio Berlusconi.
Ma non è anche strano un Paese dove il Presidente del Consiglio, investito più volte dal consenso e dalla fiducia degli elettori, venga ripetutamente chiamato in causa dalla magistratura per 15 anni, senza soluzione di continuità e per le vicende più disparate? Non è strano che dinanzi ai successi interni ed internazionali di questo governo si intensifichino gli attacchi come in una escalation dove si punta sempre più in alto fino ad accuse di reati più turpi e richieste risarcitorie di cifre “lunari”?
In un Paese strano come l’Italia non potevano mancare le censure, se Berlusconi parla al Congresso del PPE. Il premier è anche uomo di partito. E’ tra i leader del Partito Popolare Europeo. Nelle assise di partito di solito si parla in casa, si delineano i confini dei quadri politici in cui si opera, si focalizzano le difficoltà, si denunciano i comportamenti difformi, si focalizzano gli ostacoli. In un Congresso come quello del PPE si parla dinanzi ad un uditorio di uomini che hanno fatto le stesse esperienze politiche e si parla anche di percorsi personali e, trattandosi di assisi multinazionali, anche i percorsi personali coincidono o si sovrappongono con quelli delle realtà dei propri paesi di origine. Berlusconi ha parlato dell’Italia. Ha parlato di quelli che a suo avviso sono i problemi del Paese, di motivi per i quali la sovranità popolare è spesso compromessa e minacciata. Ha parlato di un’Italia in cui non sempre coincidono rappresentanza democratica ed indipendenza delle Istituzioni. Ha parlato di una giustizia che ripetutamente sconfina dal suo ruolo di funzione giurisdizionale per occupare gli spazi della politica, ha parlato di organi di garanzia usati politicamente perché infiltrati da uomini che rispondono più agli impulsi dei partiti, che alla imparzialità dell’azione di sereno giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi. Ma in un Paese strano come l’Italia non sembra sia possibile farlo , c’è chi è pronto a giocare la carta della difesa della democrazia, anche se la calpesta abitualmente o l’ha calpestata in passato. Uomini senza ritegno. E tra questi, anche Gianfranco Fini.
Vito Schepisi su il legno storto

04 dicembre 2009

Edita dalle Procure Riunite: La nuova Storia D'Italia


Ieri ho incontrato Giovanni: è un pozzo di informazioni Giovanni. Siamo stati insieme due ore e me ne ha dette tante di cose che se dovessi ripeterle tutte mi riuscirebbe difficile farlo. Cose esplosive. Bombe atomiche. Giovanni è uno che parla poco ma quando parla non le manda a dire. Sembra uno di quegli uomini di onore, quelli che più che parlare emettono sentenze: di poche parole, ma taglienti come una lama, micidiali come una sventagliata di mitra, velenose come il curaro, esplosive come il tritolo.
Non ci vedevamo da tempo. Diciamo pure che l’ho sempre evitato perché di lui non si parla sempre un granché bene. Si diceva che era stato in galera per reati di mafia. L’ho incontrato per caso, mi ha salutato, mi ha abbracciato e baciato, ed ho pensato subito al bacio di Riina con Andreotti. Mi sono guardato intorno, per istinto, immaginando un qualcuno col telefonino che riprendeva la scena, per vedere se c’erano in giro testimoni che un domani mi potevano coinvolgere.
Ma coinvolgere in cosa? In Italia bisogna stare sempre attenti, prima di salutare qualcuno, figuriamoci un saluto così caloroso!
Dopo i primi convenevoli (Che fai? Come te la passi? Matrimonio, figli, etc.etc) passa subito al dunque. Sembrava che bramasse dalla voglia di raccontare le sue storie e le sue avventure. Mi dice che è stato in galera per diversi reati, tra cui l’omicidio. Roba passata, però! “Ora ho confessato tutto. Non mi tiro indietro dalle mie responsabilità. Sono tutte cose vere, ma mi sono pentito”.
Mi toglie la parola di bocca dinanzi alla mia espressione perplessa per continuare e dirmi: “sono fuori perché sono inserito in un programma di ravvedimento per collaboratori di giustizia. In poche parole sono un pentito, sono un dichiarante e godo di un programma di protezione e di mantenimento per me e per la mia famiglia. Detto tra noi – mi svela- è stato come un terno secco al Lotto, anzi che dico almeno un 5+1 al Superenalotto!”.
Giovanni mi dice di sapere tante cose e d’essersi sempre trovato al punto giusto nel momento giusto, sostiene che nella vita bisogna avere fortuna, ma qualche volta la fortuna la si può anche aiutare : “ Serve che abbia visto Berlusconi e Rosy Bindi nel lettone di Putin? Io c’ero! Ero lì a guardare. Capisci a me? ”.
Ma sono cose incredibili! - sostengo - Come si fa a poterci credere?
“Ma tu pensavi – mi ribatte – che Marrazzo….?”
No! Certo, non l’avrei mai pensato!
“L’importante – continua - è essere disponibili a dire ciò che serve … e che importa se poi non è tutto vero?”
Giovanni mi riferisce che il suo è un vero lavoro perché per un dichiarante serio è fondamentale documentarsi, bisogna annotare tutto ciò che accade nella vita. Bisogna prendere esempio da Andreotti che si annotava tutto sulle sue agende. Se ad esempio in un determinato giorno una pattuglia ci ferma per un controllo di documenti sull’Autostrada Salerno - Reggio Calabria, non si può dire che si era presenti a Palermo o Milano, mentre, chessò, Dell’Utri concordava con i fratelli Graviano la bomba da mettere a Via dei Giorgofoli a Firenze. Anche le cazzate devono seguire una certa etica professionale. Come se ci fosse un vero codice deontologico. Mi svela che sia una professione difficile quella del pentito professionista.
Giovanni mi racconta di Antonio, ad esempio. Un uomo in galera per tre omicidi. Un uomo violento, condannato all’ergastolo, oramai già avanti in età, con la salute precaria: “Se gli danno un altro ergastolo non gli cambia la vita! Ma serve a scagionare Francesco che mi è stato raccomandato da Luigi. Francesco a sua volta serve per il processo a Lui. Capisci a me?”.
Ma, quando chiedo “a Lui chi?” – Mi guarda sorridendo, come se fossi un ingenuo, come se non potesse che essere una sola persona quel “Lui” - Intuisco e gli chiedo: “Ti riferisci a Silvio?”. Annuisce e continua a raccontarmi di trame e di inganni.
Mi svela la storia d’Italia a cui è stato chiamato a collaborare per i tipi delle procure riunite italiane.
Vito Schepisi su il legno storto

02 dicembre 2009

La commedia è durata già troppo



Qualsiasi uomo di buon senso, senza spirito partigiano o impedito dal pregiudizio, non può non avere buoni motivi per pensare che questa commedia sia durata sin troppo.
Berlusconi non è il leader di un partito, inteso come gli amanti della partitocrazia pretendono che debba essere. E se gli italiani dovessero scegliere tra un partito movimento, interprete delle scelte degli elettori, ed altro che invece pensi ad orientarli, non ci sarebbero dubbi sulla prevalenza della prima opzione.
Il tutto tra Berlusconi e Fini è cominciato prima. Molto prima! La questione tra i due non la si può far riferire solo alle scelte della maggioranza sulle questioni giudiziarie o sulle politiche verso l’immigrazione, ovvero sul voto dopo 5 anni agli extracomunitari o sulle posizioni assunte con il testamento biologico.
Sono tutte sciocchezze! O meglio sono cose che fanno parte dello sciocchezzaio di Fini. Un po’ come nelle favole di Esopo o di Fedro, che sanno di saggezza popolare, in cui la sciocchezza è alla base di un pretesto.
Una posizione precisa di Fini, ma solo per parlare di episodi recenti, la si deve far risalire già ai contrasti sulla strategia di opposizione al precedente governo di Prodi. Quello era un governo antipopolare, problematico, disastroso, incoerente, schizofrenico. Un governo che scivolava verso la rassegnazione al definitivo declino del Paese. Un governo, quello di Prodi, che sembrava avere due unici finalità: quella di punire le fasce degli elettori che avevano sostenuto il centrodestra e quella di mortificare l’opposizione. E per farlo Prodi e la sua maggioranza stavano attuando una politica di macelleria sociale senza precedenti.
Ma a Berlusconi che sollecitava e parlava di prossima caduta di quel governo, spaccato al suo interno e sgradito all’opinione pubblica, tanto da inanellare costanti minimi storici nel gradimento degli italiani, Fini arrivò a porre l’ultimatum: se non cade Prodi si cambia.
Il discorso del predellino a Piazza San Babila a Milano da cui prese corpo la spinta bipolare che dette origine al Pdl, fu apostrofato improvvidamente da un Fini nervoso, sin troppo per un leader che deve aver più prudenza, con un “siamo alla frutta”. Fini in definitiva, indiscusso protagonista della politica italiana, anella da tempo una sciocchezza politica dopo l’altra. Lo fa perché in sostanza è il leader conservatore di una idea di partito che è una “caserma” com’era AN sotto la sua guida.
La sua concezione di Partito è legata a quella dei comitati centrali controllati dagli uomini scelti nei congressi, dopo il controllo delle sezioni e degli iscritti. Un metodo che faceva partire le risoluzioni dal vertice, per poi farle transitare dai comitati allargati, per poi, a gradini, farle ritornare agli organi sempre più ristretti, ed alla fine da dove erano partiti, cioè al vertice stesso. I partiti della prima repubblica erano così schizofrenici! Nel metodo differiva la DC che parlava con voci diverse, ma riusciva ad unire tutti con la linfa vitale della partitocrazia: la lottizzazione. Quest’ultima avveniva tra le correnti in modo proporzionale alla forza congressuale. Sarà per questo che c’è qualcuno tra gli amici di Fini che rievoca oggi il metodo DC.
Gli italiani hanno, però, imparato a distinguere tra la democrazia della sovranità popolare a quella da scena, ed a capire che quest’ultima sia solo una finzione di democrazia: una vera caserma al comando dei gerarchi. Quella che va bene a chi muta le proprie idee a seconda delle opportunità di leadership nel proprio partito e che è cresciuto nel mito del partito burocratico su cui si regge tutta l’organizzazione di un’idea di regime.
Ma chi vota centrodestra e vota Berlusconi pensa, invece, che il male del Paese, i cui riflessi sono nel debito pubblico e nelle inefficienze strutturali, stia proprio nella partitocrazia. Ha in odio l“inciucio” tra i leader dei partiti, che si risolve quasi sempre nell’interpretazione della democrazia rappresentativa come di un sistema in cui le difficoltà si sistemano allargando la spesa, e concertando così la soddisfazione delle parti a spese di tutti. Chi vota Berlusconi, invece, è convinto che se fosse per il premier sarebbero ridotti, anche da domani, i numeri ed i costi della politica e si passerebbe subito a rinnovare il Paese.
Berlusconi dal predellino si appellò al popolo dei “gazebo” perché dalla gente comune arrivassero i segnali e le scelte e, vinte le elezioni, continua oggi a sostenere che la politica di governo riviene dal patto stipulato con gli elettori, prima che con Fini o con Bossi.
Nessuno però è obbligato a condividere la legittimità che viene direttamente dal popolo ed è libero di fare scelte diverse, ma abbia il coraggio di dirlo con chiarezza e di farle. La commedia è durata già troppo.
Vito Schepisi

25 novembre 2009

Soppressione fisica o golpe giudiziario?


Pensiamo, in modo del tutto teorico, che una organizzazione interna alla magistratura che chiamerei “brigata democratica per la legalità rivoluzionaria e popolare” voglia sovvertire le istituzioni democratiche del Paese. Pensiamo anche che in Italia ci sia un clima politico in cui le vecchie parole d’ordine, tipo: fronte democratico ed antifascista, arco costituzionale, popolo dei lavoratori, masse operaie, lotta proletaria, sinistra unita, destra reazionaria, etc.etc. abbiano perso effetto attrattivo e che non funzionino più.

Per avventura pensiamo anche che ci sia un gruppo editoriale con ramificazioni nel mondo industriale, finanziario e bancario che riesca a coinvolgere settori molto ampi della società italiana tra cui intere categorie sindacali, rami di quelle industriali, rampanti intellettuali, ordini professionali ed una parte del Parlamento dove siedono uomini che senza il sostegno di questo gruppo farebbero un altro mestiere.

Pensiamo tutto questo come se fosse già una realtà in corso, e pensiamolo supponendo che ci sia una sinistra, dai tratti di provenienza ideologica massimalista. Una sinistra che non faccia più presa sul suo elettorato, stanco per le tante delusioni ricevute, per aver destato sospetti su inganni e falsità spacciate nel passato come verità rivelate, per aver seminato nel Paese: amministrazioni inefficienti; uomini sorpresi con le mani nei contenitori della farina pubblica; arroganza; privilegi e sacche di inefficienza; abusi di potere; malversazioni, protervia e ricatti sessuali, come in Puglia; moralismi bacchettoni, fino alla pretesa di voler spiare dal buco della serratura dei cittadini per stabilire la legittimità degli stessi ad avere una propria attività sessuale.

Una sinistra affetta dal vizio dei due pesi e delle due misure nella valutazione della questione morale.

Pensiamo alla presenza di una sinistra che ha mantenuto l’incarico assessorile alla sanità ad un suo uomo, in evidente conflitto d’interessi, come fornitore per società di famiglia di articoli sanitari, il cui operato è stato considerato dalla magistratura inquirente come quello di referente di una “cupola” criminale dedita al profitto ed al controllo politico del territorio. Un assessore a cui è stata garantita l’immunità all’arresto consentendogli di entrare in Senato, come primo dei non eletti, dopo aver fatto eleggere al Parlamento Europeo un senatore eletto nella sua regione, per fargli spazio.

Pensiamo ad un Consiglio di Ministri che viene rappresentato come un esecutivo che sbaglia sempre e comunque, sia che si interessi di sicurezza, sia di interventi nelle emergenze, sia di scuola, sia di giustizia, sia che pensi ad un piano di opere pubbliche o alla moralizzazione del pubblico impiego, sia che provi a mettere sotto controllo l’immigrazione clandestina, sia sulle misure economiche. Ha persino la responsabilità di non essere un esecutivo di sinistra (Martin Schulz) per poter legittimamente proporre la candidatura di D’Alema a ministro degli esteri europeo.

Pensiamo, sempre in modo del tutto teorico, che non siano servite a ribaltare la convinzione degli elettori tutta una serie di aggressioni politiche, di minacce giudiziarie, di trasmissioni televisive orientate, di produzione di satira, di dossier, di pentiti di mafia, di ricostruzioni criminali al limite della farsa, di un utilizzo incredibile per sfrontatezza di tutto il codice penale, dalla prima all’ultima pagina, per accusare Berlusconi di tutti i reati previsti: dal furto della gallina del vicino, al delitto a mezzo sicario per futili motivi; dalla violenza carnale, allo sfruttamento della prostituzione; dalla tratte delle bianche, allo spaccio di droga; dall’associazione mafiosa, alla rapina delle vecchiette fuori dall’ufficio postale.

Berlusconi il grande corruttore, l’unico responsabile di tutti i guai del Paese, il caimano, il grande vecchio, quello che ha disseminato la spazzatura nelle strade di Napoli e che ha fatto tremare l’Abruzzo, quello che ha portato al tracollo Alitalia, che ha mortificato il mezzogiorno assorbendo per decenni risorse sparite nel nulla, che ha dissestato il territorio, che ha messo le bombe, che ha fatto saltare i treni, che ha pensato le stragi, e tra queste mettiamoci anche quelle del sabato sera.

Pensiamo, in modo del tutto teorico, che per riprendere a fare i propri comodi ed a saccheggiare il paese, la sinistra abbia realizzato la convinzione che l’unico metodo sia quello di sopprimere Berlusconi e che, non potendolo fare attraverso leggi liberticide, come quella di impedirgli di candidarsi, anche perché non avrebbe i numeri per farlo, stia meditando due diverse opportunità: la sua soppressione fisica o la sua soppressione giuridica.

Supponiamo che sia anche ciò che la cronaca quotidiana ci racconta!

Vito Schepisi

20 novembre 2009

Berlusconi e Fini: li divide il successo


Si dice che il successo di Silvio Berlusconi sia nella sua grande capacità di comunicare. Sarà anche così, ma se non si ha niente da dire, si può comunicare quanto si vuole, la gente non ti segue. Anche Gianfranco Fini è un abile comunicatore, ma non sembra che di questi tempi abbia molto di interessante da dire. Sarà questa la ragione della mancanza di un grande seguito.
Da qualche tempo, tutto ciò che Fini dice non incontra favori, e chi è disposto a seguirlo ha interessi politici differenti. E’ seguito ed incoraggiato, infatti, solo da chi ha lo scopo di metterlo in contrasto a Berlusconi e da chi si serve di lui per raggiungere obiettivi diversi dal suo stesso interesse. Non c’è una logica, né una precisa ragione politica in tutto questo. E’ come un percorso che si fa insieme quando si ha un nemico comune: cosa diversa dall’avere le stesse idee e le stesse motivazioni. Nel caso di Fini si ha l’impressione che assuma la parte del classico “utile idiota”. Il riferimento, naturalmente, è alla figura storica citata da Lenin, usata per indicare alcuni tipici - inconsapevoli o meno - comportamenti degli uomini.
Le posizioni che si assumono in politica hanno sempre una doppia valenza: possono essere per l’utilità di una proposta, oppure possono essere funzionali ad uno scopo. Ce ne sarebbe una terza, ma entreremmo nel campo dell’uso improprio della parola, come quando la si usa per dire sciocchezze. Non è questo, però, il caso di Fini. Le posizioni che assume l’ex AN sono più vicine a quelle della funzionalità per uno scopo.
Ritornando a parlare del successo, è bene subito sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni. Un fattore del successo è senza dubbio la notorietà. C’è chi sostiene che sia meglio che se ne parli, anche male, di un aspirante al successo, ma l’importante è che se ne parli. Questo è vero fino ad un certo punto. Per limitarci alla politica, ci sono stati uomini come Prodi, Di Pietro, Veltroni, D’Alema, solo per citarne alcuni, che sono stati al vertice della popolarità. Personaggi di cui in vari momenti si è parlato anche più di quanto valesse la pena farlo. Ma sono stati uomini che non hanno mai avuto grandi idee da proporre, o non hanno mai dato questa sensazione. Sono stati uomini percepiti contro qualcosa, più che portatori di soluzioni politiche. Non sono riusciti e non riescono a proporsi come personaggi vincenti. Non hanno un’immagine di successo, non hanno un carisma personale. Sono uomini non immediatamente identificabili in un profilo politico complessivo. Non si è mai percepita una loro capacità né di proporre modelli nuovi, né di offrire risposte concrete ai problemi di ogni giorno.
Se il popolo, ad esempio, chiede emozioni, se chiede sensazioni, se è alla ricerca di evasione, va al teatro, al cinema, ai concerti, va in discoteca, si legge un libro: non va a sentire Veltroni che parla di Martin Luther King o cita Dickens. Dalla politica la gente si aspetta soluzioni non bei ricordi e belle parole.
Berlusconi, invece, ha successo perché riesce a parlare alla gente: a quella delle partite Iva, a chi è alla ricerca di un’occupazione, ai pensionati, agli agricoltori, ai giovani che sognano di formarsi una loro famiglia e che guardano al futuro. Parla e si fa capire da coloro che non hanno una casa e vorrebbero averla, da quelli che hanno un mutuo da pagare e sono rimasti senza lavoro, da chi non vorrebbe essere lasciato indietro. Il premier si fa capire dagli italiani che si sono vergognati della spazzatura di Napoli, da quelli che hanno sofferto e soffrono per il terremoto. Berlusconi riesce a paralare a chi s’aspetta modernizzazione, efficienza, giustizia e più orgoglio. Il premier parla e propone soluzioni a chi si preoccupa dell’immigrazione, a chi si preoccupa per la sicurezza. Berlusconi parla alle donne che chiedono parità e dignità. Parla a chi lamenta l’eccessiva pressione fiscale.
Berlusconi insomma ha successo perché rappresenta una speranza, perché è visto come un cambiamento rispetto a coloro che per anni si sono riempiti la bocca di tutele ora di questo, ora di quello, senza mai tutelare niente e nessuno, se non il proprio vivere agiato alle spalle dei tutelabili. Berlusconi è percepito come il leader che ha un’idea diversa della democrazia, rispetto a chi si arroga la presunzione di rappresentarla controllando lo zoccolo duro delle minoranze militanti ed usando metodi di controllo capillare. Il Cavaliere rappresenta per molti la speranza di liberarsi da coloro che , dietro ai comitati, le assemblee, le lotte, hanno formato le caste dei privilegi e le oasi dei fannulloni e degli abusi.
Con queste premesse ci sarebbe ora da chiedersi se Fini potrà mai avere successo se, in un’Italia preoccupata dal diffondersi dell’islamismo, parla ad esempio di voto dopo 5 anni agli immigrati?
Vito Schepisi

19 novembre 2009

Il pluralismo dell'informazione passa dal pluralismo rappresentativo



E’ emersa di recente al centro dell’attenzione la questione della libertà di stampa in Italia. A bocce ferme, è ora opportuno trarne delle conclusioni. Non si vogliono vincitori o vinti, perché è proprio quella libertà che si richiama al pluralismo delle voci e delle opinioni che non li prevede. Sarebbe invece utile comprendere in cosa consista la libertà dell’informazione e cosa effettivamente sia un paese libero e pluralista.
Le riflessioni sulla libertà di stampa possono essere un giusto misuratore di questo stato.
Smorzato il megafono delle iniziative di parte, con gli animi già sufficientemente sbolliti, sarebbe infatti opportuno fermarsi a riflettere. E ne ricaviamo che la questione sollevata non può esaurirsi nelle manifestazioni di piazza. Tra gli slogan non si ricerca mai una ragione condivisa, ma solo un modo di volersela attribuire. Con il folklore e l’animosità delle manifestazioni si dà una parvenza di forza, ma non si risolve niente. Chi ostenta spesso è solo chi ha interesse a dare di se una visione sovraesposta. E non è, infine, possibile regolare l’orologio della democrazia su chi è più forte e vince a braccio di ferro. C’erano e ci sono delle contraddizioni che vanno chiarite. Ne va della nostra reputazione di Paese libero e democratico. Sono in ballo le opzioni pluraliste sancite dalla nostra Carta fondamentale (art.21 della Costituzione).
Non si dovrebbe più indugiare: la questione libertà di stampa oramai è stata sollevata. Ed è certamente bene che sia così! Bisogna ora capirla approfondirla e risolverla.
Il mondo dell’informazione cambia. Esistono nuovi strumenti di diffusione delle notizie e nuovi strumenti di comunicazione politica. Deve esistere anche un nuovo strumento plurale di rappresentare tutto questo. Il giusto equilibrio tra senso di responsabilità, cultura e coscienza democratica servirebbe anche ad isolare il reiterarsi di quei riflessi di bieco provincialismo, come quelli emersi con inserzioni a pagamento in Inghilterra, paese dove è facile trovare una stampa pronta a denigrare l’Italia ed a rappresentarla come luogo delle peggiori nefandezze. C’è stato in Europa anche un tentativo di delegittimare la democrazia italiana, per odio verso il Governo, con un’iniziativa politica che ha diviso il Parlamento europeo, chiamato ad esprimersi su di un mortificante giudizio sulla democrazia e sulla libertà in Italia. Un episodio stomachevole!
In questo ordito politico di una parte dell’opposizione, la federazione unica della stampa italiana, la FNSI, invece di rappresentare la pluralità dei giornalisti e del mondo dell’informazione, con percezioni più articolate sulla questione, schierandosi con una fazione ha finito col rappresentare solo una parte politica.
Ma non è stato un caso isolato! Nel recente passato la Fnsi, attraverso un suo rappresentante, Paolo Serventi Longhi, già per molti anni segretario della stessa Fnsi, ha sostenuto la fronda antisionista, per l’espulsione della rappresentanza israeliana dalla federazione internazionale dei giornalisti. In quella occasione è bastato il pretesto della contestazione israeliana sulla misura della quota associativa, per mascherare quello che invece è stato un chiaro intento antisemita. La Fnsi ha aderito ad una prevaricazione “vergognosa e inaccettabile dalla società civile”, come lo scorso luglio è stato contestato alla Federazione in una lettera su cui giornalisti, blogger e lettori hanno raccolto intorno ad uno slogan “NON IN MIO NOME” 3750 adesioni in un gruppo su Facebook.
Anche in questa deprecabile leggerezza, in questa mortificante manifestazione contro la stampa israeliana, il rappresentante del sindacato unico ha coinvolto l’intera stampa italiana. Ed è stato solo lo sdegno e la presa di distanza di giornalisti, blogger e lettori, come si è detto, che ha consentito nei giorni scorsi di ricomporre la questione con la riammissione della stampa israeliana nella IFJ.
Ma è possibile che in nome della libertà di stampa non ci sia, in Italia, nessuna garanzia di effettivo pluralismo? Com’è possibile che il sindacato unico dei giornalisti, che per definizione dovrebbe essere interessato all’agibilità dei protagonisti dell’informazione - ma anche al rispetto delle regole, della deontologia e delle leggi sui diritti dei cittadini dall’invadenza prevaricatrice di un’informazione scorretta - si allinei sempre sulle posizioni politiche dei grossi gruppi di pressione finanziario-ecomico-industriale-editoriale? Come mai la Fnsi è diventata,come sostiene l’associazione Lettera 22, un pullman dove i giornalisti siano “intruppa bili” per dirigersi a Piazza del Popolo nell’intento di rovesciare i governi sgraditi?
Perché la Fnsi dà sempre più l’idea di un carro merci aggregato ai vagoni dei pregiudizi della Cgil?
Vito Schepisi

12 novembre 2009

Gli Italiani hanno già dato



Non se ne avvertiva alcun bisogno, eppure è nato ancora un nuovo partito. Per iniziativa di un migrante politico naturale, a cui si sono aggiunti altri migranti di professione, è nata Alleanza per l’Italia per “un’Italia democratica, liberale, popolare e riformatrice”, come sostiene il suo leader.
C’è gente che non si accontenta di aver ricevuto già tanto dalla vita, e solo perché di professione ha fatto soltanto il politico. E sono soprattutto coloro che per esperienze pregresse hanno mostrato di saper fare ben poco di veramente utile e nuovo! Il politico di professione ci ha abituati a constatare che meno ha da proporre e più tempo ha per andare alla ricerca di spazi politici e ruoli da svolgere.
E’ il caso di Rutelli, ad esempio, il “bello guaglione” con cui Prodi, bontà sua, volle attribuirgli un bell’aspetto, ma in evidente contrapposizione al suo spessore specifico. Al suo esatto contrario, posto che per l’aspetto il Professore rispecchiava, invece, ed anche con molta fedeltà, sia l’inconsistenza concreta delle soluzioni avanzate, che la sgradevolezza operativa della sua proposta politica.
“Il PD si è spostato a sinistra”: è il leitmotiv di questa nuova aggregazione. E chi fa il salto, e passa dal PD al nuovo soggetto politico, si affretta a denunciare il fallimento dell’idea originaria del PD, s’accorge oggi che non è più ciò che sostenevano allora i promotori. Non è più ciò che diceva Veltroni al Lingotto. Per costoro il PD ha perso la caratteristica di forza aggregatrice di culture ed esperienze diverse, per diventare solo l’ennesima trasformazione di un ben individuato partito di sinistra, erede di un ben preciso riferimento politico che ha una storia travagliata e contraddittoria fatta di furbizie, meschinità, viltà, bugie e tradimenti.
Il PD per Rutelli e compagni è ora un’idea fallita. Con l’esito delle primarie e con l’elezione alla segreteria di Bersani si è concretizzata una sostanziale frattura con l’idea iniziale.
In verità, la rottura con un partito diverso e pluralista di centrosinistra si era già delineata prima delle primarie, con l’adesione in Europa al gruppo socialista. Gli artifizi verbali nella dizione del gruppo europeo non cambiano assolutamente la sostanza della convergenza in quel gruppo. Ora restano solo Franceschini, Fioroni, Letta e la Bindi che fingono di non accorgersi d’essere diventati dirigenti socialisti, anzi d’essere addirittura in un sottogruppo nazionale che lo è diventato dopo essere stato orgogliosamente comunista.
I sostenitori dell’Alleanza per l’Italia denunciano la deriva del partito di Bersani verso un’identità politica che va alla ricerca della sua vecchia connotazione. Quella naturalmente degli ex DS. Un addebito pesante, se lo si avanza per richiamare la colpa, attribuita al nuovo corso del PD, del ritorno all’identità post comunista, quella che era dei democratici di sinistra, quella che è l’identità di riferimento di Bersani. Quella che è anche l’identità originale degli eredi diretti del vecchio Pci.
I sostenitori dell’Alleanza, nonostante i toni smorzati, rivelano il loro disagio nel restare nel PD, denunciano l’errore della mancanza di confronto con la maggioranza, contestano il giustizialismo ed il pregiudizio di una parte dell’opposizione e prendono le distanze da quello che considerano un vero processo involutivo del partito di Bersani e D’Alema.
Si separano, a loro dire, dalla trasformazione del PD in un soggetto privo di un’anima riformista, che non ha fantasia politica e manca di innovazione, che indugia nel privilegiare il suo rapporto di tipo classista col sindacato di riferimento, come accadeva con il partito dei post comunisti.
Il nuovo corso del PD di Bersani, per Rutelli, oltre alla rinuncia alla spinta riformista, alla base della sua fondazione, è privo di appeal verso nuove fasce di elettori provenienti da aree diverse. Il nuovo partito di Rutelli vorrebbe invece essere di riferimento per coloro che hanno una visione moderna e progressista, per coloro che vogliono mantenere un dialogo aperto con la sinistra, ma che provengono da esperienze politiche diverse, quali la popolare, la laico-liberale e quella del riformismo socialista.
Tutto in una frase di Rutelli: "non sono d’accordo con un Pd che va a sinistra, ma lo rispetto".
Ma in Italia c’è già un partito di matrice popolare, laico-liberale, riformista e progressista, ed è il Pdl di Berlusconi. C’è già un grosso partito che ha voluto superare i vecchi schemi più o meno classisti ed essere di riferimento per un elettorato moderno. Un partito più credibile per numeri e per la complessità dei suoi contenuti. Un partito che ha dimostrato sul campo di essere un riferimento importante per la trasformazione e la modernizzazione del Paese, e che ha saputo risolvere questioni di crisi di grosso spessore. Un partito a cui la sinistra non ha saputo fornire né risposte politiche e né un’opposizione coerente.
Ma Rutelli, allora, dove vuole andare? Sappiamo che guarda a Casini che è contro il bipolarismo, proprio quello che, invece, consente di superare l’immobilismo corporativo. Ritorna la tentazione alla frammentazione, anticamera della partitocrazia. E’ cosa preoccupante perché nella confusione dei ruoli e delle azioni, come per il gioco delle tre carte, il popolo ci perde sempre.
Rutelli, come Casini, vorrebbe carpire voti al Pdl per portarli a sinistra?
Ma quali scenari politici ci riserva il futuro?
In tutta questa confusione, però, è bene ricordarlo, gli italiani hanno già dato.
Vito Schepisi

09 novembre 2009

Ero a Berlino Est il 12 ed il 13 agosto 1971 - 20 anni fa, il 9 novembre 1989 il muro, veniva travolto dal grido di libertà.




Durante la sua visita a Berlino del 26 giugno 1963,

il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy

pronunciò un discorso che è passato alla storia.

Un discorso che sarebbe diventato

una pietra miliare della “guerra fredda”

per la libertà.



Ci sono molte persone al mondo che non comprendono,

o non sanno, quale sia il grande problema

tra il mondo libero e il mondo comunista.

Lasciateli venire a Berlino!

Ci sono alcuni che dicono che

il comunismo è l'onda del futuro.

Lasciateli venire a Berlino!

Ci sono alcuni che dicono che,

in Europa e da altre parti,

possiamo lavorare con i comunisti.

Lasciateli venire a Berlino!

E ci sono anche quei pochi che dicono

che è vero che il comunismo

è un sistema maligno,

ma ci permette di fare

progressi economici.

Lasst sie nach Berlin kommen!

Lasciateli venire a Berlino! [...]

Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano,

sono cittadini di Berlino,

e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso di dire:

Ich bin ein Berliner! (Sono un Berlinese!)




Sono stato a Berlino nell'agosto del 1971.

Dopo 10 anni dal giorno della costruzione del "muro",

nella notte tra il 12 ed il 13 agosto del 1961.

Ed il 12 ed il 13 agosto del 1971 sono stato a Berlino Est.

Ho varcato il confine ad est della Città il giorno 12,

con un permesso che mi scadeva a mezzanotte.

Ho anche rischiato, per il rientro a Berlino Ovest,

la chiusura del varco per una sfilata militare

che m'impediva l'accesso alla Friederich Strasse,

unico passaggio ad Ovest per visitatori stranieri.

Il 13 agosto la Berlino comunista,

come se fosse stata una festa,

celebrava i 10 anni della separazione della città

con una parata militare.

La Berlino comunista celebrava il muro.

Ero là, curioso e attonito, anche il 13 agosto mattina

ad assistere ai festeggiamenti.

Honeker era su un palco nella Under Der Linden

ed arringava la folla.

La sua voce era severa, dura, autoritaria, tagliente.

Non avevo mai visto ed avvertito niente di simile dal vero.

Non capivo le parole in tedesco,

ma non potevo fare a meno di interpretarne la violenza.

Quel giorno, come Kennedy qualche anno prima,

mi sono sentito berlinese anch'io.




Sono 20 anni da quando il 9 novembre 1989

il muro veniva travolto da ....

un unico grido di libertà del popolo tedesco.

Vito Schepisi

05 novembre 2009

Nel PD tutto cambia, perchè nulla cambi



Tutto si va a chiudere com’era previsto. Dopo le primarie nel PD, i capogruppo alla Camera ed al Senato hanno rassegnato le dimissioni per consentire al nuovo segretario di organizzare la sua squadra politica. E’ giusto che sia così: è il segretario che deve proporre ai gruppi le ipotesi di cambiamento. Meno giusto ci sembra che alla Presidenza del gruppo parlamentare alla Camera sia chiamato il suo più agguerrito concorrente alla segreteria del partito. Non so se sia mai accaduto nella storia politica italiana che il leader della mozione opposta assuma la direzione del gruppo parlamentare. Il sospetto di una nuova finzione, o di una mera lotta di potere con un accordo di spartizione, induce a chiedere se ci siano state reali diversità nelle proposte politiche dei concorrenti alla segreteria PD, o se sia stata la solita commedia a cui questo partito, per quanto nuovo, ripetutamente ricorre. Fingere anziché fungere.
A parte il programma del chirurgo Ignazio Marino, che più che un articolato percorso di attività e scelte programmatiche del complesso partito che ha ereditato esperienze politiche e civili molto diverse, è stato generalmente percepito come una volontà monotematica di trasformare il PD in un movimento di lotta su ben precise scelte etiche, a parte Marino, quindi, non c’è stata una diversità che sia stata percepita netta tra i due principali concorrenti.
Marino è stato anche l’unico che ha saputo accendere i riflettori dell’attenzione su di un’area esterna al PD, allargando la base di un consenso che, più che per uno schieramento politico, è apparso di precise finalità laiche. Il medico, infatti, ha saputo coinvolgere anche porzioni di area radical-liberale nei suoi richiami alle scelte di vita e soprattutto nel suo approccio filosofico al voler dare una ragione (di vita) alla morte.
Tra Bersani e Franceschini cosa c’era invece di così radicalmente diverso? E’ arcinoto che il primo proviene dalle fila dell’ortodossia comunista, in cui prevaleva la ragione di partito sull’intelligenza e sull’originalità del pensiero, e che il secondo proviene invece dalle sacrestie democristiane - che tanto hanno influenzato anche Veltroni - cultrici del principio che tutto si possa fare: anche mettere sulla tavola del diavolo un boccale di acquasanta, perché lo beva assieme al sangue dei suoi oppressi.
Dopo un Congresso, di regola, chi prevale imposta la sua squadra e lo fa sui suoi progetti. E cosa c’è di programmaticamente più pregnante e simbolicamente più squisitamente politico che l’attività parlamentare? Come farebbe un oppositore, teoricamente portatore di una diversa idea di gestione e di contenuti, a poter così fungere da capogruppo parlamentare? Le strategie operative di un partito si concretizzano proprio in Parlamento che è il luogo in cui si formano le leggi e da cui si anima la discussione sulle iniziative politiche per il governo del Paese. Franceschini, se diverrà capogruppo del PD alla Camera, che farà? Interpreterà Bersani? O sarà quest’ultimo che andrà in coda alle scelte ed alle iniziative di Franceschini?
Se tutto questo può apparire di poca importanza in realtà non lo è. Il PD in due anni ha già cambiato tre segretari. I precedenti sono partiti con diversi e virtuosi propositi ma sia l’uno che l’altro hanno finito per fare le sole cose che gli sono state consentite: esasperare i rapporti con la maggioranza; esaltare l’informazione faziosa; assecondare l’invadenza della magistratura.
L’unica apparente diversità è stata invece solo una finzione. Veltroni voleva attestare il PD in un’area di sinistra moderata autosufficiente, svincolata dai piccoli partiti della sinistra alternativa. Subito, però, si è smentito da solo ed ha imbarcato Di Pietro. E la sua è apparsa più un’operazione di cannibalismo parlamentare, verso i piccoli gruppi neo comunisti, che una vera scelta bipolare. Franceschini da segretario si era attestato sulla linea di Veltroni e blandiva e condannava l’alleato Di Pietro a giorni alterni. Diversa sembra ora la posizione di Bersani. Il neo segretario vuole aprire alle alleanze e lo fa richiamando il principio del centralismo democratico, arcinoto ai suoi possibili futuri alleati, tutti di estrazione comunista, per informarli di volerne adottare lo spirito, per evitare la confusione di voci mostrata ai tempi di Prodi.
Ma alleanze per cosa? Il problema è tutto lì. Con il gossip, con la giustizia, con gli insulti, con le delegittimazioni, con la disinformazione, con le minacce ed anche con l’omicidio, se fosse possibile, tutto a sinistra è indirizzato solo a spodestare Berlusconi, anche contro la volontà popolare.
La questione in sostanza resta sempre negli stessi termini, come descritto da Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo, solo un grande cambiamento che permetta di lasciare tutto come prima, perché nulla cambi.

Vito Schepisi

29 ottobre 2009

Omofobia, xenofobia: scelte o patologie?


Le fobie sono stati dell’uomo che rivengono da particolari situazioni di natura psicologica. Di solito indicano la difficoltà di poter convivere in contesti particolari per la presenza di animali, oggetti e persone. E’ una vera patologia della psiche in cui l’oggetto stesso della fobia diventa solo il motivo scatenante della difficoltà che si manifesta. E’ordinariamente un più articolato e complesso insieme di timori che sfocia in manifestazioni di panico e di angoscia. Le origini sono diverse, ma per buona parte rivengono dalla formazione, dall’ambiente, da traumi o dal desiderio inconscio di rimuovere alcuni pensieri o alcuni impulsi che si ritengono inaccettabili. E’ una vera intolleranza che non è controllata dalla volontà, ma da un naturale fenomeno intimo, a volte invincibile e non orientabile, sebbene quasi sempre innocuo. Non c’è una vera cura per le fobie se non con le terapie di analisi, ovvero con la somministrazione di psicofarmaci, laddove i fenomeni presentino pericoli di eccessi e di violenza. In questi casi, però, si parla più propriamente di fenomeni di follia.
Quanto sopra, non è un tentativo di trattare un argomento medico, tra l’altro già diffusamente discusso in campo scientifico, ma di capire di cosa si parla quando nel dibattito politico sentiamo discussioni su questioni che si avvolgono su termini come “omofobia” e “xenofobia”.
La cosa più stupida che si possa pensare è di fare una legge contro una fobia. Sarebbe come dire facciamo una legge contro una malattia. E perché no contro il tumore? Perché non superiamo i rischi d’infarto con una bella legge che lo proibisca? Una legge contro la stupidità, però non sarebbe una cattiva idea!
Se si parla di “omofobia”, dunque, si intende una manifestazione di intolleranza verso le pratiche sessuali definite propriamente o impropriamente, contro natura. E’ omofobo chi non approva, mostra contrarietà ed avverte fastidio alla presenza di situazioni di sessualità “diversa”. Tutto questo è molto differente dalle manifestazioni di violenza e di aggressione verso chi pratica sesso diverso fuori dalla coppia uomo-donna. La violenza infatti è un’applicazione di un costume di vita maturato in un ambito di disagio ambientale, di noia o di pressioni ideologiche, spesso in un contesto in cui l’esito violento diventa la risultante di una cultura indotta e finalizzata. La motivazione omofobica è spesso solo un pretesto.
L’avversione verso l’omosessualità a volte invece è intima, epidermica, nella forma dell’aver fastidio per il contatto, per la presenza, per il contesto. Ma allora è possibile una legge contro l’omofobia? E’ possibile proibire per legge l’avversione intima all’omosessualità? Anche in questo caso spesso prevale l’ipocrisia tipica di chi fa di una manifestazione di consenso un metodo di strumentalizzazione. Di chi ci fa, più di chi ci è, come Franceschini che alle primarie ha candidato a suo vice un uomo di colore perché era nero.
Se si parla invece di “xenofobia” si intende una serie di timori che sono evocati da preoccupazioni causate da più ragioni. I più diffusi sono i timori per le diverse civiltà, per le diverse religioni, per i diversi costumi, ma anche il timore di doversi trovare a soccombere rispetto alle proprie scelte di vita, alle proprie tradizioni, ai propri riferimenti culturali, ai propri simboli. Il timore, insomma di doversi trovare a modificare i propri comportamenti di vita per uniformarli a quelli di coloro che avvertiamo diversi da noi. Il timore estremo di doversi sentire estranei nel proprio Paese. Come se un ospite entrasse in casa nostra ed incominciasse a pretendere di voler regolare un diverso sistema di vita della casa.
La xenofobia ed il razzismo sono due cose distinte, ma il razzismo è spesso una conseguenza diretta della xenofobia. Diventa la condizione dell’animo con la quale si manifesta la propria ostilità verso un modello di cultura. E’ un odio che nasce direttamente da situazioni di intolleranza, ovvero da particolari modelli formativi. Il razzismo è quasi sempre la conseguenza di un fenomeno maturato in un contesto educativo in cui sono venuti a mancare i valori di riferimento su cui basare il proprio senso di appartenenza.
Ma si può proibire per legge la xenofobia? Si può cancellare la preoccupazione che emerge dalla consapevolezza di una politica che invoca una società multietnica e multiculturale come se fosse una evoluzione ineluttabile del mondo? Ma devono essere necessariamente definiti xenofobi coloro che invece parlano di integrazione su valori di riferimento nazionale e che guardano con preoccupazione ai dati forniti sulla presenza straniera in Italia? Come se il record raggiunto fosse un traguardo di civiltà nazionale!
Vito Schepisi

25 ottobre 2009

Se devono essere dimissioni, dimissioni siano

Ma le dimissioni sono vere o a metà? Il dubbio non sembra inopportuno e neanche motivato da volontà forcaiole, ma pertinente perché la sospensione annunciata dal Governatore del Lazio è una cosa, le dimissioni un’altra diversa. Non si vorrebbe che, con tutta questa vicenda, la cosa passasse dalla constatazione di un comportamento censurabile, ad una farsa politica.
E’ necessario distinguere le vicende.
Il Marrazzo che ha la sua vita privata, condivisibile o meno, che compie gli atti sessuali di suo gradimento, per scelta, in un ambito diverso da ciò che la maggioranza degli italiani considera normale, rientra nel suo modo di interpretare al meglio la sua personalità. Sono fatti suoi. E’ libero di fare le sue scelte. Ha diritto alla sua vita privata e nessuno dovrebbe trarre giudizi morali sui suoi gusti sessuali.
Si potrebbe obiettare che questa sua condizione non era a conoscenza dei suoi elettori i quali, altrimenti, non gli avrebbero concesso il consenso elettorale ottenuto. Chi obietta pensa che il giudizio politico sull’uomo, cioè quello espresso col voto, si dovrebbe intrecciare con il giudizio morale che volente o nolente l’elettore trae sul candidato all’atto del rilascio della scheda votata nell’urna elettorale.
La condizione di Marrazzo sarebbe stata certamente più chiara se avesse fatto “outing”, cioè se avesse chiarito per tempo le sue abitudini private. Ma se quest’ultima circostanza può essere condivisibile (avrebbe evitato la ragione del ricatto), si deve anche ribadire che non deve essere considerata come la sola scelta da fare. Non è necessario fare ‘outing’ sulle proprie attitudini e preferenze. Le abitudini private, infatti, purché non pregiudizievoli allo svolgimento del mandato elettivo, possono tranquillamente restare private, senza che il richiamato giudizio politico possa minimamente restarne compromesso.
Questo è un principio inalienabile della democrazia liberale.
Il principio indurrebbe, come è opportuno che sia, a premiare o meno la capacità di governo, e non i gusti e le scelte di vita intima. Solo se si usassero immagini di vita privata, con lo scopo di ‘certificare’ un modo di essere, o alcuni valori di riferimento, che servano da richiamo elettorale, l’emergere di una diversa realtà potrebbe essere intesa come inganno verso il corpo elettorale.
Nelle recenti elezioni europee il leader dell’Udc Casini, ad esempio, si è fatto fotografare coi suoi figli in tenera età per dar di se l’immagine di un padre di famiglia che mostra attenzione verso alcuni valori, tra cui l’educazione dei figli. Se accadesse che nella realtà i suoi comportamenti contraddicessero l’immagine data, il suo messaggio sarebbe censurabile, ipocrita, ingannevole. E’ solo un esempio, perché nessuno mette in dubbio il reale attaccamento dell’On. Casini ai suoi figli ed ai valori che ha voluto trasmettere.
Si diceva che la vicenda va vista anche dall’altro aspetto politicamente, invece, più rilevante.
Il Governatore Marrazzo è stato vittima di un ricatto. Dalle notizie al momento rilevabili, su questa circostanza non dovrebbero esserci dubbi. Ciò che lascia però perplessi è che il Presidente della Giunta Regionale del Lazio non abbia sentito il dovere di denunciarne gli autori, tanto più perché servitori dello Stato, appartenenti alle forze dell’ordine. Il tentativo di estorsione è un reato che, a differenza di quelli perseguibili su denuncia di parte, è perseguibile d’ufficio. Nascondere un reato è di per se già un reato: il cedimento al ricatto col pagamento di una somma sarebbe addirittura un’aggravante del reato commesso. Sono cose, però, che solo la magistratura ha il compito ed il potere di verificare e di stabilire, valutando le circostanze e le attenuanti, perché la vicenda va vista nell’insieme, come appunto solo l’autorità giudiziaria può fare, e solo essa può formulare le diverse ipotesi di reato da far valere in giudizio.
Ma è proprio questa constatata debolezza (l’esser stato ricattabile ed essersi prestato al ricatto) che, più dell’imbarazzo delle circostanze, non può essere politicamente perdonata ad un rappresentante delle istituzioni. Le sue dimissioni dall’incarico, a questo punto, senza formule furbesche e svianti, dovrebbero essere considerate ineluttabili, ma anche utili a consentire a Marrazzo stesso di riacquistare rispetto e comprensione.
La sola sospensione dallo svolgimento del mandato non avrebbe invece alcun significato concreto, se non quello di mortificare ulteriormente tutto il Consiglio Regionale laziale.
Vito Schepisi su Il Legno Storto

22 ottobre 2009

Chi intimidisce il giudice Mesiano?

Ottenuta la bocciatura in Europa sull’ipocrisia del pericolo per la libertà di stampa in Italia, naturalmente per colpa di Berlusconi, la sinistra ripiega su d’un altro obiettivo: le presunte intimidazioni verso il magistrato che ha inflitto una condanna da 750 milioni di euro alla Fininvest.
La condanna è stata molto discussa per tante ragioni, soprattutto per il passaggio con procedura esecutiva di una somma da capogiro dalle casse di Fininvest a quelle del suo concorrente e nemico di sempre: la Cir dell’ingegner Carlo De Benedetti.
Gli osservatori, la stampa, gli avvocati, il mondo giudiziario, tutti insieme si sono posti alcuni quesiti sulla sentenza. I dubbi e le obiezioni vertono sulle sensazioni di una sostanza giuridica che ribalta le sentenze già emesse, che investe nuove e diverse interpretazioni sulle assoluzioni avvenute, che osserva sulla presenza di responsabilità non inequivocabilmente individuate, che si sofferma sul valore giuridico di accordi intervenuti con la clausola del null’altro a pretendere. E’ emerso un grosso dubbio che appare non privo di reale e fondamentale importanza: la competenza del magistrato nel calcolare un risarcimento di tale portata, senza l’ausilio di una perizia tecnica e di una specifica professionale che faccia risalire all’esatta ragione dei conteggi. Perché la giustizia sia coerente e risponda a certezze documentate e non solo ad una convinzione di un giudice unico.
Settecentocinquantamilioni di euro non sono noccioline e sono più che sufficienti a destabilizzare l’equilibrio industriale, occupazionale e produttivo di una grande azienda come la Fininvest. Non può non preoccupare il dubbio che quanto stabilito dal giudice sia motivato da un calcolo del tutto personale e poco attinente coi fatti, dato che il valore di capitalizzazione dell’intera Mondadori è nettamente al di sotto della cifra riconosciuta al presunto danneggiato, che poi è sempre l’ingegner Carlo De Benedetti, un pregiudicato che in Italia gode di opinioni e sentimenti controversi.
Sulla sentenza, sui precedenti giudiziari, sul Lodo Mondadori, sugli accordi successivi è già stato detto tutto e c’è libertà di pensarla come si crede, anche se in campo giudiziario le sentenze sono le uniche verità che contano. Ma non per questo tutto il resto può ritenersi infondato, almeno fino al terzo grado di giudizio, ed anche oltre, se è l’elaborazione intellettuale della propria convinzione.
Esiste o no la libertà di parola e la libertà d’espressione della propria opinione?
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” – art 21 della Costituzione Italiana. Certamente c’è un limite al diritto previsto dalla carta Costituzionale ed è l’oltraggio, il falso e la calunnia verso terzi.
Ma dov’è allora l’oltraggio, dove la calunnia, dove il falso? Che diritto ha il CSM della magistratura a condannare la libera convinzione dei cittadini? Dov’è l’intimidazione nel pensarla in modo diverso? La preoccupazione è invece per una deriva più marcatamente politica della Magistratura che finisce con l’essere in contrasto con la giurisdizione del diritto oggettivo dell’Ordinamento Giudiziario, previsto sempre dalla nostra Carta Costituzionale.
Una sentenza della magistratura va certamente rispettata, ma non si può pretendere che non sia discussa e criticata, nessuno è possessore del diritto d’essere l’espressione suprema ed infallibile. Non si vuole togliere niente alla sentenza ed al magistrato che l’ha emessa, ma c’è un altrettanto diritto di tutti di pensarla diversamente, d’esprimere un concetto diverso nelle forme della correttezza, del rispetto, della buona educazione e delle motivazioni. Nel caso specifico le motivazioni del dubbio esistono e sono pesanti come il peso economico di 750 milioni di Euro.
Anche il giudice Mesiano non è infallibile, come tutti, a prescindere che indossi i calzini turchesi o le mutande lilla. Ciò che non si capisce è dove siano le intimidazioni? Perché tanto zelo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura e del suo Presidente Mancino?
C’è, invece, un’intimidazione quotidiana contro chi pensa che la democrazia in questo Paese debba essere tutelata attraverso la trasparenza e l’indipendenza dei suoi organismi istituzionali. Gli organismi di garanzia previsti dalla Costituzione non possono essere trasformati in succursali della aule parlamentari in cui, approfittando delle spinte corporative di ordinamenti trasformatisi in caste, si pensa di doversi prendere la rivincita delle sconfitte politiche.
Vito Schepisi su Il Legno Storto

19 ottobre 2009

Calzini turchesi per Franceschini


Se un segretario uscente di un partito, in corsa per la rielezione, indossa i calzini turchesi, per far parlare di se, finisce col rendere inconsistente la sua intera proposta politica ed assolutamente mortificante la sua rielezione. I calzini dal colore stravagante, indossati dal magistrato che ora passa per vittima, dopo aver conquistato il primato italiano nell’uso della giustizia come arma di vendetta politica, sono diventati così il nuovo simbolo dell’intero spessore politico di Franceschini.
L’attuale segretario PD, però, dovrebbe avere ben altro da proporre al Paese, ma non risulta di contro alcuna sua chiara proposta politica, se non il solito antiberlusconismo che lo accomuna, con poche varianti tattiche, ai suoi rivali nella scalata alla riconquista della segretaria del PD.
Sembra che si imponga da noi una sorta di pregiudizio libertario per il quale possa essere consentito a chiunque di guardare, scrivere, spiare, sfruculiare nella vita privata del Capo del Governo, se questi si chiama Berlusconi, mentre diventa pestaggio mediatico, ed atto intimidatorio e politicamente scorretto, osservare le stravaganze di un magistrato che, per sua sentenza immediatamente esecutiva, chiede il passaggio di 750 milioni di Euro, il valore di circa 10.000 appartamenti costruiti nelle zone terremotate dell’Aquila, dalla Fininvest della famiglia Berlusconi alla Cir di De Benedetti.
"Oggi questi – dice Franceschini, riferendosi ai calzini turchese - sono la cosa più importante". Ma se un leader di partito per dare il meglio di se ricorre agli effetti mediatici, si capisce perché abbia poi bisogno di un simbolo, di parole d’ordine, di démoni, di feticci per polarizzare l’attenzione dei suoi possibili sostenitori. La richiesta di Franceschini “tutti coi calzini turchesi”, e l’indicazione di Mesiano a simbolo della giustizia italiana, non è un bel vedere per un partito che si propone per la guida del governo e che dovrebbe responsabilmente sapere che tra i mali italiani ci sia una giustizia che trova difficoltà ad essere tale.
I cittadini italiani, infatti, avvertono con preoccupazione la presenza di una corporazione, quella dei magistrati, che indugia più nella ricerca della notorietà e dell’invasione sul terreno della politica, che nell’assolvere al ruolo previsto dalla Costituzione d’essere autonoma ed indipendente. Assistiamo da tempo a manifestazioni di tifo e di pregiudizio politico da parte di un ordinamento che gode di assoluta insindacabilità e che ha un suo proprio organismo di autogoverno. Dovrebbe essere inquietante sapere che ci sia un magistrato che brinda pubblicamente per un risultato elettorale negativo per una parte politica su cui, come giudice unico di primo grado, sta per emettere un verdetto. Sarebbe difficile, infatti, pensare che dopo aver esultato, il verdetto non debba essere di assoluta condanna. Come è stato. Ma è strana anche la preventiva levata di scudi di un’associazione, come l’ANM, che manifesta fastidio al solo sentir parlare di riforma dell’ordinamento giudiziario, la cui necessità è invece diffusamente sentita.
C’è una ‘casuale’ coincidenza, anche fisionomica, tra il segretario dell’ANM Palamara e quello della FNSI Franco Siddi, sono entrambi segretari dei sindacati unici: Il primo dei magistrati ed il secondo dei giornalisti. Il primo reagisce per le critiche di giornalisti e politici contro la corporazione dei giudici ed il secondo quando i giornalisti vengono querelati da una parte politica per diffamazione o quando alcuni servizi focalizzano perplessità sulle “stranezze” caratteriali di un magistrato. Entrambi però tacciono e minimizzano se i comportamenti inusuali e le esternazioni di magistrati, le sentenze astruse, le interpretazioni faziose, i proclami politici, le manifestazioni di non imparzialità, ovvero se le intimidazioni, le querele, la faziosità, l’aggressione mediatica e l’uso improprio dell’informazione vengono usate da una parte politica contro l’altra, non casualmente sempre la stessa.
Un modo d’essere dei due segretari, nei modi e nei toni, che brilla per assoluta carenza d’autocritica. Non è certo questo il modo migliore per rappresentare sindacati unici che dovrebbero, invece, offrire una visione d’insieme di tutte le opinioni. Se un sindacato unico diventa strumento di parzialità, elude la sua piena rappresentatività, mortifica le diversità e denota scarso interesse per la stessa democrazia.
Vito Schepisi sul Il Legno Storto

14 ottobre 2009

Omofobia e art.3 della Costituzione

Gli strani casi della vita! L’art.3 della Costituzione viene richiamato dalla Consulta per il Lodo Alfano, laddove si voleva che le più alte cariche dello Stato potessero essere immuni dai procedimenti giudiziari di disciplina penale fino all’esaurimento del mandato politico-istituzionale ricevuto. E l’art 3 viene richiamato per impedire che una legge conceda privilegi a favore di categorie di persone con diversi orientamenti sessuali.
L’articolo della Costituzione riappare alla ribalta della cronaca, questa volta in Parlamento, perché tutti siano “eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali“.
Dice proprio così l’art.3: “senza distinzioni di sesso”!
Ma se il richiamo della Consulta nel primo si è riferito ad un a legge “Il Lodo Alfano” che riprendeva una parte delle motivazioni con cui l’Assemblea Costituente aveva varato anche l’art.68 relativo all’Immunità Parlamentare, come scudo al “fumus persecutionis” che l’autonomia e l’autogoverno della magistratura potevano e possono far temere con il loro sconfinamento sul terreno della politica, il richiamo in Parlamento all’art. 3, per respingere il tentativo di rendere più uguali degli altri gli omosessuali, è senza dubbio più appropriato.
Non può costituire aggravante un delitto contro la persona solo se motivato da discriminazioni sessuali piuttosto che di religione, o di diverso orientamento politico, ad esempio, ovvero verso fasce di popolazione come i minori ed i disabili. Tra le motivazioni dei reati contro l’individuo c’è persino quello dei futili motivi o le motivazioni più perverse e nascoste. Tra le aggravanti comuni sono comprese quasi tutti le motivazioni non colpose. Non ci sarebbe alcuna ragione per una legge specifica di aggravio dei delitti non colposi contro la persona incentrata sull’omofobia. Ha ragione la ministra Carfagna quando sostiene di volersi far garante per una legge che comprenda “aggravanti per tutti i fattori discriminanti previsti dal Trattato di Lisbona, compresi quelli dell'età, della disabilità, dell'omosessualità e della transessualità».
Non può, inoltre, essere considerato reato un sentimento di avversione naturale all’omosessualità, nello stesso modo in cui lo stesso sentimento di avversione possa esistere per gli omosessuali verso l’eterosessualità. Non è obbligatorio “esaltare” chi ha orientamenti sessuali diversi da quelli considerati naturali, come se fossero dei privilegiati. Non è neanche normale pretendere che gli omosessuali e tutte le categorie di diversità sessuale siano particolarmente cautelati come una categoria protetta. Sarebbe assurdo! Non è una categoria tra gli individui che andrebbe protetta, ma la legalità. E’ sbagliato infine pensare che ci sia un giudizio etico che motivi un senso di avversione, come se fosse un pregiudizio che parte da motivazioni religiose, come se fosse una forma di fondamentalismo etico che teme il diverso e la sua negativa influenza morale nella società.
Non è obbligatorio avere sentimenti di condivisione, come non può rappresentare reato il mostrare fastidio per la presenza di omosessuali, purché la propria difficoltà sia manifestata con civiltà e senza alcuna forma di violenza. Non può altrettanto essere reato biasimare le scene di cattivo gusto e mostrare fastidio per gli approcci provocanti di personaggi variopinti e mascherati come a carnevale. Non si vorrebbe che per la libertà degli uni si debba forzare la libertà degli altri.
Non può infine costituire motivo di aggravio al reato la responsabilità nell’offesa rivolta verso gli autori di una pratica sessuale, ovvero l’offensivo giudizio generico verso una condizione sessuale, rispetto, ad esempio, all’offensivo giudizio politico verso chi esprime un’idea o verso chi compie scelte di governo del Paese, legittimato a farlo dal voto popolare.
Vito Schepisi

07 ottobre 2009

Il Lodo Alfano e la Consulta


Se passasse la tesi di incostituzionalità del Lodo Alfano sarebbe una sentenza politica, priva pertanto di qualsivoglia sostanza giuridica. La Consulta non è un tribunale dove sia possibile far prevalere un teorema accusatorio: deve stabilire il rispetto della Costituzione ed il funzionamento dei poteri dello Stato. Il ricorso alla Corte Costituzionale è l'extrema ratio della correttezza istituzionale. Ha funzione di cautela e di controllo sulla democraticità di tutto il sistema legislativo. Una sentenza, inoltre, deve essere motivata con argomentazioni giuridiche. Deve anche tener conto della storicità delle sue sentenze. La sola contraddizione, rispetto all'evoluzione storica delle sentenze già emesse, potrebbe esser di per se una grave deriva ideologica.Se la Corte Costituzionale, infatti, non riuscisse a spogliarsi dalle incrostazioni ideologiche dello scontro politico in atto, e dalle stesse contingenze partitiche, mortificherebbe gravemente il suo ruolo. Se si dividesse, come nel Paese, come i tifosi di squadre concorrenti, senza entrare nel merito solo del principio costituzionale sollevato, e storicamente già affrontato con una sentenza motivata già emessa, verrebbe meno l'indifferibile ruolo di garante della democrazia rappresentativa incardinata sul ruolo della sovranità popolare. Se accadesse si renderebbe responsabile del possibile impedimento all'esercizio del mandato popolare, stabilendo altresì la possibilità per una magistratura militante di impedire le funzioni di Governo del Paese ai soggetti politici indicati dal popolo.
Vito Schepisi