22 ottobre 2010

Una legge ad personam



Diciamolo subito! Così sgombriamo il campo da ogni infingimento, dalle tante ipocrisie e da tutti le possibili accuse di giustificazionismo. Diciamolo! Così ci spogliamo anche dalla tentazione del politichese, dai “ma anche” e da tutti quei ragionamenti che suonano un po’ come l’Alice nel paese delle meraviglie. Il cosiddetto “Lodo Alfano”, finalmente per legge costituzionale, servirà a cautelare il Premier dalla reiterata tentazione della magistratura politicizzata di trascinarlo dinanzi ad una sentenza di condanna penale da parte di un Tribunale della Repubblica. Più chiaro di così!
E’ una legge, quindi, che ha un chiaro riferimento “ad personam”.
Ed ora che l’abbiamo detto possiamo anche ragionarci sopra. Sosteniamo subito che è una legge con un forte imprimatur politico e che è fondamentale in un Paese così poco normale come l’Italia. E diciamo, anche, che è un provvedimento costituzionale che recepisce la volontà dei costituenti di tutelare l’agibilità politica nel Paese dalle possibili tentazioni autoritarie di corporazioni giudiziarie.
La legge recepisce sostanzialmente ciò che nel 1947 era stata la preoccupazione dell’Assemblea Costituente. Con l’art 68 della Costituzione si intendeva infatti stabilire, nell’Italia democratica e postfascista, il primato della politica. La modifica nel 1993 dell’art 68, troppo frettolosa e con la pressione del clima giustizialista e forcaiolo alimentato dalla stagione di “tangentopoli” - di cui la storia si dovrà occupare per comprenderne anche gli aspetti eversivi – ha finito con l’avvelenare il confronto tra i partiti. L’uso politico della Giustizia ha leso la sovranità popolare, contrapponendogli la cultura del sospetto e la prevalenza dei poteri burocratici e giudiziari. Sono figlie di questo clima le stagioni dei complotti e dei ribaltoni, le congetture e le trappole televisive, i tentativi di spallata extraparlamentare, le fabbriche delle calunnie e persino il gossip.
Se continuassimo a ragionare, ci sembrerebbe più grave ciò che fa richiedere la presenza di una legge che tuteli dall’aggressione giudiziaria le alte cariche dello Stato, piuttosto che la “personalizzazione” della legge. Anche la lamentela sulla retroattività apparirebbe come un mero esercizio di ipocrisia. La legge, infatti, serve a tutelare le alte cariche dello Stato dalle aggressioni giudiziarie, e non dalla responsabilità dei reati commessi. Non serve affatto a cancellare i reati!
Senza retroattività non si risolverebbe nulla. Alla magistratura anti Premier non interessa il reato, e tanto meno il momento della sua realizzazione, ma solo il Premier e la sua eventuale condanna. Un Lodo Alfano che decorra da oggi non servirebbe a risolvere i problemi del presente. Non servirebbe a consentire al centrodestra di portare avanti la legislatura senza doversi occupare dei procedimenti a carico del Premier.
Ma è persino opportuno che si prenda atto che questa legge è anche oggettiva: varrà, infatti, per tutti coloro che potranno trovarsi nelle stesse condizioni dell’attuale Premier. Con la legge approvata, nessun magistrato potrà stabilire la legittimità o meno di una coalizione o di un leader a governare. Solo Il Parlamento potrà esercitare il diritto-dovere di togliere o confermare la fiducia al Presidente del Consiglio dei Ministri.
La legge, inoltre, si riflette con le legislazioni di altri paesi democratici, europei e non. E nei paesi dove la tutela per legge non esiste, di massima accade o che la magistratura sia espressione essa stessa di democrazia, cioè è eletta dal popolo, o che sia il governo ad esercitare un controllo diretto sulla magistratura. In Italia, invece, la magistratura è autonoma ed indipendente ed è governata da un organismo di autogestione, il CSM, in cui prevale la componente togata.
Il Lodo Alfano (Lodo è un termine improprio che si riferisce ad un accordo tra le parti che, come è invece evidente, non c’è) non è che l’ultima rielaborazione di quello che partì già nel 2002 come Lodo Maccanico e che nel 2003 il parlamentare della Margherita sconfessò quando, presentato come Lodo Schifani, trovò l’opposizione pregiudizialmente schierata. La motivazione della marcia indietro, sostanzialmente politica ed ispirata dalla stessa magistratura, fu data dalla modifica dell’art 1 che prevedeva la tutela temporanea delle alte cariche dello Stato per tutta la durata della legislatura, anziché per solo 6 mesi.
La legge, approvata dal Parlamento come legge ordinaria due volte, e con la seconda dopo aver recepito le motivazione della prima sentenza della Corte Costituzionale, è stata bocciata da quest’ultima per ben due volte: l’ultima sostenendo che fosse necessaria una legge costituzionale. Eccola!
Vito Schepisi

14 ottobre 2010

Santoro e più Santoro



Se Santoro fosse un conduttore di un programma televisivo privato, o un editorialista di una testata giornalistica, ed avesse mandato a quel paese il suo direttore di testata o il suo editore, senza trarne le dovute conclusioni, cioè senza farle seguire dalle dimissioni, avrebbe sbagliato due volte. La prima nell’aver approfittato della fiducia del suo datore di lavoro e del responsabile legale della testata e la seconda per non aver fatto seguire ad una posizione così dirompente le sue dimissioni.
Ma nel privato sarebbe stato costretto a trovarsi un altro lavoro.
Santoro, però, è un giornalista della Rai pubblica, un giornalista che gode di una sua posizione privilegiata. Non è uomo che accetta ciò che vale per tutti gli altri comuni mortali. Santoro non ammette i suoi errori, anzi non li ha mai considerati tali, perché per il suo egocentrismo ad aver torto sono sempre gli altri. Si sente forte perché è un vincitore, non di un concorso, ove la cosa sarebbe anche corretta per pretendere il diritto al mantenimento del suo posto di lavoro, ma di una causa contro la Rai. Un magistrato, infatti, ha ritenuto che la Rai fosse obbligata a dargli uno spazio in prima serata per legge, come se fosse, in una separazione legale, l’assegno di mantenimento di un coniuge verso l’altro.
Santoro uscì dalla Rai sbattendo la porta – facendosi però eleggere, senza dar molto di se, deputato europeo dei DS nel 2004 - a seguito di una striscia polemica che fece seguito alle parole del premier Berlusconi, nel 2002, in Bulgaria: « L'uso che Biagi... Come si chiama quell'altro? Santoro... Ma l'altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga ».
Lo sfogo del Premier aveva una sua ragione. Durante la campagna elettorale del 2001, la Rai presieduta dal Prof. Zaccaria si era schierata compatta contro l’allora leader dell’opposizione Silvio Berlusconi. Mai la programmazione della tv pubblica era mai stata così caratterizzata da un fuoco così concentrico e senza risparmio di munizioni contro il leader dell’opposizione. Persino la satira che prende normalmente di mira chi governa, in Italia faceva l’esatto contrario.
La vittoria dell’Ulivo di Prodi del 1996 aveva perso la sua forza propulsiva e soprattutto la sua compattezza, fino a dissolversi con la frattura del partito della Rifondazione comunista. Cossiga, per sostituire i voti di Bertinotti e per far eleggere Massimo D’Alema alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, aveva sospinto Mastella a formare un nuovo partito con parlamentari eletti tra le fila dell’opposizione. Lo scopo era quello di dar vita ad un governo che andasse a fare la guerra in Kosovo. Per la prima volta, così, nella storia del nostro Paese, un post comunista diventava Capo del Governo. E per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia diventava protagonista di un conflitto armato ed inviava i suoi aerei a bombardare obiettivi militari e strategici in Serbia.
Con D’Alema alla Presidenza del Consiglio si apriva anche una fase politica molto chiacchierata, tanto da far dire a Guido Rossi, già senatore della sinistra indipendente e più volte Presidente Telecom, che Palazzo Chigi si era trasformata in una Merchant Bank. E dopo una sconfitta elettorale alle regionali del 2000, D’Alema, visto dagli italiani come un Premier non eletto dal popolo, cedeva le armi e veniva sostituito da Giuliano Amato che, a sua volta, l’anno successivo veniva sostituito da Francesco Rutelli ( u bell’ uaglione, per usare la definizione di Prodi) per guidare la campagna elettorale del 2001. D’un colpo la sinistra bruciava ben 4 suoi uomini: Prodi, D’Alema, Amato e Rutelli.
La sinistra nel 2001 appariva in evidente difficoltà, e non solo per la carenza di una leadership autorevole, ma anche per mancanza di idee. Per allentare lo spettro della disfatta, la tv pubblica era stata schierata, compatta, a difesa del suo fortino e contro l’opposizione. Le parole di Berlusconi in Bulgaria intendevano, pertanto, stigmatizzare questo atteggiamento, per sottolineare l’insufficiente maturità democratica e l’intolleranza al pluralismo della sinistra. Ed è la stessa convinzione che resta tuttora ben radicata di una sinistra che, quando vince, non lascia spazio neanche ai sospiri, figurarsi all’informazione libera.
Dopo quello che fu definito “l’editto bulgaro” di Berlusconi, e dopo l’irrogazione nell’ottobre del 2002 a carico di Santoro di un provvedimento disciplinare del Cda Rai, per i contenuti di due puntate della trasmissione “Sciuscià”, il programma di Santoro non veniva confermato nel palinsesto Rai. Nel giugno del 2003, però, il Tribunale di Roma, accogliendo la causa di lavoro intentata dal conduttore, stabilì che gli fosse assegnato in Rai un programma «di approfondimento giornalistico a puntate collocato in prima o in seconda serata con dotazione delle risorse umane, materiali e tecniche, idonee ad assicurare la buona riuscita di esso, in misura equivalente a quella praticata per i programmi precedenti».
Per sciogliere questo “vincolo giudiziario”- è bene ricordarlo - e per concedere di liberarsi della sua presenza, al termine della scorsa stagione televisiva, Santoro chiedeva alla Rai di svenarsi con i soldi dei contribuenti.
E’ in virtù di questa sentenza che il conduttore di “Annozero” fa la voce grossa, come colui che ha un fratello campione di karatè e si consente di fare il bullo con tutti minacciando l’uso del fratello. La stessa voce grossa che fa tuttora, dopo che il Direttore Generale Rai Masi ha adottato un provvedimento di sospensione per 10 giorni dal video e dallo stipendio, per le parole offensive usate nei suoi confronti, per la “colpa” di aver richiesto, per le trasmissioni di approfondimento, maggior pluralismo ed un pubblico in studio non schierato. Regole che in democrazia sembrerebbero normali, ma non per il conduttore di “Annozero” che, evidentemente, preso dal suo “io”, le considera limitative alla sua libertà professionale.
Vito Schepisi

12 ottobre 2010

Un cerchio alla testa


Storie di intercettazioni e di risvolti inquietanti


C’è troppa sospetta distrazione in Italia: un po’ voluta ed un po’ ipocrita. La cronaca si sofferma sui pettegolezzi e sui risvolti più frivoli delle vicende, ma oscura la polpa. Restano così nel vago, o addirittura nell’indifferenza, i misteri che avvolgono le ragioni e gli orditi di quanto realmente accade. Nessuno che ci racconti i pericoli reali e che ci avverta su cosa ci sia dietro l’angolo.
Ciò che si bisbiglia al telefono può essere molto più inquietante del fastidio della signora Marcegaglia, dinanzi alla curiosità de Il Giornale sulle ragioni che abbiano spinto il Presidente di Confindustria all’impulso estivo di spezzare una lancia a favore di Fini.
E’ evidente la reiterata ipocrisia dei media. C’è l’amara sensazione dei due pesi e delle due misure nelle valutazioni degli episodi sottoposti alla lente di ingrandimento della cronaca politico-giudiziaria. Emergono pesanti dubbi sulla effettiva libertà ed indipendenza della stampa in Italia. Ma ci incapricciamo lo stesso nel voler comprendere il perché diventino azioni di dossieraggio alcune inchieste giornalistiche, ed invece motivo di giusta informazione altre. Ci sono così tante vicende su cui con troppa superficialità, creando la sensazione dell’inganno e dell’omissione, cala il sipario della distrazione.
Per tornare alla questione Marcegaglia - Il Giornale, almeno due episodi sembrano sfuggire alla riflessione di pur intraprendenti ed astuti cronisti di giudiziaria. Stranamente ci sono molte testate, soprattutto tra quelle più dinamiche nel raccontare i risvolti più torbidi delle presunte trame, e tra quelle sempre pronte ad ipotizzare le più ardite dietrologie collegate ad ipotesi affaristiche e di gestione del potere politico, burocratico, mediatico ed occulto, che in questo caso sorvolano sugli approfondimenti, o tutt’al più accennano alle questioni emerse con timidezza un po’ sospetta.
Il primo risvolto ha una visibilità grande quanto una casa: la Procura di Napoli intercettava o il Direttore ed il Vice Direttore del Giornale o ambienti di Confindustria. Tertium non datur!
La questione che ha dato origine alla massiccia operazione di polizia giudiziaria nei confronti de Il Giornale, del Direttore Sallusti e del Vice Direttore Porro, con perquisizioni personali, come se fossero camorristi, è emersa a seguito dell’ascolto delle conversazioni telefoniche tra Nicola Porro e Rinaldo Alpisella, collaboratore ed addetto stampa della signora Emma Marcegaglia, Presidente di Confindustria.
Ed in questa vicenda uno più uno fa due: non si scappa!
E’ evidente che le persone coinvolte, direttamente o indirettamente, siano state sottoposte ad indagini giudiziarie. Il Giornale o Confindustria, o Porro e Sallusti ed Alpisella erano “attenzionati”, come si dice in gergo, dai funzionari di polizia giudiziaria. Per essere intercettati legittimamente, infatti, ci deve essere l’iscrizione all’albo degli indagati a carico di almeno un soggetto collegato ed è necessario che un magistrato abbia disposto le intercettazioni, motivandole con indizi di reato nei confronti di altrettanto precisi individui, o che ricorrano situazioni di attenzione giudiziaria su soggetti giuridici diversi ma collegati alle persone intercettate. Dagli episodi se ne deduce solo che le intercettazioni siano state disposte dalla Procura di Napoli e che l’autorizzazione sia stata firmata da un magistrato. Chi è indagato allora e per cosa? Ma se c’era una attenzione giudiziaria, perché è stata bruciata per una “bufala” come le presunte minacce de Il Giornale?
Il secondo risvolto della vicenda è invece ancora più inquietante. Non si possono, infatti, interpretare le parole del braccio destro della Signora Marcegaglia come se uscissero da una banale conversazione al bar dello sport. L’associazione degli industriali italiani è forse qualcosa di più di una base su cui poggiano le fondamenta dell’attività produttiva nazionale. La Confindustria rappresenta i serbatoi di “carburante” della macchina Paese. Lavoro, fatturato, e quindi la parte più consistente del Pil, e lo stesso processo di sviluppo economico dipendono dalle politiche di Confindustria e dalla sua capacità, assieme alle forze sociali ed al Governo, di mediare nei rapporti tra lavoro, produzione, innovazione, ricerca, aggiornamento e sviluppo. L’associazione degli industriali italiani è un pilastro dell’economia italiana. Basti pensare che il nostro Paese è inserito nel G7, cioè tra i 7 paesi più industrializzati del mondo.
Alpisella nella sua intercettazione con Porro ha parlato di “ sovrastrutture che passano sopra la nostra testa” e si è chiesto se il suo interlocutore (Porro) riuscisse a comprendere le questioni D’Addario e Fini lasciando intendere a strutture ( “cerchio sovrastrutturale”) che tramano nell’ombra attraverso i poteri e gli strumenti che si pongono a loro disposizione per ostacolare l’azione di governo. “No, no fermati un attimo – dice, intercettato, Alpisella a Porro – tu non sai alcune cose. Purtroppo voi siete relegati lì, in via Negri senza comprendere …”.
Ebbene c’è tanta gente che non sa alcune cose e siccome sono cose che ricadono sulla testa di tutti gli italiani le vorrebbe conoscere. Quali sono i poteri, che Confindustria mostra invece di conoscere, che passano sulla testa di tutti e che manovrano la politica e manipolano le scelte degli elettori? Chi c’è dietro Fini? Chi dietro Casini? Chi ha scatenato la D’Addario? Chi comanda il “cerchio sovrastrutturale”?
Ma è possibile che la stampa che si dice libera, e che manifesta contro il presunto bavaglio di Berlusconi, non riesca a porsi queste domande?
Vito Schepisi

02 ottobre 2010

La violenza ha sempre i suoi mandanti


Dagli episodi di violenza e da tutte le manifestazioni di inciviltà c’è sempre da trarre una morale. Sappiamo che la storia si ripete. Il motivo è molto semplice. La storia siamo noi con le nostre debolezze, il nostro umore, il nostro carattere, i nostri pregi, i nostri difetti: la storia siamo noi soprattutto con le nostre idee.
C’è un filo conduttore che lega parole ed azioni, e quando le parole passano quel limite immaginario del normale confronto tra idee e pensieri diversi, si trasformano in pietre. Ed arriva il pericolo. Quando le parole scaldano gli animi, quando si manifestano le prime azioni di intolleranza, come, ad esempio, è accaduto di recente alla festa del PD, e se ai primi sintomi di violenza c’è chi minimizza, se non addirittura giustifica, è facile che si scateni la fantasia esasperata di una manovalanza politica che è pronta a percepire l’avversario non più come chi ha idee diverse, ma come un nemico da abbattere. E’ facile, così, che dalla barbarie verbale si passi a quella della reazione violenta. Accade sempre così, ma non se ne vuole mai prendere atto.
Nella sinistra italiana non s’è compiuta ancora l’opera di democratizzazione della base. I vertici hanno somatizzato il pluralismo e la democrazia liberale come una necessità per non esser tagliati fuori dalla storia, ma nella base c’è ancora tutta l’intolleranza di una cultura che non ammette fallimenti, che non ammette alternative, che non ammette neanche la possibilità che un’idea diversa sia espressa, e figuriamoci l’ammissione che possa essere migliore della propria. C’è chi ha un’idea “messianica” e giustizialista della politica, e quasi sempre motivata da pregiudizi manichei.
In Italia si respira una cattiva aria di intolleranza. Il pregiudizio è ritornato con più vigore a prendere il posto della ragione. Le parole superano il confine tra un acceso confronto politico e l’insinuazione. L’ingiuria prende il posto della critica e del dissenso ragionato. Alcune questioni si prendono troppo sul serio, molto più della consistenza effettiva dei contenuti in discussione. L’intolleranza emerge quando non ci sono idee proprie e, ingigantendo le criticità, si vuole solo demolire quelle del proprio avversario.
Produrre azioni di governo, anche sbagliando, è sempre meglio, però, che mantenere in piedi ciò che non funziona. Il riformismo è l’unico metodo democratico per adeguare ai tempi che mutano ed ai nuovi bisogni l’assetto sociale e strutturale del Paese, ma è un concetto che non abbiamo mai sentito affermare da Bersani o dalla Bindi, tanto meno da Di Pietro, per quanto possa contare una sua opinione.
Le trasmissioni di approfondimento politico in tv sembrano dei ring. Verrebbe persino da sospettare che ci sia un gioco delle parti, per fare “audience”, ben sapendo che le risse in tv finiscono per avere notevoli picchi di ascolti. Ognuno ci mette qualcosa di suo e si perde di vista, invece, il motivo della contesa politica e si oscura la ragione stessa dell’informazione. Ma è questa la vera censura a danno dei cittadini, perché si perdono di vista le motivazioni del confronto tra soluzioni diverse.
Sui modi diversi di pensare alla sicurezza, alla giustizia, all’economia, all’immigrazione, ai confronti tra e nei partiti, non ci sono solo motivi di sopraffazione o di vendetta, ma anche comprensibili motivi di percezioni diverse. Ciò che è sbagliato è il voler riempire di fondamentali visioni ideologiche queste diverse percezioni. Questo metodo, come abbiamo visto in passato, e come rischiamo di vedere in futuro, può portare solo a niente di buono.
L’esasperazione dei toni è ritornata con maggiore virulenza da quando il centrodestra ha vinto, anche largamente, le elezioni politiche del 2008. Da quel momento sono subito venute meno le parole di Veltroni - fatto fuori ben presto - sulla reciproca legittimazione delle scelte democratiche degli elettori. Alla vigilia delle elezioni del 2008, l’unica voce in contrasto alla legittimazione era stata quella di Di Pietro.
Tralasciando le opinioni sulla sincerità delle parole di Veltroni, e pensando che sia solo frutto della forza onnicomprensiva del suo “maanchismo”, si è fatto strada più di un sospetto che Di Pietro sia stato usato dal PD, ma anche che il molisano non si sia limitato a farsi usare, ma ad abusare a sua volta.
Di certo viene usato in alcune trasmissioni televisive per accendere le micce della deflagrazione verbale. Chi lo utilizza, come ospite quasi fisso, non lo fa per offrire contributi di approfondimento di uno studioso dei fenomeni politici o per avvalersi di competenza giuridica e di pacato raziocinio per affrontare questioni di etica politica e di attualità giudiziaria, ma lo fa per usarlo come una clava contro chi nutre idee diverse da una “verità” politica che invece si vorrebbe far emergere. Tutto sommato, ad esempio, Santoro è anche così onesto da affermare senza nascondersi d’essere un fazioso. Un vero istrione!
Se traessimo una morale da alcune trasmissioni televisive, potremmo dire che per far del male a qualcuno non sia necessario bastonarlo con una mazza, lo si può fare in tante altre diverse maniere. Si può far del male ad un uomo scatenandogli contro un animale feroce, assoldando un sicario o, in modo più sottile, usando un forsennato ignorante che sgrammaticato lo insulti e lo diffami in tv indicandolo come il male assoluto o come il nemico politico da rimuovere. Si può fare (il male) anche contro tutti i suoi sostenitori e maggiormente contro chi, direttamente o indirettamente, in tv si contrappone ai metodi della sopraffazione.
Se poi, infatti, tra i telespettatori, c’è chi ritiene che sia necessario fare anche di più, accade che alcuni giornalisti ed alcuni politici abbiano bisogno della scorta, e che qualche volta si rischia che ci scappi il morto.
Vito Schepisi