22 novembre 2011

L'ICI sulla prima casa è macelleria sociale

Al precedente governo c’era chi attribuiva l’incapacità di recuperare una montagna di soldi (alcuni sparavano cifre da 4/500 miliardi di Euro l’anno) non riscossi per l’evasione fiscale e contributiva, per l’economia sommersa, per la criminalità organizzata, per gli sprechi, per le tangenti e per la gestione clientelare e affaristica della politica.
Ora di tutto questo nessuno parla più. Sono spariti tutti quelli che ritenevano il governo precedente accondiscendente a una politica a danno dei poveri diavoli.
Se non ha moltiplicato i pani, a Monti si deve, però, attribuire il merito di aver fatto mettere i piedi per terra a tanti demagoghi di professione.
Ora si parla di reintrodurre l’Ici, ed anche l’Irpef, sulla prima casa (qui) .
Nessuno parla più della gente modesta, delle famiglie e dei lavoratori chiamati a pagare. Anzi le notizie che circolano vanno in tutt’altra direzione, quasi a far intendere che sia giusto far pagare a chi possiede una casa. Come se l’avesse furbescamente acquisita. Come se per tantissimi la casa di proprietà non sia stata il frutto di sacrifici, di risparmi e di oneri finanziari pagati (anche per 30 anni) per l’ammortamento delle rate di mutuo.
I media parlano di Ici da reintrodurre, come se i proprietari di immobili al momento non siano già sottoposti a questa e ad altri balzelli di tasse e tributi.
L’ICI che si vorrebbe reintrodurre, è bene che si chiarisca, è quella sulla prima casa: quella di proprietà in cui vivono generalmente la gran parte delle famiglie italiane. L’imposta che si vorrebbe ripristinare graverebbe su un bene primario.
L'ici che è stata eliminata (da Berlusconi) è, infatti, proprio quella a carico dei proprietari della prima casa, purché non in categoria di lusso. In definitiva oggi non paga l'ICI chi abita la casa di proprietà che abbia caratteristiche di edilizia economico-residenziale.
Ripristinare questa imposta è, pertanto, una “mazzata” per chi ha redditi medio bassi. I possessori di casa, che la utilizzano come propria abitazione, rappresentano l'assoluta maggioranza dei proprietari di case.
Questo per la chiarezza. l’ICI sulla prima casa è da ritenersi, pertanto, “macelleria sociale”.
Per chi ha redditi medio alti, invece, e abita in una casa non di lusso (se in categoria di pregio la paga sempre), l'ICI rappresenta solo un ulteriore, ma minimo impegno fiscale.
Questo balzello, se sarà introdotto, andrà essenzialmente a danno delle famiglie e dei consumi. Sarà anche una imposizione fiscale dagli effetti depressivi. Andrà direttamente a incidere sui consumi, sottraendo risorse alle famiglie.
Potrebbe, inoltre, agire negativamente sul mercato dell’edilizia, già in difficoltà per mancanza di liquidità.
Con una spesa pubblica che rappresenta il 50% del Pil, la ricetta non può essere quella di aumentare le tasse, per tenerne testa, ma di ridurre le spese.
L'ICI, che sta per Imposta Comunale sugli Immobili, è utilizzata per le spese dei Comuni. Questi ultimi, spendono, generalmente, oltre le possibilità, e sprecano tantissimo. Alcuni hanno un numero di dipendenti spropositato rispetto alle funzioni svolte. Si servono di consulenti per lo più legati ai partiti e dilapidano una barca di soldi per spese di rappresentanza e per pubblicità istituzionale.
Il buon senso vorrebbe che si intervenisse per razionalizzare e tagliare, piuttosto che per distribuire più soldi.
Vito Schepisi

16 novembre 2011

La ragione degli avvoltoi


Il 16 novembre, con Monti che incontra il Presidente della Repubblica, scioglie la riserva e presenta la lista dei ministri, si consumerà una delle pagine più controverse della Repubblica Italiana.

Si aveva la convinzione che la nostra Costituzione fosse oramai consunta e inadeguata. Si pensava che nella sua parte seconda, dopo esser stati sanciti, nella prima, i principi fondamentali di un Paese libero e democratico, sebbene con tutte le incrostazioni retoriche che contiene, la Carta Costituzionale dovesse essere rivisitata per assegnare al popolo, prima che ai partiti, la sua sovranità, ed alla democrazia, attraverso l’esercizio della politica e la inviolabile volontà del popolo, prima che ai servizi ed alle funzioni dello Stato, la priorità legislativa e l’autorevolezza della sua rappresentatività.

Si pensava che anche all’Italia, passata l’emergenza del dopo guerra e quella della reciproca diffidenza, che l’aveva vista dividersi in due differenti strategie di sviluppo, fosse data la possibilità di dotarsi di un governo autorevole per determinazione e capacità d’intervento, in un quadro di alternanza delle volontà e dei sentimenti popolari.

Si osserva, invece, che anche questa volta non è stato così. E’ stato assegnato quasi d’imperio, con la giustificazione dei mercati in tensione, per iniziativa della Presidenza della Repubblica, un Presidente del Consiglio, fatto senatore a vita con scelta unilaterale, repentina, inutile, oltre che stridente con i presupposti del rigore economico e della riduzione della spesa.

La politica è consenso e proposta. La politica è discussione sui provvedimenti che servono ad amministrare il Paese e a rendere servizi e condizioni di vita confortevoli ai suoi cittadini. La politica non è, invece, lotta alle persone e potere di veto. Non è diffamazione, non è offesa, né contrapposizione pregiudiziale. Non può essere volgarità e violenza. Nessun fine può giustificare un mezzo rozzo e intollerante. Ma è ciò che si è visto in Italia in questi ultimi tre anni.

Gli elettori vanno rispettati sempre. Perché sono la sostanza della democrazia. Nessuno può dire, senza ricadere nell’assolutismo massimalista, che le scelte del popolo siano stupide e inaccettabili e ritenerle così non valide, come, appunto, è avvenuto in Italia. Nessuno può assumersi la responsabilità civile di disfare ciò che nelle urne è stato messo insieme. Nessuno in democrazia dovrebbe avere il diritto di delegittimare la libertà di scegliere.

Devono essere i sentimenti dei cittadini a prevalere, non quelli dei funamboli della politica e dei trasformisti. E la politica era, e deve continuare ad essere, non altro che la sintesi e la razionalizzazione di questi sentimenti da trasformare in contenuti di governo.

La sintesi dei sentimenti popolari non la può fare assolutissimamente il Presidente della Repubblica che non è espressione del popolo, e pertanto non legittimato ad interpretarne la volontà, ma solo un nominato dal Parlamento attraverso il consueto gioco dei partiti. La figura in Costituzione del Presidente della repubblica è quella del “notaio” che certifichi l’esistente e la volontà del Parlamento. E’ quest’ultimo, infatti, che l’ha nominato. Tra le sue prerogative c’è quella di sciogliere uno o i due rami del Parlamento, quando nelle Camere viene meno una convergente volontà politica e quando gli intenti programmatici non siano condivisi da una costituita maggioranza. Tra le sue prerogative non c’è quella di sostituirsi al popolo e di scegliere, in sua vece, l’indirizzo politico.

Non si pensava assolutissimamente che la Costituzione potesse essere ancora una volta violentata, dopo l’esperienza del 1995, con il maneggio di Scalfaro, il peggior Presidente della Repubblica che l’Italia abbia avuto.

Non si pensava che si potesse togliere ai suoi costituiti, cioè ai cittadini, attraverso l’espressione elettorale, la prerogativa di compiere le scelte per il governo del Paese.

Nella sostanza, e a prescindere dal merito, si lamenta l’inopportunità di un processo autoritario che sostanzialmente attribuisce un discutibile premio di ragione a chi inganna gli elettori. Sembra che si sia premiata l’azione di chi ha costantemente lavorato per il proprio interesse politico o personale, ma prevalentemente contro il Paese.

Non si sa se il Governo Monti risolverà i problemi italiani, soprattutto sul versante della fiducia dei mercati, della riduzione della spesa, dello sviluppo industriale, dell’occupazione, della crescita economica e della riduzione del debito. E’ l’augurio che gli facciamo nell’interesse di tutti.

Questo Governo, però, nasce con un debito nei confronti di tutti gli italiani: un debito di legittimità e di chiarezza. La ragione degli avvoltoi non può coincidere con la ragione dei cittadini.

Gli italiani moderati sapranno ancora una volta capire e mantenere la fiducia nelle Istituzioni, come hanno sempre fatto. Lo faranno nella convinzione che la prepotenza dalla sua non abbia alcuna ragione e che, alla prima occasione, possa essere ancora una volta respinta.

Vito Schepisi

04 novembre 2011

Clima da Marcia su Roma

Come con i mercati, in cui l’estensione dell’offerta fa scendere il valore dei prodotti, così è per tutto il resto. In particolare è così anche per le mode, per i principi e per i valori fondanti di una comunità.
C’è troppa confusione di offerta. C’è un’inflazione di soggetti che prospettano il bene del Paese, pensando soprattutto agli interessi propri. Ne fanno le spese il confronto sereno, la democrazia, il rispetto delle persone, la dignità della propria autonomia di pensiero e l’onestà intellettuale. E, con tutto questo, ne fanno anche le spese, purtroppo, la semplificazione e la trasparenza politica, assieme alle prospettive per il benessere delle generazioni future.
Ciò che è ‘troppo’ finisce per diventare invisibile. Così, come per l’aria che si respira, anche la sensazione di libertà appare invisibile, tanto da lasciare pensare che la libertà sia una fonte inesauribile da cui poter sempre attingere.
Tutto questo si chiama abitudine, come lo è il ridondare dei luoghi comuni in cui spesso si rifugiano l’ignoranza e la mancanza di autonomia di giudizio. Con l’abitudine anche all’orrore e alla strumentalizzazione delle passioni si assottiglia, però, lo spessore etico di un’intera società e si disperde, assieme al ricordo, anche la funzione educatrice della storia.
Non si può fare l’abitudine alle aggressioni, alla faziosità e alla violenza, senza doverne poi pagare le conseguenze.
La civiltà si sviluppa, invece, facendo tesoro delle esperienze fatte nelle passate stagioni politiche. Le nuove classi dirigenti, a prescindere dalle scelte e dai programmi proposti, dovrebbero prendere atto della storia del proprio popolo, e di quella articolata nell’insieme più largo delle esperienze sociali vissute ai quattro angoli della terra.
Dallo studio delle realtà, in cui siano emerse le sofferenze e le strisce di difficoltà sociali, lasciate poi in eredità alle nuove generazioni, la classe politica contemporanea, nell’interesse generale, dovrebbe trarre le giuste motivazioni per mettere in guardia i giovani dalle contrapposizioni più aspre, per impedire che si ripetano quegli episodi di barbarie in cui la ferocia di pochi finisce con alimentare la follia collettiva.
La violenza non è mai circoscrivibile nell’episodio brutale di una circostanza, ma ha dietro di se un retroterra di condizioni e d’istigazioni a comportamenti che indirettamente la sollecitano. Nasce dall’assimilazione dei toni e dall’offerta di bersagli già preparati. In un’era mediatica i bersagli della violenza assumono lineamenti ancor più precisi quando, tutte insieme, l’informazione, la giustizia e la politica si concentrano a indicare il nemico del popolo, ovvero un colpevole per definizione. E’ il metodo tipico delle dittature in cui si usa criminalizzare l’avversario politico.
E’ grottesco osservare come, in uno sguardo d’insieme, oggi, si mescolino le esperienze e le abitudini persino con gli “status symbol” di una generazione. La noia si trasforma nella ricerca di sensazioni forti. Gli ingredienti sono quelli di sempre: dall’alcol alla droga, dal sesso alla violenza. In un contesto di sballi, tra menù di papatine fritte e di panini all’hamburger, si discutono le strategie delle manifestazioni, si accordano gli slogan delle marce e s’individuano i bersagli della protesta.
Tra un sorso di coca cola e gli stereotipi dell’abitudine si premedita, così, la violenza. Un noioso ripetitivo corollario di certezze acquisite senza conoscere, non certo la reazione a un bisogno avvertito, né la sensazione di situazioni di sofferenza sociale, fanno da cornice al crescere di una nuova ragione di sentirsi protagonisti e di battersi contro qualcosa o qualcuno.
Non ci sono analisi sulle responsabilità, di solito più articolate e complesse di quanto non appaiano, ma solo la ricerca di un pretesto per scaricare sul presente le colpe di generazioni politiche e di scelte sociali passate. Una furbizia indecente che ha spregiudicati mandanti. In Italia, non tutte le follie hanno fatto i conti con le sentenze della storia. E’ del tutto incompiuto un processo plurale che serva a evitare nuove catastrofi. C’è chi si è sottratto in passato e che vuole ancora sottrarsi al giudizio della storia.
Manca un processo di analisi che serva a smascherare i falsi e gli ipocriti e a comprendere le responsabilità del presente. E’ mancato un giudizio politico sugli steccati ideologici che rischiano tuttora di fomentare una guerra civile. Ce ne sarebbe di materia per essere indignati. Non si può, però, continuare a intervenire a piedi uniti sulle gambe della storia, senza vedersi estrarre il cartellino rosso e l’espulsione dal campo di gioco. E’ un gioco codardo di chi sa e tace e di chi trova più conveniente chiudere gli occhi e seguire, negli agi e con il proprio tornaconto, il corso delle cose.
Oggi, ad esempio, è di moda individuare in Berlusconi la ragione di un malessere complessivo del Paese. Nessuno, però, sa darne una motivazione precisa. A parte l’aggressione giudiziaria di chi lo vorrebbe colpevole di tutto - non riferibile, però, alla sua conduzione del Governo - di quale misfatto politico sarebbe colpevole il Premier?
Oggi l’attenzione è rivolta contro l’Uomo di Arcore, ieri è toccato a Bettino Craxi, ancor prima a Forlani e Andreotti. Domani a chi capiterà?
E’ come se ci fosse una regia che faccia partire all’unisono tutta una serie di comportamenti: lo stesso metodo della criminalità organizzata. Come fa la mafia, quando attiva tutti i suoi referenti palesi e occulti per “mascarare” chi dà loro fastidio, per farlo apparire sporco, brutto e cattivo. Per isolarlo e fargli perdere credito. Per colpirlo!
Ci sono oggi tutti i sintomi di un attacco al buon senso e alla stessa democrazia. La sensazione della “mascarata” si fa sempre più estesa e profonda. E’ un attacco scellerato che danneggia il Paese e che si avvale, com’é capitato altre volte, anche della presenza di chi tradisce.
Si avverte un clima antidemocratico, illiberale, autoritario alimentato dai nuovi “fascisti” che sono pronti a una nuova “Marcia su Roma”.
Vito Schepisi