04 novembre 2011

Clima da Marcia su Roma

Come con i mercati, in cui l’estensione dell’offerta fa scendere il valore dei prodotti, così è per tutto il resto. In particolare è così anche per le mode, per i principi e per i valori fondanti di una comunità.
C’è troppa confusione di offerta. C’è un’inflazione di soggetti che prospettano il bene del Paese, pensando soprattutto agli interessi propri. Ne fanno le spese il confronto sereno, la democrazia, il rispetto delle persone, la dignità della propria autonomia di pensiero e l’onestà intellettuale. E, con tutto questo, ne fanno anche le spese, purtroppo, la semplificazione e la trasparenza politica, assieme alle prospettive per il benessere delle generazioni future.
Ciò che è ‘troppo’ finisce per diventare invisibile. Così, come per l’aria che si respira, anche la sensazione di libertà appare invisibile, tanto da lasciare pensare che la libertà sia una fonte inesauribile da cui poter sempre attingere.
Tutto questo si chiama abitudine, come lo è il ridondare dei luoghi comuni in cui spesso si rifugiano l’ignoranza e la mancanza di autonomia di giudizio. Con l’abitudine anche all’orrore e alla strumentalizzazione delle passioni si assottiglia, però, lo spessore etico di un’intera società e si disperde, assieme al ricordo, anche la funzione educatrice della storia.
Non si può fare l’abitudine alle aggressioni, alla faziosità e alla violenza, senza doverne poi pagare le conseguenze.
La civiltà si sviluppa, invece, facendo tesoro delle esperienze fatte nelle passate stagioni politiche. Le nuove classi dirigenti, a prescindere dalle scelte e dai programmi proposti, dovrebbero prendere atto della storia del proprio popolo, e di quella articolata nell’insieme più largo delle esperienze sociali vissute ai quattro angoli della terra.
Dallo studio delle realtà, in cui siano emerse le sofferenze e le strisce di difficoltà sociali, lasciate poi in eredità alle nuove generazioni, la classe politica contemporanea, nell’interesse generale, dovrebbe trarre le giuste motivazioni per mettere in guardia i giovani dalle contrapposizioni più aspre, per impedire che si ripetano quegli episodi di barbarie in cui la ferocia di pochi finisce con alimentare la follia collettiva.
La violenza non è mai circoscrivibile nell’episodio brutale di una circostanza, ma ha dietro di se un retroterra di condizioni e d’istigazioni a comportamenti che indirettamente la sollecitano. Nasce dall’assimilazione dei toni e dall’offerta di bersagli già preparati. In un’era mediatica i bersagli della violenza assumono lineamenti ancor più precisi quando, tutte insieme, l’informazione, la giustizia e la politica si concentrano a indicare il nemico del popolo, ovvero un colpevole per definizione. E’ il metodo tipico delle dittature in cui si usa criminalizzare l’avversario politico.
E’ grottesco osservare come, in uno sguardo d’insieme, oggi, si mescolino le esperienze e le abitudini persino con gli “status symbol” di una generazione. La noia si trasforma nella ricerca di sensazioni forti. Gli ingredienti sono quelli di sempre: dall’alcol alla droga, dal sesso alla violenza. In un contesto di sballi, tra menù di papatine fritte e di panini all’hamburger, si discutono le strategie delle manifestazioni, si accordano gli slogan delle marce e s’individuano i bersagli della protesta.
Tra un sorso di coca cola e gli stereotipi dell’abitudine si premedita, così, la violenza. Un noioso ripetitivo corollario di certezze acquisite senza conoscere, non certo la reazione a un bisogno avvertito, né la sensazione di situazioni di sofferenza sociale, fanno da cornice al crescere di una nuova ragione di sentirsi protagonisti e di battersi contro qualcosa o qualcuno.
Non ci sono analisi sulle responsabilità, di solito più articolate e complesse di quanto non appaiano, ma solo la ricerca di un pretesto per scaricare sul presente le colpe di generazioni politiche e di scelte sociali passate. Una furbizia indecente che ha spregiudicati mandanti. In Italia, non tutte le follie hanno fatto i conti con le sentenze della storia. E’ del tutto incompiuto un processo plurale che serva a evitare nuove catastrofi. C’è chi si è sottratto in passato e che vuole ancora sottrarsi al giudizio della storia.
Manca un processo di analisi che serva a smascherare i falsi e gli ipocriti e a comprendere le responsabilità del presente. E’ mancato un giudizio politico sugli steccati ideologici che rischiano tuttora di fomentare una guerra civile. Ce ne sarebbe di materia per essere indignati. Non si può, però, continuare a intervenire a piedi uniti sulle gambe della storia, senza vedersi estrarre il cartellino rosso e l’espulsione dal campo di gioco. E’ un gioco codardo di chi sa e tace e di chi trova più conveniente chiudere gli occhi e seguire, negli agi e con il proprio tornaconto, il corso delle cose.
Oggi, ad esempio, è di moda individuare in Berlusconi la ragione di un malessere complessivo del Paese. Nessuno, però, sa darne una motivazione precisa. A parte l’aggressione giudiziaria di chi lo vorrebbe colpevole di tutto - non riferibile, però, alla sua conduzione del Governo - di quale misfatto politico sarebbe colpevole il Premier?
Oggi l’attenzione è rivolta contro l’Uomo di Arcore, ieri è toccato a Bettino Craxi, ancor prima a Forlani e Andreotti. Domani a chi capiterà?
E’ come se ci fosse una regia che faccia partire all’unisono tutta una serie di comportamenti: lo stesso metodo della criminalità organizzata. Come fa la mafia, quando attiva tutti i suoi referenti palesi e occulti per “mascarare” chi dà loro fastidio, per farlo apparire sporco, brutto e cattivo. Per isolarlo e fargli perdere credito. Per colpirlo!
Ci sono oggi tutti i sintomi di un attacco al buon senso e alla stessa democrazia. La sensazione della “mascarata” si fa sempre più estesa e profonda. E’ un attacco scellerato che danneggia il Paese e che si avvale, com’é capitato altre volte, anche della presenza di chi tradisce.
Si avverte un clima antidemocratico, illiberale, autoritario alimentato dai nuovi “fascisti” che sono pronti a una nuova “Marcia su Roma”.
Vito Schepisi



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