27 dicembre 2011

Giorgio Bocca non c'è più

A funerale avvenuto, anche la pietà per la morte diventa cronaca. E quando muore un uomo che ha percorso la storia, lasciandone, comunque, marcata o meno, una traccia, anche il dissenso e la critica assumono le sembianze di un tributo da assolvere per ricordare la persona scomparsa.

E la storia si scrive su ciò che è stato di buono o di cattivo, di nobile o meno. Si scrive sui sentimenti, sui lasciti, sulle sensazioni diffuse. Si scrive per chi poi resta e vuole capire.

Con Bocca è scomparso un giornalista comodo.

E’ morto un uomo che in fondo serviva a tutti. Serviva agli amici e ai nemici.

Agli uni, agli amici, è servito come l’esempio di un giudizio autorevole, simile ad una condanna da reiterare fino alla noia, in particolare se tipizzata su un singolo individuo. Una pronuncia che cade greve, senza appelli.

In quel mondo che, formato nel fascismo, è maturato nell’ideologia successiva dell’antifascismo, infatti, non esiste un processo di appello, e la condanna è emessa senza che sia persino legittima la difesa. Ed è come se da quel giudizio si debba trarre tutta la sintesi complessiva del merito della stessa esistenza del giudicando.

Passa per il tratto storico di un giudizio che, irrorato al di fuori di un vero tribunale, per le personalità più discusse, diventa un peso da portare a vita. Un giudizio che finisce con l’essere più mortificante di quello espresso dopo un processo penale che, come si sa, oggi, passa per essere sempre meno attendibile. Celebrato in quei luoghi dove non si fa più Giustizia.

Agli altri, ai nemici, serve come esempio negativo di un metodo che non riesce a rilasciare con una pacata ragione l’idea di una scelta diversa. Come è per il pregiudizio che si rivela allorquando viene meno sia la forza di comprendere che il coraggio dell’autoironia e del confronto critico.

La storia è come uno stagno.

Qui si fermano le acque limacciose che la retorica trasforma in flussi di eroismo e di viltà. Ed è lo stesso stagno che ribalta il riflesso della storia, mutandone appena il soggetto osservatore.
Ma, in uno stagno, la risultante che compone le forze che si muovono è nulla: tutto resta così ineffabilmente fermo.

Nelle acque stagnanti si riflettono, invece, le immagini dei profili rugosi, per sopraggiunta vecchiaia, di tutte le giustificazioni di comodo che chi prevale antepone alla storia che vuol raccontare. E tra le immagini sono compresi i riflessi di quei carri su cui salgono sempre nuovi vincitori ad ogni giro di ruota.

Bocca è stato un maestro di ipocrisia. Ha fatto del pregiudizio, maturato nell’astiosità preconcetta, il principio immanente del suo modo di rappresentare le circostanze presenti, come rappresentazione salvifica nel giustificare gli episodi e i comportamenti del passato.

Non irriverente, piuttosto maleducato, iroso, offensivo, ingiusto, quasi violento. Mai misurato.

E’ morto un antifascista che non è mai stato contro l’arroganza, l’ingiustizia, il sopruso.

E’ morto un partigiano che era stato fascista e che ha continuato ad essere reazionario, elitario, superbo.
E’ morto Giorgio Bocca che ha continuato a fare il partigiano scambiando per oppressione anche il confronto delle idee, la critica, la verità storica, la discussione, le scelte contrarie, la libertà di tutti, come quella dei meridionali che godevano, ingiustamente a suo vedere, della libertà di esistere e di pensare.

Vito Schepisi


14 dicembre 2011

In Puglia si allarga lo spread tra le chiacchiere e i fatti


Se n’è accorto anche il Presidente della Regione Puglia che è finito il tempo di utilizzare le risorse economiche dei contribuenti per “scialare”.
Ove mai fosse mai stato il tempo delle cicale a beneficio dei cittadini pugliesi, nessuno in passato ha avuto il modo di accorgersene.
Quello di “scialare” è un privilegio che è stato concesso a pochi. E, tra questi, a tanti amministratori che non si sono certamente ritratti dal fare delle Istituzioni e del Territorio pugliese un proprio personale campo di battaglia da utilizzare, sia per accelerare le carriere politiche e sia per alimentare gli affari privati, come più volte la stessa magistratura, seppur lacunosa nel fare piena luce su fatti e circostanze, ha, via via, rilevato.
Quella che dice di voler percorrere il tragitto che va dalla spensieratezza delle cicale all’impegno per la parsimonia delle formiche, però, è la stessa giunta che governa la Puglia dal 2004.
E’ quella che ha visto i giovani emigrare, le fabbriche chiudere, l’agricoltura abbandonata, i politici usare le risorse pubbliche per rafforzare il proprio insediamento politico sul territorio.
E’ la stessa maggioranza, con lo stesso Governatore, che ora si ripresenta per annunciare le linee programmatiche per il 2012 e che dice, in piena consapevolezza della menzogna, di non voler mettere le mani in tasca ai cittadini.
Dalla mortificazione del territorio, ferito dall’incuria e dagli insediamenti di pale eoliche che ne hanno violato l’originale bellezza, alla indifferenza verso i giovani, gli anziani, i malati, verso l’impresa ed il lavoro. E’ questo in sintesi il bilancio degli ultimi 7 anni.
L’era Vendola dovrà finire per rivedere rinascere la Puglia.
In poco tempo, il “poeta” pugliese ha trasformato la Regione da una fucina fervida di iniziative, da cui aver modo di partire per sviluppare lavoro e per dare esito alla domanda dei giovani, ad un arido deserto di promesse mancate e di speranze disperse.
In così poco tempo è stata resa arida, per ignoranza, per indifferenza, per cinismo e per trasporto ideologico, una terra su cui erano già stati piantati i semi del nuovo raccolto.
Per il 2012, però, ai cittadini pugliesi, nonostante i fallimenti, senza soluzione di continuità con il passato, arrivano promesse e nuovi impegni, come se una stessa scena possa rappresentare l’immagine sia di una terra splendida per storia, arte, paesaggio e prodotti tipici e sia quella dei servizi degradati, delle risposte insufficienti, del lavoro precario, delle truffe e dei costi onerosi.
Il Presidente Vendola è un Giano Bifronte guarda sia alla sua poltrona di Governatore e sia fuori dei confini regionali, promettendo al resto del Paese la stessa immagine “poetica” della politica delle “chiacchiere”, mentre per il presente ai pugliesi, puntuale come l’oste, presenta il conto da pagare.
Ogni anno è sempre la stessa cosa, ma come si diceva un tempo, quando il Banco di Napoli gestiva nelle nostre città meridionali il Monte dei Pegni: "Chiacchiere e tabacchere e' lignamm o' Banco 'e Napule nun ne 'mpegna!" (Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non ne impegna).
Tante, tantissime chiacchiere di cui il Nostro è maestro ma lo “spread” tra le sue parole e i suoi fatti, per usare un’espressione di moda e a lui cara, invece di ridursi si allarga sempre di più. Nonostante le affermazioni contrarie, sono anni che la Regione mette le mani in tasca ai cittadini pugliesi.
La Puglia è la Regione più cara d’Italia. I maggiori costi, gli sprechi ed i buchi della sanità sono pagati dai suoi cittadini. Vendola e il suo assessore non dicono che in puglia si paga: 0,25 cent/lt in più di accise sui carburanti (per autotrazione e per riscaldamento); un’addizionale IRAP sul valore della produzione netta delle imprese (molte sono in difficoltà per la crisi dei mercati e per mancanza di liquidità) del 4,82%; un addizionale sull’ irpef dell’1,53%, o dell’1,73, sui redditi a seconda che questi siano, rispettivamente, inferiori o superiori a 28.000 euro. A tutto questo si aggiungono i ticket sanitari sulle analisi, sui farmaci e sulle ricette (un euro a ricetta) e si estende il taglio della fascia di esenzione, allargandosi ai portatori di patologie invalidanti.
I tempi non consentano di “scialare”. Le difficoltà del Paese sono oggettive. Il debito sovrano dovrà imporci un taglio netto con le cattive abitudini del passato. I costi sono importanti e andrebbero tagliati laddove sia possibile farlo.
In questa realtà sarebbe stato più opportuno alleggerire, ove possibile, l’onere che ricade sulle fasce più deboli. Ma non sembra sia questa la logica che ispiri il bilancio di previsione 2012 per la Puglia. Nessun taglio alle spese di gestione, nessun taglio agli organici, né al numero dei dirigenti, nessun taglio alle spese di rappresentanza e di pubblicità istituzionale, nessun taglio all’effimero (tanto), né alle spese correnti e nessun programma di tagli alle sponsorizzazioni e ai contributi, in sostanza non è cambiato niente rispetto al recente passato.
Vito Schepisi

11 dicembre 2011

Shut down Minzolini

Ancora una volta la "presunta giustizia" interviene per rimuovere chi è sgradito. In questo caso un Direttore di testata che in Rai non ha accettato compromessi e "veline" di gruppi e partiti.

La magistratura, da tempo, gli ronzava intorno. 
Sin dai tempi della convocazione del giornalista, per sentirlo, come persona informata sui fatti, sulle truffe sulle carte di credito a Trani. 


Quell’inchiesta, in cui Minzolini era del tutto estraneo, è anche servita a giustificare le intercettazioni telefoniche sul premier Berlusconi (un membro del Parlamento, per giunta Presidente del Consiglio dei Ministri, per la legge italiana, non può essere intercettato) che discuteva al telefono con un consigliere dell'Agcom.
Uno sfogo, contenente la denuncia dell'uso improprio della Rai contro una parte politica, è stato trasformato dal PM di Trani in un'ipotesi di reato. Già questo sarebbe “lunare”, incredibile e grave, ma se fosse servito per formulare ipotesi di reato inesistenti e comunque, come si è visto, fuori della competenza del magistrato tranese, anche questa questione non potrebbe che destare inquietudine sull’agibilità politica e sulla libertà di esporre in privato le proprie ragioni su questioni che appartengono al dibattito politico in Italia.

C'è sempre una trama?

C’è sempre un teorema diabolico in tutto?

Sono le domande che in tanti si pongono. Non arrivano risposte, però, né si vedono prese di responsabilità delle Istituzioni. Nessuna via di uscita.

Ma l’Italia è destinata a essere un Paese governato dai poteri giudiziari?


Il protagonismo giudiziario s’è sparso a macchia d’olio: è diventato infettivo come la febbre gialla!


Il direttore del Tg1 è stato rinviato a giudizio per un uso "illecito" della carta di credito aziendale. 
Tanto basterà per motivarne, nella riunione del 13 dicembre prossimo del C. di A. della Rai, l'allontanamento dalla Direzione del telegiornale.


Minzolini ha già interamente rimborsato l'importo all'azienda, senza neanche contestare la legittimità o meno dell'utilizzo totale o parziale delle somme spese.


E' un episodio inquietante. Lo è a prescindere dal torto o dalla ragione del Direttore Minzolini.

Come si farebbe, infatti, a rimuovere l’opinione di tanti che sia stato fatto ad arte?

Interviene, in questo momento politico, come la riprova dell'esistenza di una reazione massimalista e ideologica che utilizza tutti i mezzi per abbattere il "nemico".


La sinistra italiana, bisogna pur dirlo, non cambia mai. E' rimasta al sogno del regime. Come nel passato, non intende confrontarsi con il metodo della democrazia pluralista. Predilige e vuole solo militanti. 


L’area della sinistra ideologica sa che solo discutere di soluzioni e metodi è partita persa per chi ha una formazione incentrata sul "centralismo democratico", sulla piramide del controllo e sul servilismo dei militanti. 


Quest’area, in Italia, usando la lealtà e la ragione non potrà mai essere vincente.
 La sinistra l’ha saputo da sempre, sin dai tempi del consociativismo e della concertazione, sin dai tempi della sua opposizione ipocrita e lottizzata quando era in piedi la Prima Repubblica.

Tutto ciò che riguarda l'informazione, come accadeva negli anni '70 e '80, per questa cultura, o è fazione schierata da una precisa parte politica o è da abbattere.


Allora c'erano i gruppi terroristi che sparavano, i famosi “compagni che sbagliano”, ora che c'é la magistratura che fa per loro il lavoro “sporco”?

Come si fa a vincere questa convinzione che si radica?

E come la sfiducia di tantissimi pensieri liberi?

Nella magistratura, nel giornalismo, in politica, nella società, chi non si schiera contro i suoi "nemici" per la sinistra è già un "nemico".


Tutto questo non è concepibile in democrazia.


E' vergognoso che si arrivi a tanto!

Vito Schepisi

01 dicembre 2011

L'Italia autocratica

Sta cambiando qualcosa, e ciò che appare non è confortante. La svolta voluta dal Presidente Napolitano, prima che i redditi, gli stipendi e le pensioni dei lavoratori, taglia qualcosa di più importante.
Agli occhi interessati di finanza e mercati, le fondamenta di un Paese appaiono meno fungibili, ma per i cittadini che non giocano in borsa e che non speculano sulle valute e sui titoli del debito pubblico ci sono principi molto più importanti, come quelli di libertà e di democrazia che restano ancora impressi nella nostra Costituzione.
Non si conoscono ancora nei dettagli i contenuti della manovra annunciata per il 5 dicembre prossimo dal nuovo Presidente del Consiglio Monti, ma si sa già che qualcosa sta cambiando. Ciò che appare chiaro è che, da qualche giorno, le decisioni prendono forma in luoghi del tutto diversi da quelli tipici di un sistema democratico. Da Bruxelles, ad esempio, non si arriva più con una valigia piena di impegni e di opportunità, ma con una cartellina che, come intestazione, porta scritto “prendere o lasciare” ed in cui è contenuta una lista di diktat.
Siamo dinanzi ad una svolta epocale. E’ doveroso, pertanto, rifletterci sopra. Dobbiamo farlo per registrare questa visibile nuova realtà, senza ignorare quanto sia altrettanto visibilmente pericolosa, come quella in cui le scelte per gli italiani le stanno facendo i burocrati ed i banchieri europei, non più i cittadini in libere elezioni.
Non c’è più neanche il confronto tra le diverse opzioni politiche. Questo Governo ha avuto la fiducia di quasi tutto il Parlamento, alla Camera e al Senato. Eccetto alcuni parlamentari che hanno dissentito a titolo personale, soprattutto per esprimere un malessere, e della Lega Nord che è passata all’opposizione, il Governo Monti ha avuto una fiducia larghissima ed è stato votato dalla destra, dal centro e dalla sinistra. Sulla carta gode di una maggioranza bulgara.
Ad occhio, c’è puzza di imbroglio!
Se la Conferenza di Messina del 1955 si fermò alla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) con l’auspicio di voler camminare tanto per raggiungere quella comunione di intenti che aveva animato lo spirito europeista di uomini come De Gasperi, Einaudi, Gaetano Martino, Adenauer, senza dimenticare Giuseppe Mazzini, oggi quelli che sembrano esser stati alcuni pur timidi passi avanti in senso europeista, in verità si rivelano come il tipico procedere incerto di un passo avanti e due indietro.
E’ il fallimento dell’immagine di un’Europa che si voleva unita nelle decisioni importanti. Viene meno un Comunità che si auspicava adottasse una politica comune improntata al rilancio della plurimillenaria civiltà del Vecchio Continente. Manca, purtroppo, la consapevolezza di un ruolo. Nessuna comunità cresce senza che abbia uno scopo e senza un coincidente obiettivo di diffusa equità sociale. Dalle piccole alle grandi comunità è sempre così.
L’Europa è, se si prefigge di diventare un faro di civiltà, un riferimento per la pacifica convivenza civile, un modello di democrazia. Il vecchio Continente avrebbe da porsi come riferimento per tutti quegli uomini e quei popoli che mirano alla pace, alla solidarietà e alla cooperazione.
Come gli USA che, a torto o ragione, rappresentano nel mondo l’idea della libertà della gente oppressa, l’Europa doveva rappresentare, per i popoli che vanno dall’area mediterranea fino all’oriente, la nuova frontiera dell’equità sociale e dell’umanesimo. Doveva essere la traccia di un multiculturalismo che si apriva alla comprensione e alla solidarietà, in cui ogni paese si attribuiva il suo fardello di impegni.
E’ emersa, invece, l’Europa degli egoisti e dei furbi.
Sembriamo dei pazzi, vandali ed ubriachi che si divertono a distruggere tutto ciò che capita a tiro.
Questa che c’è, è l’Europa delle mezze tacche, degli uomini piccoli che con veti, spocchia, presunzione e prepotenza mettono con le spalle al muro gli stati che ne fanno parte, e piegano le ginocchia dei più deboli.
E’ la stessa Europa che finisce con il non avere più una sua moneta credibile. Una finta unione di paesi diversi per lingua e storia, permeabile agli spifferi della speculazione e cagionevole, tanto da costiparsi a tal punto da dover ricorrere a terapie d’urto, dinanzi alla poca avvedutezza di una protagonista che un giorno ebbe la brillante idea di disfarsi dei titoli di debito pubblico italiano dal portafoglio del suo Paese.
E l’Italia è la terza grandezza economica dell’Europa dell’Euro.
Questa è l’Europa che perde prestigio internazionale, mentre si piega dinanzi alla bolla speculativa di mercati e di banchieri, senza registrare alcuna lodevole e coraggiosa reazione dei suoi governanti. Questi sono uomini che si credono statisti e che si piegano agli eventi della speculazione, senza la capacità di reagire e di riprendere in mano il timone di comando per rimettere la nave in acque più navigabili.
La finanziaria italiana ora la faranno la speculazione ed i diktat della Bce, della Merkel e dell’Amministratore Delegato dell’autocratico primo Uomo del Quirinale.
La cura da cavallo ridurrà certamente l’affanno del Paese.
Ma a che prezzo?
Vito Schepisi

22 novembre 2011

L'ICI sulla prima casa è macelleria sociale

Al precedente governo c’era chi attribuiva l’incapacità di recuperare una montagna di soldi (alcuni sparavano cifre da 4/500 miliardi di Euro l’anno) non riscossi per l’evasione fiscale e contributiva, per l’economia sommersa, per la criminalità organizzata, per gli sprechi, per le tangenti e per la gestione clientelare e affaristica della politica.
Ora di tutto questo nessuno parla più. Sono spariti tutti quelli che ritenevano il governo precedente accondiscendente a una politica a danno dei poveri diavoli.
Se non ha moltiplicato i pani, a Monti si deve, però, attribuire il merito di aver fatto mettere i piedi per terra a tanti demagoghi di professione.
Ora si parla di reintrodurre l’Ici, ed anche l’Irpef, sulla prima casa (qui) .
Nessuno parla più della gente modesta, delle famiglie e dei lavoratori chiamati a pagare. Anzi le notizie che circolano vanno in tutt’altra direzione, quasi a far intendere che sia giusto far pagare a chi possiede una casa. Come se l’avesse furbescamente acquisita. Come se per tantissimi la casa di proprietà non sia stata il frutto di sacrifici, di risparmi e di oneri finanziari pagati (anche per 30 anni) per l’ammortamento delle rate di mutuo.
I media parlano di Ici da reintrodurre, come se i proprietari di immobili al momento non siano già sottoposti a questa e ad altri balzelli di tasse e tributi.
L’ICI che si vorrebbe reintrodurre, è bene che si chiarisca, è quella sulla prima casa: quella di proprietà in cui vivono generalmente la gran parte delle famiglie italiane. L’imposta che si vorrebbe ripristinare graverebbe su un bene primario.
L'ici che è stata eliminata (da Berlusconi) è, infatti, proprio quella a carico dei proprietari della prima casa, purché non in categoria di lusso. In definitiva oggi non paga l'ICI chi abita la casa di proprietà che abbia caratteristiche di edilizia economico-residenziale.
Ripristinare questa imposta è, pertanto, una “mazzata” per chi ha redditi medio bassi. I possessori di casa, che la utilizzano come propria abitazione, rappresentano l'assoluta maggioranza dei proprietari di case.
Questo per la chiarezza. l’ICI sulla prima casa è da ritenersi, pertanto, “macelleria sociale”.
Per chi ha redditi medio alti, invece, e abita in una casa non di lusso (se in categoria di pregio la paga sempre), l'ICI rappresenta solo un ulteriore, ma minimo impegno fiscale.
Questo balzello, se sarà introdotto, andrà essenzialmente a danno delle famiglie e dei consumi. Sarà anche una imposizione fiscale dagli effetti depressivi. Andrà direttamente a incidere sui consumi, sottraendo risorse alle famiglie.
Potrebbe, inoltre, agire negativamente sul mercato dell’edilizia, già in difficoltà per mancanza di liquidità.
Con una spesa pubblica che rappresenta il 50% del Pil, la ricetta non può essere quella di aumentare le tasse, per tenerne testa, ma di ridurre le spese.
L'ICI, che sta per Imposta Comunale sugli Immobili, è utilizzata per le spese dei Comuni. Questi ultimi, spendono, generalmente, oltre le possibilità, e sprecano tantissimo. Alcuni hanno un numero di dipendenti spropositato rispetto alle funzioni svolte. Si servono di consulenti per lo più legati ai partiti e dilapidano una barca di soldi per spese di rappresentanza e per pubblicità istituzionale.
Il buon senso vorrebbe che si intervenisse per razionalizzare e tagliare, piuttosto che per distribuire più soldi.
Vito Schepisi

16 novembre 2011

La ragione degli avvoltoi


Il 16 novembre, con Monti che incontra il Presidente della Repubblica, scioglie la riserva e presenta la lista dei ministri, si consumerà una delle pagine più controverse della Repubblica Italiana.

Si aveva la convinzione che la nostra Costituzione fosse oramai consunta e inadeguata. Si pensava che nella sua parte seconda, dopo esser stati sanciti, nella prima, i principi fondamentali di un Paese libero e democratico, sebbene con tutte le incrostazioni retoriche che contiene, la Carta Costituzionale dovesse essere rivisitata per assegnare al popolo, prima che ai partiti, la sua sovranità, ed alla democrazia, attraverso l’esercizio della politica e la inviolabile volontà del popolo, prima che ai servizi ed alle funzioni dello Stato, la priorità legislativa e l’autorevolezza della sua rappresentatività.

Si pensava che anche all’Italia, passata l’emergenza del dopo guerra e quella della reciproca diffidenza, che l’aveva vista dividersi in due differenti strategie di sviluppo, fosse data la possibilità di dotarsi di un governo autorevole per determinazione e capacità d’intervento, in un quadro di alternanza delle volontà e dei sentimenti popolari.

Si osserva, invece, che anche questa volta non è stato così. E’ stato assegnato quasi d’imperio, con la giustificazione dei mercati in tensione, per iniziativa della Presidenza della Repubblica, un Presidente del Consiglio, fatto senatore a vita con scelta unilaterale, repentina, inutile, oltre che stridente con i presupposti del rigore economico e della riduzione della spesa.

La politica è consenso e proposta. La politica è discussione sui provvedimenti che servono ad amministrare il Paese e a rendere servizi e condizioni di vita confortevoli ai suoi cittadini. La politica non è, invece, lotta alle persone e potere di veto. Non è diffamazione, non è offesa, né contrapposizione pregiudiziale. Non può essere volgarità e violenza. Nessun fine può giustificare un mezzo rozzo e intollerante. Ma è ciò che si è visto in Italia in questi ultimi tre anni.

Gli elettori vanno rispettati sempre. Perché sono la sostanza della democrazia. Nessuno può dire, senza ricadere nell’assolutismo massimalista, che le scelte del popolo siano stupide e inaccettabili e ritenerle così non valide, come, appunto, è avvenuto in Italia. Nessuno può assumersi la responsabilità civile di disfare ciò che nelle urne è stato messo insieme. Nessuno in democrazia dovrebbe avere il diritto di delegittimare la libertà di scegliere.

Devono essere i sentimenti dei cittadini a prevalere, non quelli dei funamboli della politica e dei trasformisti. E la politica era, e deve continuare ad essere, non altro che la sintesi e la razionalizzazione di questi sentimenti da trasformare in contenuti di governo.

La sintesi dei sentimenti popolari non la può fare assolutissimamente il Presidente della Repubblica che non è espressione del popolo, e pertanto non legittimato ad interpretarne la volontà, ma solo un nominato dal Parlamento attraverso il consueto gioco dei partiti. La figura in Costituzione del Presidente della repubblica è quella del “notaio” che certifichi l’esistente e la volontà del Parlamento. E’ quest’ultimo, infatti, che l’ha nominato. Tra le sue prerogative c’è quella di sciogliere uno o i due rami del Parlamento, quando nelle Camere viene meno una convergente volontà politica e quando gli intenti programmatici non siano condivisi da una costituita maggioranza. Tra le sue prerogative non c’è quella di sostituirsi al popolo e di scegliere, in sua vece, l’indirizzo politico.

Non si pensava assolutissimamente che la Costituzione potesse essere ancora una volta violentata, dopo l’esperienza del 1995, con il maneggio di Scalfaro, il peggior Presidente della Repubblica che l’Italia abbia avuto.

Non si pensava che si potesse togliere ai suoi costituiti, cioè ai cittadini, attraverso l’espressione elettorale, la prerogativa di compiere le scelte per il governo del Paese.

Nella sostanza, e a prescindere dal merito, si lamenta l’inopportunità di un processo autoritario che sostanzialmente attribuisce un discutibile premio di ragione a chi inganna gli elettori. Sembra che si sia premiata l’azione di chi ha costantemente lavorato per il proprio interesse politico o personale, ma prevalentemente contro il Paese.

Non si sa se il Governo Monti risolverà i problemi italiani, soprattutto sul versante della fiducia dei mercati, della riduzione della spesa, dello sviluppo industriale, dell’occupazione, della crescita economica e della riduzione del debito. E’ l’augurio che gli facciamo nell’interesse di tutti.

Questo Governo, però, nasce con un debito nei confronti di tutti gli italiani: un debito di legittimità e di chiarezza. La ragione degli avvoltoi non può coincidere con la ragione dei cittadini.

Gli italiani moderati sapranno ancora una volta capire e mantenere la fiducia nelle Istituzioni, come hanno sempre fatto. Lo faranno nella convinzione che la prepotenza dalla sua non abbia alcuna ragione e che, alla prima occasione, possa essere ancora una volta respinta.

Vito Schepisi

04 novembre 2011

Clima da Marcia su Roma

Come con i mercati, in cui l’estensione dell’offerta fa scendere il valore dei prodotti, così è per tutto il resto. In particolare è così anche per le mode, per i principi e per i valori fondanti di una comunità.
C’è troppa confusione di offerta. C’è un’inflazione di soggetti che prospettano il bene del Paese, pensando soprattutto agli interessi propri. Ne fanno le spese il confronto sereno, la democrazia, il rispetto delle persone, la dignità della propria autonomia di pensiero e l’onestà intellettuale. E, con tutto questo, ne fanno anche le spese, purtroppo, la semplificazione e la trasparenza politica, assieme alle prospettive per il benessere delle generazioni future.
Ciò che è ‘troppo’ finisce per diventare invisibile. Così, come per l’aria che si respira, anche la sensazione di libertà appare invisibile, tanto da lasciare pensare che la libertà sia una fonte inesauribile da cui poter sempre attingere.
Tutto questo si chiama abitudine, come lo è il ridondare dei luoghi comuni in cui spesso si rifugiano l’ignoranza e la mancanza di autonomia di giudizio. Con l’abitudine anche all’orrore e alla strumentalizzazione delle passioni si assottiglia, però, lo spessore etico di un’intera società e si disperde, assieme al ricordo, anche la funzione educatrice della storia.
Non si può fare l’abitudine alle aggressioni, alla faziosità e alla violenza, senza doverne poi pagare le conseguenze.
La civiltà si sviluppa, invece, facendo tesoro delle esperienze fatte nelle passate stagioni politiche. Le nuove classi dirigenti, a prescindere dalle scelte e dai programmi proposti, dovrebbero prendere atto della storia del proprio popolo, e di quella articolata nell’insieme più largo delle esperienze sociali vissute ai quattro angoli della terra.
Dallo studio delle realtà, in cui siano emerse le sofferenze e le strisce di difficoltà sociali, lasciate poi in eredità alle nuove generazioni, la classe politica contemporanea, nell’interesse generale, dovrebbe trarre le giuste motivazioni per mettere in guardia i giovani dalle contrapposizioni più aspre, per impedire che si ripetano quegli episodi di barbarie in cui la ferocia di pochi finisce con alimentare la follia collettiva.
La violenza non è mai circoscrivibile nell’episodio brutale di una circostanza, ma ha dietro di se un retroterra di condizioni e d’istigazioni a comportamenti che indirettamente la sollecitano. Nasce dall’assimilazione dei toni e dall’offerta di bersagli già preparati. In un’era mediatica i bersagli della violenza assumono lineamenti ancor più precisi quando, tutte insieme, l’informazione, la giustizia e la politica si concentrano a indicare il nemico del popolo, ovvero un colpevole per definizione. E’ il metodo tipico delle dittature in cui si usa criminalizzare l’avversario politico.
E’ grottesco osservare come, in uno sguardo d’insieme, oggi, si mescolino le esperienze e le abitudini persino con gli “status symbol” di una generazione. La noia si trasforma nella ricerca di sensazioni forti. Gli ingredienti sono quelli di sempre: dall’alcol alla droga, dal sesso alla violenza. In un contesto di sballi, tra menù di papatine fritte e di panini all’hamburger, si discutono le strategie delle manifestazioni, si accordano gli slogan delle marce e s’individuano i bersagli della protesta.
Tra un sorso di coca cola e gli stereotipi dell’abitudine si premedita, così, la violenza. Un noioso ripetitivo corollario di certezze acquisite senza conoscere, non certo la reazione a un bisogno avvertito, né la sensazione di situazioni di sofferenza sociale, fanno da cornice al crescere di una nuova ragione di sentirsi protagonisti e di battersi contro qualcosa o qualcuno.
Non ci sono analisi sulle responsabilità, di solito più articolate e complesse di quanto non appaiano, ma solo la ricerca di un pretesto per scaricare sul presente le colpe di generazioni politiche e di scelte sociali passate. Una furbizia indecente che ha spregiudicati mandanti. In Italia, non tutte le follie hanno fatto i conti con le sentenze della storia. E’ del tutto incompiuto un processo plurale che serva a evitare nuove catastrofi. C’è chi si è sottratto in passato e che vuole ancora sottrarsi al giudizio della storia.
Manca un processo di analisi che serva a smascherare i falsi e gli ipocriti e a comprendere le responsabilità del presente. E’ mancato un giudizio politico sugli steccati ideologici che rischiano tuttora di fomentare una guerra civile. Ce ne sarebbe di materia per essere indignati. Non si può, però, continuare a intervenire a piedi uniti sulle gambe della storia, senza vedersi estrarre il cartellino rosso e l’espulsione dal campo di gioco. E’ un gioco codardo di chi sa e tace e di chi trova più conveniente chiudere gli occhi e seguire, negli agi e con il proprio tornaconto, il corso delle cose.
Oggi, ad esempio, è di moda individuare in Berlusconi la ragione di un malessere complessivo del Paese. Nessuno, però, sa darne una motivazione precisa. A parte l’aggressione giudiziaria di chi lo vorrebbe colpevole di tutto - non riferibile, però, alla sua conduzione del Governo - di quale misfatto politico sarebbe colpevole il Premier?
Oggi l’attenzione è rivolta contro l’Uomo di Arcore, ieri è toccato a Bettino Craxi, ancor prima a Forlani e Andreotti. Domani a chi capiterà?
E’ come se ci fosse una regia che faccia partire all’unisono tutta una serie di comportamenti: lo stesso metodo della criminalità organizzata. Come fa la mafia, quando attiva tutti i suoi referenti palesi e occulti per “mascarare” chi dà loro fastidio, per farlo apparire sporco, brutto e cattivo. Per isolarlo e fargli perdere credito. Per colpirlo!
Ci sono oggi tutti i sintomi di un attacco al buon senso e alla stessa democrazia. La sensazione della “mascarata” si fa sempre più estesa e profonda. E’ un attacco scellerato che danneggia il Paese e che si avvale, com’é capitato altre volte, anche della presenza di chi tradisce.
Si avverte un clima antidemocratico, illiberale, autoritario alimentato dai nuovi “fascisti” che sono pronti a una nuova “Marcia su Roma”.
Vito Schepisi



08 ottobre 2011

L'ipocrisia corre sul filo della tragedia

Si fa presto in Italia a cercare i colpevoli su cui scaricare le responsabilità delle tragedie.
C’è sempre chi si mostra pronto a trarre il proprio giudizio sugli altri. E’ uno sport nazionale. Tra questi soprattutto coloro che non si caricano mai delle responsabilità morali di ciò che fanno, o ancor di più di ciò che non fanno.
C’è chi si lava così la coscienza, con la stucchevole demagogia e strumentalizzando tutto, anche la perdita di 5 giovani vite. 
A Barletta c’è chi il colpevole l’ha subito individuato nel titolare del laboratorio di confezioni in cui lavoravano le 4 giovani donne rimaste uccise nel disastro. Il colpevole per definizione è così il papà della ragazzina di soli 14 anni che ha perso la vita assieme alle altre 4 povere vittime del crollo. 

Il nostro è un Paese di professionisti dell’indignazione, ma nessuno di questi indignati che si faccia un sincero e rigoroso esame di coscienza per chiedersi come mai si è giunti a tanto. Nessuno che dica: ho sbagliato anch’io.
Oggi il lavoro non c’è e le famiglie hanno bisogno di sopravvivere aggrappandosi a tutto, anche al lavoro nero a 4 euro l’ora. 

La crisi che l’Italia attraversa, se per la sua fase acuta è colpa dei mercati, per la sua fase endemica é dovuta alle condizioni di difficoltà del nostro sistema produttivo. Le incombenze burocratiche e amministrative, e il peso degli oneri sociali e fiscali frenano l’emergere dell’impresa e del lavoro. 

Al sud è un po’ tutto così. L’enorme debito pubblico italiano si è alimentato in passato anche con il fiume di denaro destinato allo sviluppo del mezzogiorno, ma è servito solo a soddisfare clientele, le mafie e le furbizie. Il grosso è dovuto ai soldi utilizzati per mantenere in piedi alcune aziende nazionali o per finanziarne le acquisizioni da parte dello Stato che si sostituiva nelle funzioni produttive o che, dopo aver ristrutturato finanziariamente le stesse aziende, le cedeva agli amici. In questa impresa fallimentare condotta nel passato con metodico e miope cinismo, l’unico risultato è stato il peso del debito sovrano che ci troviamo davanti. 

La burocrazia, le tasse, gli oneri sociali, il sindacalismo cialtrone, il filtro politico, e poi il sistema delle tangenti, il pizzo e la malavita organizzata, hanno mortificato e ridotto l’iniziativa privata. Al sud le imprese che sono sopravvissute si contano sulla punta delle dita. Non c’è lavoro, e l’unica risorsa che si sottrae al precariato, o al lavoro sommerso, appare quella che non risolve i problemi, anzi ne crea di altri: il lavoro fisso nel pubblico impiego. Non a caso, al sud, il mito del posto fisso nella pubblica amministrazione è rimasto un traguardo da raggiungere. Utilizzare il pubblico impiego per risolvere la questione lavoro, però, non è una risorsa, ma un costo da aggiungere agli altri, a carico della collettività. 

Il sindaco di Barletta sa molto bene cosa può significare nella sua Città la “guerra” al lavoro nero e si è tratto subito fuori dal mazzo degli indignati: “Non mi sento – ha dichiarato il Sindaco Maffei - di criminalizzare chi, in un momento di crisi come questo viola la legge assicurando, però, lavoro”. Sotto il Comune c’è chi ha gridato per le sue dimissioni, confermando che l’esercito degli ipocriti non perde tempo a schierarsi in Italia. 

Questa volta è un sindaco del PD che si accorge che il lavoro nero non è un grande successo delle Istituzioni, non è il prevalere della legalità, andrebbe fatto emergere e messo in regola perché sottrae risorse allo Stato, perché danneggia il lavoro regolare, perché lascia senza garanzie i lavoratori, ma in certe realtà è l’unica risorsa disponibile. Qualche volta chi lo genera non è uno sfruttatore furfante e disonesto, ma un povero diavolo, consapevole che altrimenti finirebbe sia la sua impresa e sia il lavoro dei suoi operai. 

Bisogna forse essere del sud per comprenderne le ragioni. Nel mezzogiorno le piccolissime imprese hanno gli stessi oneri che hanno le imprese del nord, ma con una differenza che non si può sottovalutare. Le piccole imprese del sud non hanno i fatturati delle imprese del nord. I margini per non fallire sono ridottissimi. Hanno le banche addosso perché il lavoro prodotto è pagato con comodo. A volte hanno gli usurai dietro la porta. Non hanno molto potere contrattuale e sanno che se si ribellassero le loro imprese sarebbero cancellate dalle liste dei fornitori o da quelle dei subappaltanti delle aziende più grandi. 

In Puglia, e un po’ in tutto il sud, le piccole ditte manifatturiere lavorano per conto di aziende che hanno marchi consolidati con un loro mercato affermato. Le grandi firme di rilevanza internazionale, tutte aziende del nord, appaltano l’esecuzione di questi lavori a costi bassissimi. Le condizioni le fissano loro e chi ci sta, bene, chi non ci sta è fuori, senza nessun problema per chi sa di avere dietro la porta altre cento ditte in attesa di poter lavorare. 

Il lavoro al sud è spesso una lotta continua per sopravvivere. 

“... E’ vero, ci davano solo 4 euro l'ora. Ma adesso non ho nemmeno quelli - replica l’unica sopravissuta alla tragedia in un’intervista al Corriere della sera - e quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l'affitto". Non è un piagnisteo di una donna del Sud, ma è l’amara realtà. Se chiudessero queste piccole aziende, per queste aree del mezzogiorno sarebbe ancora un’altra tragedia. 

Chi fa campagne di tipo ideologico e conosce le criticità delle aree meridionali dovrebbe vergognarsi. In Puglia sono stati spesi milioni di euro per consulenze, sprechi, viaggi, agi, stipendi, liquidazioni d’oro, per pratiche clientelari nella sanità, notti bianche, finanziamenti al cinema, allo spettacolo, a guitti e artisti di strada, per progetti sul niente, per convegni e pubblicità istituzionale e chissà per quant’altro. In Puglia si stanziano 80 milioni di Euro per una nuova e lussuosa sede regionale, ma giacciono ancora inutilizzati i fondi per lo sviluppo, quelli per l’agricoltura e per le aree sottosviluppate. 

E poi c’è chi, senza vergogna, parla di “lavoro schiavistico” di chi lotta per sopravvivere. 


Vito Schepisi 
su L'Occidentale

04 ottobre 2011

La Giustizia. Sempre la Giustizia!

In queste ore c’è una domanda che aleggia in tutti noi. Una domanda a cui la macchina giudiziaria non è stata in grado di fornire una risposta esauriente. Ci chiediamo cosa sia accaduto veramente in quella maledetta sera, tra l’uno e il due novembre del 2007, in quella casa, in Via della Pergola, a Perugia. Ci chiediamo se ci sia stato qualcuno che insieme a Rudy Guedè ha stroncato la vita a una giovane ragazza inglese. Non si può morire così a 22 anni, senza che la verità salti fuori, e senza che i colpevoli ne rispondano dinanzi alla legge.
Meredith Kercher ha pagato con la vita non solo la sua voglia di vivere, di conoscere e di crescere, come tutti i giovani della sua età, ma anche per la follia di un Paese, come l’Italia, così distratto da altro, tanto da sottovalutare quella violenza che miete vittime innocenti, giorno dopo giorno, nell’indifferenza di tanti, e senza che il nostro sistema giudiziario faccia qualcosa per impedirlo, e senza che la legge riesca mai a rendere alle vittime piena giustizia.
Si ha l’impressione che nel bel Paese ci sia poca attenzione verso l’esercito di sbandati che vive alla giornata, che si mantiene ai limiti della legalità, se non proprio nel campo avverso al vivere civile. Dimorano nelle nostre città personaggi che vivono di espedienti, molti in clandestinità, o tanti altri, per quanto con regolare permesso di soggiorno o di nazionalità italiana, come se lo fossero. Tante persone che non hanno fissa dimora, dediti alle attività più disparate e spesso pronti a diventare, alla prima occasione, protagonisti di efferati delitti.
Chi esulta per la sentenza di assoluzione ha le sue buone ragioni. Non li ha, invece, chi protesta perché si aspettava la condanna dei due ragazzi. Non si possono mantenere chiusi, in carcere, e lo sono stati già per 4 anni, due giovani di 24 e di 27 anni: Amanda Knox e Raffaele Sollecito, solo per tener dietro alla tesi accusatoria, basata su alcuni deboli aspetti indiziari e senza una prova concreta.
La Procura di Perugia non è stata in grado di fornire niente di più. Gli aspetti indiziari sono cosa ben diversa dalle prove. Una condanna, come quella che chiedeva la pubblica accusa, all’ergastolo, non poteva essere inflitta su alcuni indizi o sulla ricostruzione di un’ipotesi accusatoria priva, però, di sostanziali riscontri. Non si può chiedere, infatti, il carcere a vita per due ragazzi senza la certezza della colpevolezza. Sarebbe stato, persino, legittimo aspettarsi dalla Procura la richiesta di assoluzione dei due imputati per insufficienza di prove. Quest’aspetto, non secondario per la funzione di un Pubblico Ministero in una società democratica, fa pensare a quanta strada debba percorrersi perché la Giustizia italiana sia un servizio reso alla legalità e alla civiltà del diritto, piuttosto che materia per una categoria di “palestrati” con i muscoli gonfiati di giustizialismo.
Nel processo a carico dei due giovani non sono emerse prove, ma solo elementi indiziari. La fase istruttoria iniziale, per altro, è apparsa contraddittoria, ai limiti del necessario comportamento umano e delle dovute misure di garanzia. Una ragazzina straniera di 20 anni, senza alcuna assistenza legale, è stata trattenuta e sottoposta ad uno stress così intenso, come può essere in un interrogatorio per un caso di omicidio. Una ragazzina che si è trovata ad affrontare situazioni e criticità più grandi di lei, senza comprendere niente delle leggi italiane, senza un benché minimo sostegno morale, senza un riferimento di comprensione. Così: confusa e spaventata.
Innocenti? Colpevoli i due ragazzi? Chi poteva dirlo?
In primo grado, però, c’è stata una condanna pesante, tanto da doversi chiedere come sia stato possibile passare da una condanna, che non lasciava ombra di dubbio, all’assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto.
Meglio, però, un colpevole a piede libero che non un innocente privato della sua libertà, condannato al carcere per 25 o 26 anni. In questo concetto è radicata tutta quella materia che è definita come “civiltà del diritto”. Nel garantismo convivono tanti anni di storia per l’indipendenza e per la libertà, il senso comune, l’umanesimo liberale a garanzia dell’individuo. Perché gli uomini siano essere umani, non bestie, anche se spesso capita di doversi ricreder, dinanzi alle continue manifestazioni d’accanimento e di acredine giudiziaria.
La giustizia riempie le cronache quotidiane. Non appare certo materia condivisa, come invece dovrebbe. Si chiudono gli occhi sui delitti che provocano inquietudine sociale - le nostre città diventano sempre più invivibili - per correre invece dietro a teoremi e pregiudizi, in una sorta di smania di esserci e di apparire, animata da un’incomprensibile presunzione d’infallibilità.
La Giustizia è, invece, un principio di garanzia per i diritti degli uomini e per il rispetto della legalità. Deve apparire come un indifferibile strumento di civiltà, un servizio da usare in nome del popolo italiano, senza che i tribunali si trasformino in palestre in cui alcuni protagonisti, per consolidare la loro massa muscolare, facciano uso di sostanze anabolizzanti.
Ora chi restituirà ai giovani Amanda e Raffaele 4 anni di vita?
Vito Schepisi

30 settembre 2011

Pregiudizi e servitù

Questa la voglio raccontare. Ieri incontro un amico, orientato a sinistra e molto critico verso il centrodestra. L’amico nutre una grande passione per Vendola (passione politica!). Lo ritiene, al momento, il vero leader della sinistra italiana. Può anche essere così, ma francamente della sinistra e delle sue beghe infinite non sono interessato. La sinistra non è nelle mie ipotesi di scelta. Non che la destra lo sia per partito preso, ma, se chiamato a scegliere, la mia preferenza va sempre verso chi propone un modello di società liberale, con uno Stato minimo e con la gente che fa il proprio dovere, senza pensare che si possa vivere alle spalle degli altri, con diritti e doveri in equilibrio, senza privilegi, con meno protagonismi. Una società meno rigida, più giusta e più responsabile, ovvero uno Stato in cui ci siano più certezze sociali e più opportunità, ed ancora più libertà e più sicurezza: uno Stato che la sinistra italiana, per il suo retroterra culturale, non potrà mai realizzare.
L’amico mi saluta e deciso a dire la sua, introduce la conversazione con una domanda che non è proprio tale. Mi dice: “hai visto che Berlusconi sapeva che le zoccole che partecipavano alle sue feste erano escort e che le pagava?”. In verità la sua frase è stata ancor più colorita, ma la sostanza era questa. Una domanda che era già una conclusione, di certo un pregiudizio.
All’istante penso che questa sia disinformazione. E penso che nell’immaginario molti abbiano già raggiunto questa conclusione. Penso che lo scopo di alcune inchieste sia, giusto, questo, e che sia persino evidente che l’obiettivo sia stato raggiunto. Una di quelle domande, stile La Repubblica con la penna della buon’anima di D’Avanzo, come se si volesse far sorgere il dubbio, ben sapendo che spesso il solo dubbio si rivela già sufficiente a far passare per acquisita una certezza che invece non c’è.
Naturalmente io tutta questa certezza non l’ho mai avuta. A dire il vero, tutto ciò che è sin qui conosciuto sembra avvalorare il contrario. Mi viene il dubbio che l’amico volesse parlarmi del suo ultimo sogno in cui, stranamente, mi comprendeva come protagonista, come se in questo sogno avessimo avuto insieme la possibilità di valutare fatti e circostanze, nella realtà inesistenti, che inducessero al formarsi di questa asserita convinzione. Sorridendo, e per sdrammatizzare, gli chiedo di escludermi dai suoi sogni, consigliandogli finanche di dedicarli a soggetti più gradevoli di me e di Berlusconi.
Gli rispondo così, con pacatezza, riferendogli che la questione si è fatta così fitta e che le ipotesi sono diventate così contraddittorie e intriganti da lasciar più di un dubbio che questa inchiesta non costituisca una grande messa in scena che qualcuno ha voluto montare e di cui ben s’intuiscono le finalità. Tutt’altro che un servizio alla Giustizia. Gli contesto che mi sembra più una cosa studiata a tavolino, persino con alcune modalità che sembrano così simili a quelle che adottano quei prepotenti che sono presi dalla voglia irrefrenabile di mollare a tutti i costi un pugno sul naso a chi gli sta sulle palle.
Nelle storie giudiziarie le responsabilità sono personali e, così, naturalmente, anche in questa ci sono i soggetti coinvolti. Alcuni si trovano a dover rispondere dinanzi alla magistratura delle contestazioni mosse con riferimento ai propri pensieri riportati a persone con cui dialogavano in amicizia. Alcuni si sono visti pubblicare sui giornali le proprie faccende personali, comprese quelle che riguardavano la propria intimità, benché prive di qualsiasi interesse giudiziario.
Se penso alle volte con cui al telefono ho raccolto, e fatto, confidenze con la preghiera di non farne cenno a nessuno, mi sale persino l’angoscia.
Su ciò che è stato detto in privato, i magistrati fanno congetture e domande, ma come si fa a ricostruire a posteriori sensazioni private e le preoccupazioni più intime di un momento della propria vita? Come si fa a ritrovarsi su cose astratte, spesso su illusioni, o su millanterie, oppure su timori e sfoghi in un momento di rabbia? Come se ti chiedessero perché hai alzato la voce contro uno che ti ha chiamato alle tre del mattino per parlarti delle sue faccende private. Le risposte restano sempre racchiuse nella reazione emotiva del momento: sono un tutt’uno con il pensiero che, in quel momento, si è formato in modo istintivo.
Sono, comunque, tutte incursioni che sottraggono scorci di vita privata alla condizione civile di persone libere. La gente vive in un personale che è fatto di luci e di ombre, in cui possono alternarsi momenti di frustrazione ad altri di grande esaltazione. La vita è un palcoscenico in cui ciascuno, in coscienza o meno, interpreta il proprio copione. Su quel palcoscenico va in scena il diritto degli uomini a vivere la propria vita secondo la propria coscienza, senza doverne dar conto a nessuno se non alle persone coinvolte nella propria vita privata.
Su queste relazioni private, però, c’è chi ci ride sopra e chi ci ricama i propri pregiudizi. Come se ci fosse un diritto che lo consenta. Nessuno, invece, avrebbe il diritto di umiliare e mortificare il suo prossimo, soprattutto se si tratta di presunti imputati e di presunte vittime, quindi individui già in uno stato di prostrazione. La Giustizia non è ridere sulle disgrazie o sulle colpe degli altri.
Il mio amico, così, per tutta risposta, mi riempie d’invettive contro il premier e mi chiama “servo”. Servo della libertà e della verità, si! E nella convinzione che ciò che si percepisce oggi in Italia non possa essere, affatto, un buon servizio alla democrazia.
Vito Schepisi

10 settembre 2011

L'11 settembre 10 anni dopo

Tremilaseicentocinquanta giorni fa, due aerei di linea, carichi di passeggeri, penetravano come in una tavoletta di burro, nelle pareti esterne delle Twin Towers a New York. In quello stesso giorno, un altro aereo di linea, anch’esso carico di passeggeri, precipitava al suolo in Pennsylvania, fortunatamente fuori da centri abitati, e un altro jet ancora si abbatteva sul Pentagono, simbolo assoluto del comando militare statunitense.
Vicende tutte integrate in un’unica azione terroristica. Atti di bestiale crudeltà in cui persero la vita circa 3.000 persone tra uomini, donne e bambini.
La lettura politica di quell’assurda catastrofe è nell’esplicito atto di guerra che una parte del mondo aveva dichiarato contro la civiltà occidentale.
Quel giorno qualcuno iniziò a capire che la guerra di civiltà non era un’invenzione delle forze reazionarie, e che non era neanche la resistenza del cattolicesimo all’imporsi, in medio oriente, dei regimi che s’ispiravano all’integralismo islamico, ma era tutta in quell’esplicita, anche se tacita, dichiarazione di guerra dell’11 settembre del 2001.
Chi nega la guerra di civiltà in atto, nega la storia. Per farlo c’è persino chi nega l’11 settembre, com’è stato ancor prima negato l’Olocausto. L’infamia dissolutrice nazi-totalitaria non sa cosa sia la vergogna.
All’apertura del terzo millennio tutti i popoli della Terra hanno così potuto osservare, in quell’atto di barbarie, la barriera di odio che il mondo musulmano stava erigendo contro la civiltà occidentale e contro tutte le sue espressioni più rappresentative.
I rapporti tra due mondi diversi per cultura e civiltà, a spregio della diplomazia e della convivenza civile, s’incrinavano per il crescere di un fanatismo intollerante e per ragioni che esulavano dalla visione di egemonia politica ed economica del mondo.
Si manifestava, così, l’odio cieco verso un diverso modello di civiltà. Veniva fuori una frattura che, se traeva le sue origini storiche nel medioevo, dai tempi delle crociate e delle missioni volute dall’influenza esercitata della Chiesa per “liberare” la Terra Santa dai musulmani, era cresciuta sulle frizioni tra due differenti condizioni di vita. Nell’era della comunicazione si è radicato più l’odio per le libertà, che il risentimento per i fatti di 900, e passa, anni prima.
Alla società civile, in alcuni paesi arabi si erano sostituite le rappresentanze teologiche islamiche che imponevano regole rigide, nel segno delle interpretazioni più radicali dei loro libri sacri. Il fenomeno, fino al 2001, si era già allargato a macchia d’olio, e prosegue tuttora sino alle ultime rivoluzioni delle popolazioni del nord-africa in cui il fattore islamico ha avuto un proprio ruolo.
Le caratteristiche più inquietanti dell’Islam sono nell’assenza di tolleranza, nella differenza di civiltà e nel rifiuto del pluralismo culturale e religioso. E’ sufficiente una scintilla, un “versetto satanico” o una citazione teologica a innescare una bomba. Basta un solo banale episodio per far partire una “fatwa” che equivale a un giudizio emesso, per il quale ogni musulmano si sente poi autorizzato a dar effetto alla pena.
Anche in Europa e in Italia gli immigrati di estrazione islamica pretendono di imporre la loro cultura e non rispettano usi e tradizioni locali, e neanche le leggi dei paesi ospitanti.
Dopo 10 anni, dall’11 settembre 2001, nonostante la scomparsa di Bin Laden, malgrado le due guerre in Iraq con la sconfitta di Saddam Hussein, e nonostante l’impegno delle N.U. in Afghanistan, per la lotta al terrorismo, il quadro è andato via, via peggiorando.
La genesi dell’insuccesso ha sempre le sue motivazioni. E’ da individuare essenzialmente nella confusione degli obiettivi. Le nazioni occidentali sono divise tra loro per meschini interessi economici e per strategie di lotta politica. All’interno degli stati sono presenti grosse spaccature. In Italia, ad esempio, ci sono partiti e movimenti che, per questioni ideologiche e per mera speculazione politica, pur di contrapporsi a paesi come Israele e gli USA, visti come baluardi del capitalismo e della democrazia liberale, e quindi additati come imperialisti e violenti, solidarizzano con il terrorismo islamico. Persino l’11 settembre è messo in discussione, con tesi complottiste imbevute di cieca viltà.
In Occidente non c’è condivisione e non c’è coscienza nazionale, sino a non avvertire il pericolo di una massa fanatica, sospinta persino al martirio per esaudire il volere del suo Dio e guadagnarsi così, con il sacrificio terreno, il paradiso con le 7 fanciulle promesse. Questa condizione dell’Occidente rende più debole la politica della fermezza e spunta le armi della diplomazia. La divisione finisce per essere la forza di coloro che oggi possono minacciare la pace e le conquiste della nostra civiltà.
L’11 settembre, invece, se non si volesse rinunciare a vivere secondo i principi della democrazia, da cittadini autonomi e liberi di scegliere, dovrebbe esser visto come un segnale per non abbassare la guardia. L’assassinio di tremila persone dovrebbe essere un monito contro il fanatismo politico e religioso. Dovrebbe servire a radicare i valori del pluralismo nella nostra cultura. Dovrebbe farci comprendere i limiti dell’integrazione possibile. Dovrebbe unirci nella conferma orgogliosa delle nostre abitudini e delle nostre tradizioni.
Sono la fermezza, il coraggio e la forza della libertà, infatti, le sole armi vincenti della gente civile per contrastare, tutta insieme, ogni rigurgito di follia.
Vito Schepisi

07 settembre 2011

Uno sciopero dannoso. Contro il Paese

Anche in Puglia la Cgil ha prodotto uno sforzo organizzativo notevole.
L’obiettivo era portare in piazza, a Bari, una decina di migliaia di persone. Sul fatto che ci si sia riusciti o meno, come anche sul numero esatto di coloro che sono scesi in piazza, meglio evitare le solite sterili polemiche.
Il sindacato rosso parla già insistentemente di un fiume di presenze, ma più che i numeri dei manifestanti deve contare il significato politico di questa manifestazione. Che, come le altre, va rispettata ma può essere anche legittimamente criticata e contestata.
C'è chi ha definito quello della Cgil uno sciopero contro il Paese. Inutile, dannoso, pericoloso, incoerente: questi sono stati gli aggettivi più usati, a Bari e non solo, da coloro (e sono tanti) che hanno ignorato lo sciopero e hanno lavorato come ogni giorno.
Non è una novità che il sindacato di Susanna Camusso da un po’ di tempo, in particolare in coincidenza con la rottura dell’unità sindacale sulla questione dei contratti esplosa con il caso Fiat di Pomigliano d'Arco, si sia colorata sempre più di rosso.
Sono finiti, però, i tempi del potere di veto e delle estenuanti concertazioni, quando tutti vincevano qualcosa meno che l’economia italiana. E’ lontana l’immagine di quella politica consociativa che ha contribuito a portare l’Italia a un debito pubblico vicino a duemila miliardi di euro.
Tutto questo passato, per fortuna, è ora visto come il ricordo stantio di un metodo non più proponibile. E la Camusso, a quanto pare legata ancora a quelli schemi, viene vista all'interno del suo stesso mondo come un campione di archeologia politico-sindacale.
L’impressione è che la Cgil abbia scelto di essere il sindacato della rottura, il cui metodo sembra essere quello della lotta al sistema: quasi mai disponibile al confronto, adeguandosi ad essere un ulteriore strumento politico dell’area del pregiudizio ideologico, molto più che una democratica espressione dell’impegno nelle battaglie sociali. L’attività di portare nelle piazze la lotta di classe prevale sull’interesse sindacale a comporre le controversie tra impresa e lavoro mediando tra i diritti e i doveri di tutte le parti in causa.
A rimarcare l’atteggiamento più politico-ideologico che sindacale della Cgil ci sono le reiterate prese di distanza della Cisl e della Uil, come è accaduto anche in questa circostanza. Bonanni e Angeletti, benché critici sulla manovra, si sono mostrati indisponibili ad alzare i toni, facendo prevalere quel senso di responsabilità che in questo momento di crisi dovrebbe accomunare tutti.
Lo sciopero della Cgil era stato indetto da tempo, quasi in modo preventivo. Da allora molte cose sono cambiate, tanto da rendere questa manovra incardinata sul recupero di risorse attraverso un intervento il meno possibile a carico delle tasche dei cittadini già provati dalla crisi.
Eppure la Cgil, ma anche Bersani e Vendola, hanno parlato di un attacco, a dire il vero inesistente, all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, allarmando sulla facoltà di licenziamento delle imprese, introdotta a loro dire con l’art. 8 della manovra, quello che prevede la possibilità di accordi in deroga ai contratti nazionali.
Nonostante il Ministro Sacconi si sia affrettato a spiegare che si tratta di “un rafforzamento dei contratti aziendali chiesto dalla Bce perché consente una maggiore crescita” con l’obiettivo di “incoraggiare nuove assunzioni”, non è mancato il fuoco di critiche strumentali.
Se riflettessimo bene, però, la maggiore preoccupazione in Italia dovrebbe essere soprattutto per coloro che sono fuori dal mondo del lavoro, messo in difficoltà dalla attuale congiuntura economica internazionale. I lavoratori sono prevalentemente garantiti, benché interessati da tanti problemi per arrivare alla fine del mese o per far quadrare i bilanci familiari, e benché siano preoccupati per il futuro dei propri figli.
Eppure, a scioperare contro la manovra bis del Governo, sono proprio loro. Quelli iscritti al sindacato di sinistra. Quelli della Cgil braccio destro e sinistro dell’area del neo-comunismo e dell’alternativa sociale.
La manovra è stata chiesta all’Italia dai partner europei per tranquillizzare i mercati e segnare passi concreti nell’indirizzo della rimessa in sesto dei nostri conti. Questa manovra non è un capriccio del governo e i suoi contenuti sono una sintesi di istanze diverse, comprese quelle richiamate dall’opposizione.
C’è anche l’impegno per le istanze invocate dai cittadini su questioni come quella del taglio ai costi della politica: a tal proposito, il dimezzamento dei parlamentari e l’abolizione delle Province, da attuare attraverso l’iter parlamentare previsto dall’art 138 della Costituzione.
Ecco perché questo sciopero della Cgil risulta non solo inutile, ma anche dannoso: uno sciopero che, in questo momento, non va di certo a vantaggio del Paese.

Vito Schepisi

su L'Occidentale

01 settembre 2011

La bilancia della Giustizia è scassata


Verrebbe da chiedersi se in Italia la bilancia della giustizia sia scassata, o se siano gli uomini addetti alla pesa inclini ai due pesi e alle due misure. La risposta ha la sua importanza. Le garanzie, e la Giustizia rientra tra queste, costituiscono le basi di un sistema di democrazia liberale.
Sin dai tempi di “mani pulite”, quando da destra a sinistra si alzò il grido giustizialista contro una classe dirigente incapace di emendarsi e di offrire soluzioni politiche di respiro strategico, apparve chiara la direzione, rimasta unica, in cui si voleva andare a parare.
Già da allora, più che una bilancia a due piatti, la giustizia italiana era apparsa come un piano inclinato che faceva scorrere tutto in un’unica direzione. E non c’è niente di più immorale della presenza di due pesi e due misure nella lotta all’illegalità e al malcostume. Le discriminazioni sono antipatiche e generano sfiducia nelle istituzioni, la giustizia parziale induce persino quella parte che la fa franca a perfezionare e moltiplicare le sue pratiche illegali.
L’odio, il pregiudizio, ma soprattutto un po’ d’ignoranza, unita all’incapacità di trasformare l’antagonismo politico in una proficua strategia democratica, e poi la voglia delle soluzioni sbrigative, assieme alla falsa idea della sinistra di una propria supremazia intellettuale e morale, impedì agli inizi degli anni ’90 di far prevalere l’autocritica e la stessa, ma più completa, riflessione morale, per avviare un confronto politico-istituzionale, propedeutico all’avvio di una stagione di sostanziali riforme. Ne stiamo pagando tuttora le conseguenze.
Prevalse nel Paese, sui media, e nelle correnti della magistratura, anche in quelle più autonomiste, trascinate da quelle più politicizzate, l’idea che la questione morale fosse un problema da risolvere prevalentemente all’interno dei partiti della tradizione capitalista e di democrazia occidentale.
Non è stato mai chiarito, ad esempio, per quale principio, ai tempi di “mani pulite”, il Vice Procuratore Capo della Procura di Milano, Gerardo D’ambrosio, poi diventato parlamentare DS, e successivamente PD, come ebbe a riferire il PM Tiziana Parenti, avesse maturato l’idea che, se l’azione giudiziaria si fosse allargata al Pci-Pds, sarebbe crollato tutto il teorema giudiziario del Pool milanese. Sarà stata questa la ragione per la quale c’era chi non poteva non sapere e chi, invece, poteva, ma anche la ragione per la quale era sufficiente fare atto di ravvedimento, interagendo con una ben precisa parte politica, per restarne fuori e farla franca.
E’ stato così che l’area politica più pluralista e meno autoritaria, benché responsabile per aver instaurato e assecondato quel costosissimo sistema dei partiti e delle correnti, sostenuto, com’è emerso, con le pratiche corruttive e con le tangenti, ebbe a trovarsi schiacciata, come dai due bracci di una tenaglia, dalle furbizie delle connivenze giudiziarie e dai sentimenti massimalisti e reazionari di opposta tendenza politica.
Da una parte a soffiare sul fuoco era la sinistra post-comunista. Il Pci aveva visto dissolversi la sua strategia di avvicinamento alla conquista del potere con l’utilizzo degli strumenti della borghesia, e facendo leva sulla conflittualità interna, come aveva teorizzato Lenin. La sinistra marxista si era così liberata, furbescamente, dopo la caduta del Muro di Berlino, di quel nome che ricordava l’orrore e le tragedie emerse dall’esperienza disastrosa e dal fallimento civile, sociale, economico e politico dell’est europeo.
La sua nuova strategia, una volta diventato Pds, mirava sempre alla conquista del potere, ma ora nel solco del socialismo democratico di stampo europeo, riciclandosi e disponendosi a sostituirsi al partito socialista italiano di Bettino Craxi che, non a caso, veniva additato come il maggior responsabile del sistema corruttivo e illegale instaurato in Italia. Il leader socialista, che in Parlamento aveva denunciato la presenza di un sistema  di corruzione che attraversava tutti i partiti (I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale), veniva, infatti, costretto all’esilio in Tunisia per sfuggire alla ferocia manettara, sapientemente alimentata da una connivente regia politico-giudiziaria.
Dall’altra parte, come secondo braccio della tenaglia, c’era quella parte della destra reazionaria e forcaiola che individuava nella Democrazia Cristiana e nel Partito Socialista le responsabilità del congelamento della sua consistenza elettorale ed il suo isolamento politico, e c’era anche l’emergente egoismo locale del Nord del Paese che faceva di “Roma ladrona” lo strumento per la richiesta di trasformazione dell’Italia in Stato federale che sapeva tanto di richiamo alla secessione.
Accade che i nodi che non sono sciolti si ripresentino, e la sensazione di farla sempre franca si trasformi, persino, in maggiore audacia. Il sistema Pci-Pds-Ds rischia ora di diventare il sistema PD. Se anche Giorgio Bocca sostiene di temere la minaccia di querele di Bersani, si rafforza il timore dell’intimidazione verso chi osserva e denuncia.
La sensazione che la bilancia della Giustizia sia scassata e che penda sempre da una parte, anche dinanzi alle querele, ora ha un che di ancora più inquietante.
Vito Schepisi