27 luglio 2007

Fassino ed una scuola di pensiero che non gli appartiene



E’ davvero singolare che l’on. Fassino, segretario dei DS ma già autorevole esponente del vecchio PCI, per rendere credibile il suo sfogo contro i giornali, ed in particolare contro il Corriere della Sera, si rifaccia ad uno dei padri italiani del pensiero liberale, a Luigi Einaudi, liberista in economia ed in antitesi dottrinale con i principi marxisti del Fassino che era, o solidaristi del Fassino che è.
Non solo è singolare l’adozione di un precedente remoto su di una posizione di confronto con la libera stampa ma è vieppiù singolare l’interpretazione capovolta che il leader dei Democratici di Sinistra ne vorrebbe dare. Giammai il galantuomo Einaudi avrebbe ostacolato la diffusione di notizie che avessero evidenziato questioni morali o cronaca di fatti coinvolgenti uomini ed azioni politiche, benché fossero state in contrapposizione alle sue convinzioni. Luigi Einaudi nella lettera del 1916, indirizzata al direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, poneva una questione di limpidezza assoluta. Giornalista di grande spessore e liberale tutto d’un pezzo, il futuro, ed indiscutibile per correttezza e dirittura morale, Presidente della Repubblica Italiana sollevava la riflessione sulla scelta di un giornalista che, per deontologia professionale, alla pubblicazione di soluzioni invocate per compiacere gli “adulatori delle masse e del popolo”, potesse preferire il tacere o piuttosto “difendere la tesi della verità e del buon senso”.
Non siamo, però, nel caso dell’on. Fassino e delle sue presunte responsabilità sul caso Unipol-Bnl. Non può il leader post-comunista invocare il silenzio quando, per difendere il ”buon senso”, avrebbe dovuto tacere ed astenersi al telefono, ma anche a quattr’occhi, dall’interessarsi a questioni di finanza e di controllo di banche e potere economico. Tanto meno può chiedere ala stampa di tacere per tutelare “la verità”: tacendo avviene esattamente il contrario.
Il segretario dei DS sembra ignorare che ci sono regole, palesemente violate, stabilite per garantire i risparmiatori e gli investimenti finanziari e non si sofferma a prendere in minima considerazione ciò che vorrebbe maggiormente celare. Ciò che invece interessa alla discussione politica ed al popolo è proprio l’aspetto etico di un partito che invece di occuparsi delle questioni inerenti la gestione del Paese, e le scelte per il bene e la sicurezza dei cittadini, privilegia l’intrigo ed il risiko finanziario. Preoccupa ciò che è diventata una vera lotta, a volte feroce e senza esclusione di colpi, per la conquista delle leve del potere economico ed istituzionale mascherata da lotta politica.
Per anni l’On. Fassino col suo partito, rivolgendosi a Berlusconi ed a Forza Italia, ha parlato di partito-azienda. Ora non gli scappa neanche per caso d’avere vergogna del conflitto di interessi che viene alla luce tra una parte importante della rete commerciale e produttiva del Paese ed il suo partito. Altro che lo slogan di “partito-azienda” diretto a Forza Italia, nel suo partito ci sono intrecci economico-finanziari che proseguono da anni, senza soluzione di continuità, in varie forme ed un tempo anche coinvolgenti la sicurezza dello Stato, per la presenza di agenti sottoposti al dominio di altre entità nazionali, e proseguono malgrado il percorso delle trasformazioni del nome e della revisione della sostanza politica di quella formazione della sinistra italiana. E’ proprio il tentativo di disinformazione, retaggio di una scuola che non si smentisce mai, che preoccupa e indigna.
La questione emersa è di una gravità assoluta, e senza precedenti, perché conferma il sospetto che non si sia mai fermata la macchina leninista dell’occupazione dei poteri attraverso la penetrazione sempre più massiccia nei centri di controllo e di gestione.
Sbaglia Berlusconi e Forza Italia a ritenere una necessità garantista quella di opporsi all’uso come fonte di prova delle intercettazioni telefoniche di parlamentari, anche se è apprezzabile il suo garantismo contro gli strumenti che limitano la libertà di espressione di ciascuno e contro gli effetti devastanti di una informazione a volte invasiva della privacy del cittadino.
L’ipotesi di illegalità non si estingue per legge o per delibera parlamentare. Se c’è il reato va perseguito. E’ possibile adottare provvedimenti che limitino l’invadenza di polizia e magistratura nella vita privata dei cittadini o che sanzionino gli abusi e gli eccessi. Oramai, però, le intercettazioni ci sono ed una intercettazione è simile alla flagranza perché contestualizza il momento del delitto e la partecipazione dei presunti colpevoli.
Da queste intercettazioni, che si ribadisce ci sono e di cui si conoscono i contenuti, ciascuno può rendersi conto che non ha alcun senso quanto sostiene Fassino “stupisce che un magistrato usi espressioni che dette da qualsiasi altro cittadino sarebbero passibili di querela”. Chiunque leggendo i testi delle intercettazioni si renderebbe conto che appare un interesse dei politici in questione che va oltre il semplice tifo, come ha sostenuto il Gip Forleo nella sua ordinanza. Anche l’appello del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sembra fuori luogo in quanto il Gip, tra le sue prerogative, ha anche quella di motivare le finalità probatorie delle sue richieste e, nel caso in questione, di motivare al Parlamento il peso che attribuisce agli elementi probatori di cui chiede l’autorizzazione all’utilizzo.
L’On. Piero Fassino, invece di ricorrere ad Einaudi ed ad una scuola di pensiero che non gli appartiene, avrebbe fatto miglior cosa a sostenere un cauto e più dignitoso silenzio.
Vito Schepisi

23 luglio 2007

Prodi come Luigi XIV: "Apres moi le deluge"


La legislatura corrente non ha più niente da dire. I numeri della consultazione elettorale dell’aprile del 2006, a prescindere da manipolazioni e brogli, non rispecchiano più il sentimento degli elettori. Sono stati sconfessati dai dati delle ultime amministrative e soprattutto dalla constatazione del ridotto gradimento che questa maggioranza riscuote tra gli italiani. Dalle fabbriche ai giovani, dai piccoli imprenditori agli artigiani, dai lavoratori dipendenti a quelli autonomi, prende forma un comune motivo di doglianza e di pentimento per l’errata scelta elettorale.
Dappertutto si pone l’accento sulla mortificazione per le aspettative e le promesse non mantenute da Prodi e dal centrosinistra. Valga per tutte quella del mio conoscente co.co.pro (collaboratore a progetto) che ha votato Prodi, dopo esser stato grato a Berlusconi per l’opportunità di lavoro trovato. Sognava che con il centrosinistra si consolidasse la sua posizione, aumentassero i suoi diritti, conquistasse le sue garanzie future. Ora rischia d’essere messo alla porta perché, con l’aumento di tasse e contributi e con le minacce della riduzione della flessibilità, l’impresa riduce il suo rischio ed elimina le fonti di spesa assorbibili. “Non mi fregano più” – afferma ora contrariato – “il mio prossimo voto sarà solo per Berlusconi”. Voleva comprarsi una piccola casa, voleva sposarsi e mettere famiglia, ora si augura che questo “tormento” (l’ha definito così – ndr) finisca presto e ritorni un governo che guardi alla crescita ed allo sviluppo.
Nei colloqui con la gente il coro è comune. Tutti a sostenere che in questo Paese manca la continuità, c’è incertezza per il futuro: “non si possono fare programmi a breve termine, figuriamoci a medio-lungo” – sostengono in tanti – “se si pensa che della discontinuità ne fanno un programma di governo!” - “Noi italiani, lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, noi che investiamo cosa si pensa che siamo pronti al suicidio?” – ed ancora – “negli altri paesi un valore è la continuità. Altro che la discontinuità di questi idioti che abbiamo da noi: sentono un termine e lo ripetono all’infinito…perché non hanno nient’altro da dire”.
C’è chi chiede di poter conoscere l’ammontare degli investimenti esteri in Italia, e si domanda se sia possibile che il nostro Paese, al contrario degli altri, sia così chiuso ed autarchico nelle questioni finanziarie. Tutti puntano il dito contro la criminalità e c’è chi osserva che, con tanti problemi di ordine pubblico e con un debito incredibile, invece di porsi in sicurezza e favorire gli investimenti si apra verso l’immigrazione clandestina e si chiuda sull’arrivo di capitali.
In tanti si chiedono se e quanto durerà ancora questo Governo, tra una foresta di espressioni colorite sull’uomo e sulla maggioranza: gli italiani, purtroppo, dimenticano facilmente e l’uomo e la maggioranza si conoscevano da tempo, ed erano già stati cacciati a furor di popolo nel 2001.
Molti parlamentari sanno di non poter più essere rieletti, sanno d’aver tradito gli elettori e, traditi essi stessi dalle tante false promesse, saranno i primi ad essere sacrificati. Tirano a campare pur consapevoli d’esser ormai invisi agli italiani. Le nuove elezioni soppiantano ambizioni e aspettative, sono viste come il fumo negli occhi: non rimane niente di una legislatura che non abbia percorso metà del suo tragitto. Non c’è diritto alla pensione.
Gli interessi particolari dei parlamentari, come si sa, prevalgano sempre sull’interesse dell’intero Paese. Si dà per acquisita la regola non scritta che la legislatura non debba terminare prima del compimento della sua metà più un giorno. In questa opzione non c’è scelta di campo e c’è il massimo della trasversalità: è un ulteriore problema da porsi ed è un limite alla democrazia. L’interesse particolare sembra farsi gioco della difforme volontà popolare che vorrebbe che questo governo e questo presidente del consiglio siano accantonati per non continuare a far del male al Paese.
E’ davvero mortificante che Prodi continui a sostenere con tenacia il suo monito con lo stesso assolutismo regio di Luigi XIV di Francia: “L’etat c’est moi. Apres moi le deluge” ( Lo stato sono io. Dopo di me il diluvio).
“Dopo di me non c’è nulla. Ci sono le elezioni”- sostiene il nostro Presidente del Consiglio: l’ineffabile Re Sole italiano. E’ una minaccia, un vero ricatto politico, uno sgradevole calcolo meschino. Ben vengano le elezioni invece! Soprattutto se si è convinti, come Prodi sembra lo sia, che il ricorso alle urne significhi la fine di questo centrosinistra e la possibilità di riprendere il cammino per lo sviluppo.
Vito Schepisi

18 luglio 2007

Lo Scalone ed i lavoratori "usurati"



Se le scelte del Governo, all’atto della presentazione della finanziaria nell’autunno dello scorso anno, potevano contenere i presupposti di una linea politica ed i comportamenti conseguenti ad una strategia e quindi una logica, l’atteggiamento sulle pensioni della maggioranza e dei massimalisti neo comunisti questa logica non l’ha. Le politiche sociali hanno bisogno di risorse economiche e le scelte solidali non hanno carattere di investimento e non producono ricchezza e non si autofinanziano.
Non è una questione di riformismo o di lotta delle classi più bisognose per la crescita delle politiche del bisogno. I costi del superfluo o del privilegio riducono le risorse per tutto il resto e non è possibile aumentare ancora e a dismisura la pressione fiscale. Se l’abolizione dello scalone previdenziale produce risparmi a regime per 9 miliardi l’anno, senza creare poi questi grossi disagi ai lavoratori, tre anni di lavoro in più fanno anche aumentare il peso dell’indennità di pensione, non si capisce il braccio di ferro dei sindacati e della sinistra alternativa. Non lo si capisce se non nella considerazione del nesso con una questione smaccatamente ideologica.
La domanda da porsi è se sia possibile che in Italia debba prevalere, o abbia ancora spazio e credibilità, una politica che si attorciglia intorno a questioni ideologiche. Il carattere conservatore e anacronistico delle istanze dei neocomunisti è tale da fermarsi alla valutazione di fenomeni vecchi e stantii. Posizioni ideologiche veteromarxiste che passavano nella disinformazione dei partiti comunisti degli anni dal sessanta all’ottanta del secolo scorso.
I lavoratori dipendenti “usurati” ed i pensionati, secondo gli studi degli artigiani di Mestre per il 2003, ma oggi le cose non sono cambiate di molto, sviluppavano il 65% del lavoro nero, per ben 200 miliardi di Euro di redditi non dichiarati, su 311 miliardi complessivi. Se poi si conviene che cento miliardi corrispondevano al fatturato evaso delle attività illegali e criminali, solo 11 miliardi di euro era nel 2003 la somma dei redditi non dichiarati dai possessori di partita IVA. I dati dell’ISTAT dello stesso periodo ci dicono che ammontavano a ben 2.600.000 i lavoratori dipendenti che svolgevano il secondo ed anche il terzo lavoro in nero.
E’ tra i lavoratori “usurati”, difesi dai sindacati e dalla sinistra massimalista, che si sviluppano quindi i redditi a nero e le maggiori evasioni fiscali. Nessuna politica di lotta all’evasione, che prescinda dall’abbattimento di questo fenomeno, potrà quindi offrire le risorse necessarie per finanziare il baratro di spesa che i costi della previdenza rappresentano. Le manovre, pertanto, che dovranno pur esserci, per coprire i maggiori costi della previdenza, cresciuti per accontentare Giordano ed Epifani, si tradurranno soltanto nell’aumento della pressione fiscale soprattutto verso coloro che le tasse le pagano già: imprese, lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. Il “Ragno” di Visco ha già predisposto gli strumenti per spremere il popolo bue oltre ogni misura e se si continua così fino all’inevitabile asfissia della nostra economia.
Nel frattempo buona parte dei 2.600.000 lavoratori dipendenti con un secondo ed un terzo lavoro, percepiranno la pensione a 57 anni e potranno continuare a svolgere con più tempo a disposizione, e quindi con l’aumento del giro d’affari, il lavoro sommerso, togliendo spazio anche all’occupazione dei giovani ed ipotecando le risorse previdenziali delle nuove generazioni.
Durante la campagna elettorale per le elezioni politiche dello scorso anno, la sinistra aveva gridato al disastro dei conti pubblici, alle falle nella contabilità dello Stato, al disavanzo ed all’allargamento del deficit oltre i limiti dei parametri di Maastricht, e la finanziaria presentata nell’autunno dello scorso anno rifletteva questi principi con lo scopo di scaricare sul precedente governo le lamentele degli italiani e nello stesso tempo far cassa.
Saranno ora le necessità economiche, per far fronte all’aumento della spesa, e le manovre per contenere il deficit che non potranno che rendere necessario un ulteriore inasprimento fiscale. Le imprese e lo sviluppo, l’occupazione e gli investimenti cederanno il passo alla cecità ed alla demagogia di Diliberto, Pecoraro e Giordano ed al sindacalpopulismo di Angeletti, Epifani e Bonanni.

16 luglio 2007

Latorre apre a Forza Italia


In una intervista a “il Giornale”, il vicecapogruppo dell’Unione al Senato introduce riflessioni interessanti sul futuro politico. Al contrario di coloro che vanno alla ricerca di fronde da acquisire col metodo Mastella, dopo il fallimento dell’operazione Follini, il Senatore Latorre apre alla Cdl affermando che dal confronto col suo leader Berlusconi non si possa prescindere: “Io non sono tra quelli che privilegiano solo alcuni nella Cdl” - afferma Latorre, e “non si può prescindere da Forza Italia”.
Deve essere stato un brutto colpo per Casini!
Al di là delle solite ermetiche espressioni dei politici, ciò che emerge dall’intervista è che si vorrebbe mettere con le spalle al muro la sinistra radicale. Sembra che l’olezzo di stantio che proviene dall’ortodossia neocomunista stia diventando un fardello troppo grosso per la credibilità dell’azione politica del centrosinistra. In un contesto socio-economico di flessibilità e di innovazione, il condizionamento conservatore di frange reazionarie di società premoderne, ancora legate ai vecchi concetti di classe operaia e di padronato, impedisce la realizzazione sia delle riforme, sia degli interventi finalizzati alla crescita ed al rinnovamento.
L’apertura di Latorre è principalmente sulle riforme del sistema, le stesse che nello scorcio finale della precedente legislatura erano state votate a maggioranza dal Parlamento dal solo centrodestra. Si ricorda che Prodi, allora ancora Presidente della Commissione europea, aveva posto il veto alla sinistra intera di partecipare, assieme al centrodestra, alla stesura delle modifiche costituzionali. Prodi e la sinistra contavano sul principio della contestazione di ogni cosa e sull’opposizione, oltre ogni limite, ad ogni iniziativa del governo Berlusconi, per poter costruire il successo elettorale accreditando la tesi che quel Governo danneggiava ed era un pericolo per il Paese.
Col principio che le Regole dovevano valere per tutti, la sinistra che pure nella legislatura ancora precedente, aveva varato un legge sul federalismo lacunosa e dannosa, sulla scia del successo alle elezioni politiche ha condotto una battaglia serrata per la bocciatura al referendum delle modifiche costituzionali, con l’esito di annullare tutto quanto e di costringere il Paese ad iniziare tutto da capo.
“Senza dubbio c’erano in quella riforma cose interessanti e intuizioni giuste. Solo che fu fatta a colpi di maggioranza” – sostiene oggi Latorre – ma ricordiamo ancora le espressioni di Scalfaro e gli appelli accorati di Prodi e Fassino perché gli italiani rigettassero quella riforma che “divideva l’Italia” ed attribuiva “poteri esorbitanti” al Capo del Governo, evocando pericoli di derive autoritarie naturalmente del solito Berlusconi.
Nel corpo dell’intervista il senatore Latorre ne ha un po’ per tutti, bacchetta i sindacati che “negli ultimi anni hanno un po’ perso di vista l’interesse generale, e il loro ruolo si è offuscato” e riferendosi alla sinistra neocomunista afferma che “le alleanze sono figlie della legge elettorale”. Una riflessione sorge spontanea: avrebbe detto le stesse cose il senatore Latorre se la sinistra alle ultime elezioni non avesse perso consensi?
Qualunque sia la risposta al quesito posto, emerge che a sinistra dimessa l’arroganza di Prodi, stia maturando il cambio di rotta sulla chiusura totale all’opposizione emerso subito dopo il voto.
Fermo il principio che questo Governo dovrebbe cadere perché è fuori dalla fiducia dei cittadini italiani, ed è figlio di una competizione elettorale falsata di cui i brogli sono solo l’ultima lettura della truffa ai danni del Paese, il percorso migliore sarebbe dar corso a nuove elezioni. Da cittadini, però, pensare al varo della riforma costituzionale, ed ad una nuova legge elettorale che ponga limiti ai veti dei piccoli partiti, la tentazione c’è tutta.
Latorre è però l’uomo di D’Alema che forse sonda il terreno: cosa sta studiando D’Alema per ostacolare l’ascesa di Veltroni, uomo della provvidenza della sinistra con doti speciali?
Vito Schepisi

14 luglio 2007

Partito Democratico e crisi della politica



Con il varo del Partito Democratico sta nascendo un nuovo partito che, secondo i suoi ideatori, avrebbe lo scopo di semplificare il messaggio della sinistra moderata, intraprendere un percorso di pacificazione e di dialogo, colmare il vuoto tra i cittadini e la politica. Sono iniziative lodevoli che, comunque potevano essere adottate già in precedenza dagli uomini e dai partiti che vanno a fondersi in questo nuovo contenitore di iniziativa politica. Il sospetto che il PD sia nato per risolvere altre questioni ed in funzione di tattiche personali e/o di legittimazione o di egemonia più che di strategie resta a tutto tondo. Se si facesse, però, solo dietrologia e ci si riducesse a respingere ogni nuova proposta si resterebbe a guardare una realtà che passa, mentre si continua a recriminare, porre condizioni e richiedere prove.
Quello che ancora non ci convince è la pretesa che la nascita del nuovo partito debba e possa risolvere quella che oramai a sinistra fanno passare come la crisi della politica. Tale preoccupazione è intervenuta a ridosso delle ultime elezioni amministrative, quando la sinistra ha perso consensi in gran quantità. Al nord addirittura in modo massiccio. Appare strano, però, che quando la sinistra perde, e alimenta tra la gente e gli elettori delusioni e preoccupazioni, sia la politica ad essere in crisi, mentre al contrario quando perdeva il centrodestra era la proposta politica di Berlusconi e dei suoi alleati che non andava.
La verità è che, pur non potendosi respingere la tesi generale di una crisi della politica, siano le difficoltà nel portare a termine con coerenza e rapidità i contenuti dei programmi e le soluzioni che la gente si aspetta a creare il distacco dei cittadini. E’ accaduto con il centrodestra, sta accadendo con il centrosinistra. Sono anche le contraddizioni e le spinte verso soluzioni estreme da una parte e dall’altra a mettere in difficoltà i percorsi delle maggioranze.
Quando il centrodestra, ad esempio, ha portato avanti la riforma dello Stato e dei suoi ordinamenti la gente ha avvertito, anche per l’azione strumentale dell’opposizione questa riforma come lo strumento di un accentuato potere del Primo Ministro e come la divisione federale dell’Italia. Di converso l’ultima finanziaria del centrosinistra è stata percepita come una scure severa su coloro che già pagano le tasse. La popolarità di questo Governo è scesa ad un italiano su quattro nel momento in cui si è capito che la mannaia fiscale era anche esagerata ed inutile e che in definitiva serviva a finanziare nuova spesa improduttiva.
Sono solo due esempi di come siano state interpretate dai cittadini le iniziative dei governi. Eppure il governo a prescindere dalla giustezza dei provvedimenti deve se necessario essere anche impopolare e la politica deve servire a rendere partecipe i cittadini alle scelte quantunque dolorose e severe. Non può essere politica l’azione, ad esempio, rivolta a creare discontinuità “tout court” con l’azione del precedente governo e neanche quella di concedere alle estreme concessioni nel campo sociale, ovvero etico, che soddisfino richieste di nicchia e che preoccupino e mortifichino la sensibilità di larghe fasce di cittadini.
Si prenda l’indulto ad esempio che ha visto consensi trasversali. Poteva avere valide ragioni per essere varato. Invece che essere discusso in modo strumentale, pensando agli effetti su Previti, doveva essere analizzato dal lato della più o meno pericolosità sociale dei fruitori. Doveva, forse, anche essere unito alla amnistia per sfoltire i tribunali dalle migliaia di falconi di processi minori e per reati senza pericolosità sociale, lasciando impregiudicati i percorsi civili per la salvaguardia dei risarcimenti e dei diritti economici. Così varato sta ancora producendo effetti senza senso in processi che vengono celebrati e con gli imputati a cui per effetto dell’indulto viene annullata la eventuale relativa pena, con comprensibili aggravi economici e di tempo. Questo indulto è stato invece percepito come un inciucio di interessi reciproci tra i due schieramenti ed è finito per essere inteso come indifferenza della politica ai problemi della sicurezza e delle città
Il Partito Democratico non risolve da solo la questione della crisi della politica e neanche quella della incapacità di una risposta coerente alla società che si trasforma. Senza che si risolvano le scelte di fondo in cui appare evidente, ad esempio, che Dini e Rutelli hanno un’idea diversa sull’età pensionabile da Damiano e Fassino e che la divisione tra i due poli in cui si sviluppa il bipolarismo in Italia ha una origine più complessa da una semplice collocazione di schieramento, il Partito Democratico, come oggi i partiti che lo formeranno, si contorcerà nelle sue contraddizioni.
Finché non sarà saldato il conto con il retaggio ideologico di una sinistra alternativa, nostalgicamente legata ancora alla lotta di classe, il PD non potrà assumere la dimensione di componente moderata della sinistra italiana in alternanza di governo con la componente moderata della destra italiana, in cui destra e sinistra stiano a significare da una parte spinte di scelte di libertà e di mercato, con le garanzie proporzionate allo sviluppo e, dall’altra, spinte di scelte di solidarietà e con lo sviluppo proporzionato alle garanzie.
In definitiva il bipolarismo in Italia è nato dall’assimilazione in un contesto di alleanze dei principali contendenti della vecchia politica, uniti tutti insieme per contrapporsi sia al nuovo, e cioè alla trasformazione in proposta politica di una coscienza di società aperta in cui il mercato prevale sui patti sociali e sulle ideologie, sia a coloro che erano stati ghettizzati perché al di fuori dei salotti buoni della politica, della cultura e della finanza. Nel nuovo sono confluite idee liberali, socialiste e cattoliche in una visione di democrazia liberale che non può prescindere dalla questioni sociali e dalle tradizioni etiche del Paese.
Il Partito Democratico, pertanto, se non si rifà al laburismo ed al socialismo europeo, non può che essere luogo della conservazione di istanze e contenuti, benché dignitosi e lodevoli per coerenza ideologica, di una proposta politica vecchia. Come obsoleta ed al di fuori della storia oggi può apparire una politica che si oppone alla globalizzazione dei mercati ed ai modelli di sviluppo che prescindano dai fondamentalismi ideologici e mirino al mercato in quanto fonte di ricchezza e benessere e quindi componente essenziale per i servizi sociali che oggi misurano il grado di progresso dei popoli.
Vito Schepisi

10 luglio 2007

La Rivoluzione Liberale del XXI secolo

In politica quasi tutto dovrebbe aggirarsi attorno alle questioni sociali, alle scelte economiche, agli strumenti per lo sviluppo produttivo ed occupazionale, alla gestione delle risorse. Il governo dovrebbe occuparsi degli investimenti nei servizi e nelle opere di pubblica utilità. Dovrebbe occuparsi di sicurezza, istruzione, sanità, difesa. Dovrebbe favorire la promozione di iniziative culturali che aiutino la diffusione delle nostre tradizioni e della nostra cultura nel mondo perchè ne possano ricevere le contropartite sia nel ruolo nel contesto internazionale che nelle scelte turistiche di cittadini provenienti dalle diverse regioni del mondo.
Alcuni servizi dovrebbero costituire il consolidamento di traguardi di civiltà e di strumenti voluti e realizzati per l’intera comunità e che per tale motivo siano soluzioni emerse da una larga condivisione. Tale che sia effettiva garanzia per tutti.
Le tasse in modo progressivo e relazionate al reddito sono generalmente pagate da percettori di reddito e beneficiari di patrimoni (almeno in teoria) e senza che si possa discriminare sulle idee dei contribuenti. Anche i diritti di ciascuno, pertanto, dovrebbero essere rispettati e senza eccezioni.
Un diritto fondamentale è quello della giustizia. L’esercizio deve corrispondere alla reale uguaglianza per tutti ed il diritto dell’utente, attivo o passivo, consiste nella richiesta di uno svolgimento senza discriminazioni di pensiero politico, di condizione sociale, di razza o di religione. Nessun privilegio per ricchi o per più capaci e nessuna penalizzazione per diseredati e meno capaci. Neanche il ruolo nella società può essere preso a motivo per considerare prevalente la funzione di uno rispetto a quella dell’altro. Un funzionario pubblico, come tutti ed in maniera uguale agli altri, deve godere degli stessi diritti ed avere gli stessi obblighi attribuiti a ciascuno.
Oggi, invece, non sembra che in Italia le cose siano in questi termini. Ci sono categorie che sono più uguali degli altri e servizi esercitati in modo assoluto, in modo soggettivo, ed anche pericolosamente invadenti delle prerogative degli altri. Ci sono categorie che godono di maggiori diritti ed altre di maggiori doveri e spesso con impegno inversamente proporzionale.
Si pensi ad esempio ai magistrati e per controverso alle forze all’ordine. I primi sembra che stabiliscano da soli i limiti dei loro obblighi mentre ai secondi vengono negati persino i diritti. Ai primi nell’ultima finanziaria è stata stralciata la norma che limitava gli aumenti dei loro salari, ai secondi si riservano risorse da fame. I primi non pagano mai, anche quando la loro azione è rivolta contro cittadini risultati innocenti, i secondi pagano sempre, anche senza responsabilità, ed in molte circostanze pagano anche prezzi al di là di ogni limite umano.
Ora sembra che il CSM si sia soffermato nella valutazione di azioni di controllo e di monitoraggio sui comportamenti e le azioni di alcuni magistrati. Non si sa ancora se in modo illecito per accesso a informazioni riservate o private.
I contenuti di questa azione, per quel che è dato sapere, si riferiscono ad un agente che avrebbe inserito nel proprio computer una serie di informazioni o schedature di alcuni magistrati impegnati più sul fronte politico che su quello dell’amministrazione della giustizia. La raccolta di informazioni, inoltre, sarebbe limitata ad episodi riportati dalla stampa o reperibili facilmente da siti accessibili su internet.
Se si fosse trattato della raccolta di informazioni relative alle attività di ingegneri o notai, ovvero medici, il caso non avrebbe destato alcuna attenzione, se non carpite con metodi illegali. Il solo fatto, però, che ha interessato i magistrati è fonte di clamore e di preoccupazioni, tale da far gridare alla richiesta di commissioni parlamentari ed addirittura, vedi Fassino (che faccia tosta!), all’individuazione di responsabilità oggettive da parte del Presidente del Consiglio del periodo.
C’è da porsi una domanda che emerge spontanea quando succedono episodi del genere: avevano od hanno i magistrati qualcosa da nascondere?
Se il politico ha da essere trasparente e la sua condotta debba apparire “come in una casa di vetro”, il magistrato lo ha da essere ancora di più. Il politico riceve un mandato dagli elettori ed è espressione della democrazia e delle istituzioni democratiche di un Paese. Il magistrato è un funzionario dello Stato che ha un compito molto delicato e possiede uno strumento di estrema pericolosità sociale che è quella della condizione di libertà dei cittadini. Il magistrato non deve avere niente da nascondere e non dovrebbe avere niente da temere dal controllo della sua attività.
E’ vero che si vorrebbe che la sua attività non sia monitorata da un Pio Pompa qualsiasi ma direttamente dai cittadini attraverso strumenti di controllo e vincoli che, come si dice, li obblighi non solo ad essere ma anche ad apparire al di sopra delle parti.
Si discute la riforma della magistratura ed i magistrati rifiutano ogni cambiamento, minacciano addirittura scioperi contro una riforma che non tocca neanche da lontano l’esercizio autoreferente di una attività che negli ultimi anni ha seminato molte perplessità. Una riforma che neanche prova ad adeguare l’esercizio dell’attività giudiziaria ai modelli in uso nelle civiltà democratiche dell’occidente e mantiene una assurda contiguità tra due delle tre parti del processo penale.
Si vorrebbe un’Italia democratica avviata a risolvere le questioni di tutti i giorni ed i bisogni di una società che cresce anche nelle esigenze e nella consapevolezza dei propri diritti. Siamo, invece, ancora a rincorrere gli equilibri della nostra civiltà dove ci sono funzioni e burocrazie che strozzano le libertà di ciascuno.
E’ proprio dalla giustizia che dovrebbe partire la rivoluzione liberale del ventunesimo secolo.
Vito Schepisi


05 luglio 2007

il Partito Democratico tra illusioni e finzioni

Da quando si è prospettata la candidatura di Veltroni alla guida del Partito Democratico tutti i quotidiani italiani hanno in prima pagina almeno una spalla sul Sindaco di Roma. Se ci fosse una classifica ponderata tra il peso della notizia e l’evidenza datane potremmo stabilire che quest’ultima sia inversamente proporzionale allo spessore politico dell’episodio.
I partiti politici hanno un naturale percorso dialettico di idee, programmi e uomini. Periodicamente celebrano i loro congressi dove sulla relazione del leader uscente, che sintetizza l’attività svolta e le strategie future, si sviluppa un articolato dibattito. Gli interventi e le mozioni offrono un ventaglio piuttosto ampio di ispirazioni, candidature, programmi, linee e posizioni assunte, e di percorsi politici proposti. La sintesi di un congresso è poi rappresentata dalle convergenze in maggioranze di più posizioni afferenti le tesi esposte, tutte rappresentative delle correnti di pensiero interne al soggetto politico. La notizia assume così spessore da prima pagina per tutta la durata del Congresso.
Nel caso di Veltroni invece è da oltre quindici giorni che i maggiori quotidiani italiani ci offrono piatti di minestre riscaldate di una pietanza senza sostanza. Non esiste una strategia chiara, non un progetto politico che vada oltre i disegni dei singoli, non una base di convergenze ideali. Solo una serie di luoghi comuni, esposti con enfasi a Torino, che hanno riscosso consensi e dissensi fuori e dentro la sinistra e tra le rappresentanze sociali. Più un’operazione di marketing anziché l’anima di un’ispirazione rivolta alla semplificazione della lotta ideale in cui etica, società e civiltà assumono dimensioni di scelte politiche. Gli interventi successivi di Veltroni sono solo un festival dell’ovvio. Si pongono in sintonia con le più pressanti richieste degli italiani: riduzione della pressione fiscale, lotta all’evasione e sicurezza. Nessuno spiega, però, quanto sia poco credibile un candidato del centrosinistra che per compiacere gli elettori sia costretto a ricorrere ad argomenti già ampiamente avanzati dal centrodestra.
Per il Partito Democratico non si è svolto un Congresso costituente e neanche si ha in proposito di svolgerlo, almeno per ora. Sono stati cooptati 45 “saggi”, calcolati con il bilancino del peggior manuale Cencelli, e si è cooptato un leader su cui far convergere l’attenzione della sinistra in gravi difficoltà per le cattive prestazioni del Governo di Prodi. Si è persino voluto affiancare a Veltroni il compagno di percorso, espressione dell’altra componente del Partito Democratico, il capogruppo della Margherita alla Camera Franceschini. Ora si pensa di contrapporre, sempre con operazioni di vertice, un’altra coppia (forse Bersani-Letta) perché appaia una sfida vera e si possa dar l’impressione alla base della sinistra di fare quella scelta che gli apparati hanno già fatto.
L’oligarchia del PD ha constatato che non era possibile cambiare il percorso del Governo per la paralizzante pressione della sinistra alternativa ed ha pensato di cambiare l’uomo di riferimento: il candidato alla guida. La sinistra è come una macchina che non cammina, per una serie di avarie al motore, a cui per farla sembrare più presentabile si ritocca la carrozzeria, dandone un aspetto diverso, col risultato che le avarie al motore restano e la macchina continua a non camminare ed il problema resta sempre irrisolto. Se il corso del fiume è in magra e le acque non sono sufficienti ad irrigare i terreni non si ricorre a cambiare il nome del fiume col risultato che le acque restano sempre scarse e le questioni rimangono.
La sinistra, in Italia come in Europa, è in crisi non per gli uomini che la rappresentano, anche se in Italia persino per questi, ma è in crisi per il vuoto di idee che riesce ad esprimere. Non basta solo stringersi quando si odia e ci si schiera contro qualcosa o qualcuno. Il problema non è solo Prodi che comunque riesce soltanto a far danni e dividere. La sinistra ha difficoltà nel ritrovarsi in un contesto dove liberismo economico, mercato, diffusione e pluralismo dell'informazione, pragmatismo aziendale, velocità delle decisioni, si scontrano contro barriere ideologiche, protezionismo, dirigismo, concentrazioni e soppressione delle fonti di informazione, rigidità aziendale, lungaggini e concezioni di forme di Stato pesanti ed obsolete.
C'è poi in Italia una sinistra alternativa, diversa dalla sinistra tradizionale europea, che è forte del 15% se non oltre degli elettori. Se la sinistra intera vince(?), come nel 2006 sull'onda di difficoltà economiche mondiali, allargate a dismisura e condite di sonore bugie, con 11 partiti e con almeno due concezioni diverse della società non ha la concordia per governare. Trova solo l’accordo per spartirsi il bottino moltiplicando i posti ed i costi.
Sono dunque deprovevoli le genuflessioni di gran parte delle testate giornalistiche che si sperticano in elogi senza porre attenzione ad alcuna analisi politica sul nascente partito e sugli uomini "cooptati" per governarlo. L’informazione che si ferma agli atti di fede, e che non si spinge a sollecitare la sostanza dei fatti e delle posizioni politiche, è un’informazione che disattende al suo scopo. Si vorrebbe sapere, ad esempio, in cosa Veltroni sarebbe diverso da Prodi.
Per fare da cassa di risonanza alle scelte dei gruppi politici ed agli uomini che li rappresentano ci sono già i fogli di partito, persino finanziati dai cittadini. Dalla stampa libera ci si aspetta qualcosa di diverso e non l’omologazione del verticismo e delle soluzioni di finta democrazia.
Nasce proprio male il Partito Democratico!
Nessuno ha sollevato problemi quando la stampa italiana nella passata legislatura ha criticato duramente la maggioranza di centrodestra ed il Governo di Silvio Berlusconi, anche quando le critiche erano solo la eco di strumentalizzazioni dell’opposizione di allora, che aveva una sviluppata abitudine a gridare allo scandalo ed ad individuare dietrologie su tutte le iniziative del Governo. Perché la stampa non fa altrettanto ora dinanzi all’inconcludenza di questo governo ed alla nascita di questo Partito Democratico tra illusioni e finzioni?
Senza fatti nuovi, senza una riga su cose concrete, resta solo una messianica attesa di icone salvifiche. La sinistra italiana si prepara al 14 ottobre per l’incoronazione del “messia” Veltroni: quasi un pellegrinaggio a Lourdes.

Vito Schepisi
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