31 maggio 2010

Metà manovra ce la siamo giocata



In tanti avevamo sperato che i provvedimenti per limare gli eccessi di spesa dei conti pubblici, anche se non risolutivi, non sarebbero stati l’ennesimo atto della solita commedia italiana. La stessa che, per opportunismo o per troppa mollezza, se non per furbizia, ci ha portati ad essere un esempio negativo nel mondo. Ce lo diciamo da troppo tempo che per impegno, determinazione, coraggio, lungimiranza e chiarezza avremmo bisogno di più estesa tensione morale, di più responsabilità politica e di maggiore spirito nazionale.
E’ accaduto che le manovre di macelleria sociale, anche nel recente passato, con Prodi, sono state adottate nell’indifferenza del Capo dello Stato. Ma se si tagliano gli stipendi, ai magistrati ed ai burocrati, da 80 mila Euro l’anno in su, sembra che per firmare a qualcuno tremi la mano.
Quando la barca rischia di affondare per troppo peso, si getta a mare la zavorra e tutto quanto sia di poca utilità o che renda instabile e non più manovrabile l’intera imbarcazione. Meglio perdere il carico, fosse anche costituito da lingotti d’oro e da oggetti preziosi, che perdere, con lo stesso carico, la nave e la vita. Meglio le rinunce di oggi che il rischio di pagare domani un prezzo ancor più insopportabile. E se si parla di zavorra o di “gemme” e di oggetti “preziosi” inutili, e poi di magistrati e burocrati, l’accostamento non deve mai considerarsi solo e sempre casuale.
Il Governo, le parti sociali, i vari ministeri, i magistrati, i partiti, i gruppi interni ed il Presidente della Repubblica diventano troppi filtri per un provvedimento di sacrifici e di responsabilità politica. Troppi per un intervento con le cesoie che doveva scontentare un po’ tutti, ma che dovrà anche servire a raccogliere risorse certe e visibili.
Tutti hanno le loro ricette, spesso fumose. Tutti rimandano, però, la palla nel campo avversario. Idee concrete? Nessuna! Tra i suggerimenti, solo i soliti: il primo è la lotta all’evasione fiscale, che è un coro di tutti, di politici e di gente comune; il secondo è il taglio ai costi della politica, che è invece un coro della sola gente comune. Ma quando occorre realizzare non valgono i buoni propositi e gli impegni a lungo termine. Gli effetti dei tagli devono essere, invece, immediati. L’effetto della riduzione della spesa deve essere più a portata di mano ed immediatamente percettibile.
Un intervento finanziario di un Paese della Comunità Europea, oltre che produrre effetti pratici sui conti, contribuisce a riflettere la fotografia politica dello stesso Paese, e serve anche a ridare slancio e fiducia alle istituzioni monetarie della Comunità. Con l’immagine e con gli atteggiamenti delle diverse parti (maggioranza, opposizione, istituzioni, parti sociali, funzioni dello Stato etc.), benché nei ruoli e con i toni diversi, l’Italia fornisce, pertanto, un quadro complessivo di maggiore o minore coesione nazionale, oltre che di complessiva responsabilità politica ed istituzionale.
Un Paese non sta in Europa, e non adotta la sua moneta unica, perché è governato dalla destra o dalla sinistra, o perché ha un sistema di democrazia rappresentativa di un tipo anziché di un altro, ma perché vuole concorrere ad una politica di stabilità e di crescita comune. In caso contrario sarebbe incoerente. Ma per stare seriamente in Europa è opportuno che nei paesi della Comunità si formi una coscienza complessiva che vada oltre il confronto politico interno. E’ indispensabile l’impegno di tutti i soggetti interessati perché si rispettino i trattati e le regole comuni adottate. Le tensioni politiche vanno, invece, lasciate a casa.
Ciò che sta succedendo in Italia, invece, per una manovra ritenuta da tutti indispensabile, non è affatto una buona risposta ai mercati, né alla credibilità del Paese e neanche ai partner europei. Non rende affatto l’idea di voler fare sul serio. A parità di flussi economici realizzabili per il riequilibrio dei conti italiani, una metà manovra ce la siamo già giocata come effetto e come barriera psicologica da opporre alla speculazione. Continuiamo, cioè, a farci del male da soli. C’è purtroppo ancora un’Italia masochista. Permane la vecchia cultura ideologica del tanto peggio, tanto meglio. Viene da pensare che chi lo fa stia troppo bene! Nevvero Epifani, Palamara, Bersani, Napolitano, Di Pietro?
La Grecia, Il Portogallo, la Spagna non sono solo paesi vicini all’Italia nell’area mediterranea dell’Europa, ma sono vicini al nostro Paese per l’uso che è stato fatto in passato della spesa pubblica: un serbatoio a cui attingere per risolvere le tensioni sociali, un fondo senza fine che hanno sempre pagato le famiglie dei lavoratori ed i risparmiatori con l’inflazione e che salderanno le generazioni future.
Ora, però, questo giochetto è finito. I consociati di una volta (partiti, parti sociali, istituzioni, burocrati, banche, finanza e caste), per evitare il fallimento del Paese devono essere fermati. In Italia, come e forse più che in Grecia, Spagna e Portogallo il debito pubblico ha finanziato gli abusi, i partiti, la corruzione, i privilegi e le mafie. Nessuno, a questo punto, può pensare di farla franca dinanzi a 1800 miliardi di debito pubblico. E la sinistra ha le responsabilità maggiori, e non ha alcun titolo per chiamarsi fuori.
Vito Schepisi

26 maggio 2010

Manovra necessaria ma non coraggiosa



Sulle reazioni alla manovra, niente di nuovo. Epifani ha detto ciò che si pensava che dicesse, Il Presidente della Conferenza delle Regioni Errani, altrettanto, Di Pietro ha aperto la bocca per chiedere, anche ieri, le dimissioni di Berlusconi e Bersani sembra tanto Gino Bartali col suo “è tutto da rifare”. Casini, invece, sospende il giudizio, richiama le parole del Presidente Napolitano e chiede di pensare alle famiglie.
Tutto come da copione!
Cerchiamo d’esser seri, però, se ci riesce. La manovra da 24 miliardi di Euro in due anni contiene cose scontate. I provvedimenti approvati dal CdM, per lo più, erano già sulla bocca di tutti da qualche settimana. Lo erano almeno da quando la speculazione, traendo spunto dalle difficoltà dei conti pubblici della Grecia, ha preso d’assalto l’Euro e le borse dei paesi che adottano la moneta europea.
Gli interventi della Commissione Europea, quali il sostegno alla Grecia con l’erogazione di un prestito che consentisse al paese di Socrate e Platone (come è stato rilevato da Prodi e compagni in occasione del suo ingresso tra i paesi dell’Euro) di onorare gli impegni finanziari in scadenza, e la costituzione di un fondo che servisse a fronteggiare l’urto speculativo degli “squali” dei mercati, si sono mostrati utili, anzi utilissimi, ma non sufficienti.
Gli altri provvedimenti di singoli paesi, come quello solitario della Germania di impedire la trattazione dei titoli allo scoperto, sono risultati inefficaci, se non dannosi. E’ buona, invece, l’idea di un’agenzia di valutazione del debito di matrice europea, fuori dal controllo della speculazione, ma sarebbe inefficace se il debito pubblico in Europa, nella sua globalità, non dovesse scendere. Meglio, infatti, intervenire sulle cause che mitigarne gli effetti.
Ogni Stato europeo, per fronteggiare l’assalto, deve fare la sua parte. E deve farla subito, prima che gli attacchi speculativi, come è successo per la Grecia, uniscano al danno altro danno.
Da questa crisi emergono almeno due segnali di criticità per la moneta unica europea e per riflesso per i mercati finanziari. Una può essere risolta con un coraggioso impegno politico e coi sacrifici dei cittadini, ma l’altra, al momento irrisolvibile, non è meno importante.
E’ evidente che la prima delle criticità, la risolvibile, è quella che mette in discussione il ricorso al debito pubblico per finanziare sia gli investimenti che il sistema sociale degli stati europei. Va bene il debito utilizzato per gli investimenti, quando funge da leva per produrre ricchezza, meno bene, invece, quello contratto per sostenere l’onere dei servizi e della spesa sociale. Sotto la lente d’ingrandimento per il debito pubblico, ora, sono quasi tutti i paesi europei, anche quelli politicamente ed economicamente più solidi. La recessione ha messo a dura prova il sistema finanziario di molti paesi. Molte banche hanno rischiato la chiusura. L’Italia, per fortuna, è rimasta quasi indenne da questo pericolo, ma sul fronte del debito aveva già problemi di suo.
L’altra criticità riviene dal fatto che alla moneta europea manca un riferimento diretto coi mercati mondiali delle materie prime. Per intenderci manca quell’aggancio, come l’ha il dollaro, al mercato internazionale dei rifornimenti primari al sistema produttivo, come il petrolio, ad esempio.
Se l’Euro fluttua la partita è tutta finanziaria. Se la moneta europea perde valore rispetto al dollaro, serviranno più Euro per l’acquisto della materie prime. E qualora, per effetto dei cambi, si creino vantaggi per la collocazione dei prodotti europei sui mercati, succede che i paesi coinvolti adottano misure protezionistiche, come accade spesso negli Usa. In teoria la fluttuazione dell’Euro può essere utilizzata producendo enormi guadagni speculativi, pur mantenendo invariati i flussi di mercato sulle materie prime. Che pacchia, ad esempio, per gli sceicchi, padroni del petrolio, che ricavano dollari che utilizzano sui mercati europei per comprare, a prezzi stracciati, pezzi di territorio e partecipazioni industriali!
Ma torniamo all’Italia ed alla manovra. C’è da rilevare che, rispetto alle dimensioni degli interventi di altri paesi europei, e se rapportato al debito pubblico estremamente elevato, il coraggio italiano si è rivelato abbastanza timido. La manovra risente di un clima politico difficile, ma soprattutto di molta preoccupazione per la coda della crisi recessiva. In una fase di lenta crescita della produzione industriale è, infatti, da evitare che la riduzione della spesa finisca col comprimere la possibilità di dar respiro ai consumi, penalizzando così la stessa ripresa e l’occupazione.
Ciò che manca nel piano del Governo è un taglio più deciso delle spese e soprattutto appare carente lo spessore strutturale delle misure. Se analizziamo la manovra, consistente in tagli, risparmi ed entrate per 12 miliardi ad anno per i prossimi due, e se dall’altra parte, ad esempio, ci si sofferma sul costo per interessi del debito pubblico pari a circa 70 miliardi di Euro ad anno, si capisce che il discorso sul debito pubblico e sui tagli non si chiuderà qui. Se non arriverà la ripresa, e se non aumenteranno le entrate, sarà sempre più difficile contenere la spesa senza adottare ulteriori tagli. Molto difficile!
Vito Schepisi

25 maggio 2010

Il Pd incapace di intercettare il consenso



C’è ancora chi continua a credere che nel PD vi siano nobili sentimenti politici ancora inespressi. C’è chi pensa che siano state un po’ le vicende della contingente stagione politica, un po’ la diffidenza reciproca tra uomini con storie diverse, le difficoltà dell’amalgama ed, infine, il timore del nuovo, ad aver giocato un ruolo di freno alle potenzialità del partito guidato da Bersani. Ma c’è anche chi pensa, invece, che con le idee confuse e senza una leggibile strategia politica, sia più difficile ottenere la fiducia del Paese.
E’ evidente che, senza esser capaci di interpretare la società ed i suoi problemi, e reiterando persino la pretesa di giudicare gli elettori, sia inevitabile che si finisca col giocare un ruolo di secondo piano. Il Pd sembra un partito che si fa dettare la linea da altri. Ha al suo interno sentimenti e passioni che i vertici non riescono a controllare e guidare. Se non riuscirà a liberarsi del suo passato e di tutti quei personaggi che per una parte hanno sostenuto il mito della “felicità” comunista e per l’altra il cedimento e la rassegnazione al peggio, è difficile che il PD riesca a trovare la strada per diventare un vero partito democratico e riformista.
Prima e dopo le elezioni, prima e dopo il congresso, e con la conferenza programmatica di Roma, del Partito Democratico resta sempre la fisionomia del primo momento: un partito ora rancoroso, ora velleitario, soprattutto privo di idee e senza nessuna proposta. Un partito a metà strada tra l’immagine del Presidente Rosy Bindi, intollerante ed incapace di aperture di respiro politico, e quella del segretario Luigi Bersani che, formatosi nell’ipocrisia del vecchio Pci, adegua la linea del partito all’esatto contrario della proposta politica dell’avversario. Lo stesso metodo, illiberale ed autoritario, che induce tutto il PD a supporre che sia sufficiente dare un’idea criminale dell’avversario politico per conquistare il consenso popolare.
Più che riflettere sui contenuti della Conferenza nazionale celebrata dal PD, con conclusioni del tutto scontate, occorrerebbe invece riflettere sulla necessità, avvertita dal suo segretario, di dar la parvenza di un partito unito e capace di parlare con un’unica voce. E’ il caso di riflettere, ad esempio se, nel tempo di internet e delle comunicazioni, un partito possa permettersi di avere più voci, spesso in controcanto tra loro.
La riflessione vale per tutti. Vale, infatti, anche per il Pdl, in cui emerge l’azione di controcanto di Fini e dei suoi sostenitori. Il Pdl è anche l’asse portante della maggioranza che esprime il Governo e la polifonia delle voci al suo interno, per forza di cose, assume maggior rilievo politico.
Se il confronto delle idee, in democrazia, è un valore aggiunto, soprattutto quando serve per creare l’amalgama su idee e progetti, diventa, invece, un problema quando paralizza le scelte già fatte e quando alimenta confusione, disappunto e fastidio tra gli elettori.
Tornando al PD, non si sa se prevarrà, ma c’è la volontà di riprendere la strada del centralismo democratico. Il segretario ripropone la storia d’un tempo nel PCI. In quella “cosa” politica che non riesce a rinnovarsi nei metodi e nei programmi, ed in cui non emerge niente che faccia presagire per il futuro qualcosa di diverso dalla solita trama, si sta formando, di contro, la convinzione che l’immagine di un partito che discute, ma converge, sia molto più attraente di quella di un partito in cui si parlano lingue diverse ed in cui prevale la cultura della distinzione. Se quello di Bersani ora diventerà un intuito vincente dipenderà dal Pdl. Non sempre si vince sui meriti propri. Molto spesso, infatti, si prevale per gli errori degli altri.
Per il resto, nel PD, si conferma la solita carenza di idee e si consolida la percezione di un partito che si schiera sempre contro il Paese, contro il suo tessuto sociale fatto di famiglie, di anziani, di giovani, di lavoratori, di professionisti, di artigiani, di manager e di imprese. Manca il coraggio della responsabilità e manca il sostegno alla soluzione delle criticità del Paese. Assumersi le responsabilità del passato sarebbe, invece, un grande segnale di serietà e sarebbe anche un atto apprezzato dagli elettori.
Poca cosa, però, il PD di Bersani per l’ambizione di essere la componente riformista della democrazia italiana. E’ scarsa la tensione ideale di una nuova sinistra che voleva accantonare le spinte ideologiche per aprirsi, invece, al pluralismo. Resta la mancanza di convinzione per un rinnovato soggetto politico che voglia raccogliere le sfide dell’economia ed aprirsi al mercato ed alle sue regole. Permangono troppe contraddizioni per una forza popolare che voglia veramente dismettere la fisonomia del partito di lotta e di protesta, per assumere, invece, quella della fucina produttiva di proposte di governo.
Il PD non sa riflettere sugli errori, ma si lamenta perché non è capace di intercettare il consenso del Paese.

Vito Schepisi

20 maggio 2010

Libertà di dire e libertà di riferire





Ma la libertà di dire è tutelata come la libertà di riferire? In Italia questa domanda non è mal posta, in particolare ove si parli di libertà di stampa. Occorre chiederselo quando si discute di quei provvedimenti legislativi resisi necessari per tutelare il diritto di tutti alla riservatezza.
E’ la stessa questione che qualche anno fa, con la sinistra al Governo, fu avvertita anche dal maggior partito d’opposizione. Solo che in quella circostanza, al momento di trovare una soluzione, emerse una diversa sensibilità e tutto fu accantonato. All’interno dell’Unione di Prodi, instabile nei numeri, giocarono il ruolo di freno sia la componente giustizialista, portavoce della casta dei magistrati, che le forze della sinistra alternativa, in crisi di identità per l’ambiguo ruolo tra l’essere parte della maggioranza e fautrice dell’opposizione al sistema.
C’è, però, che in Italia, quando s’avverte la necessità di porre dei limiti, quando è in gioco un diritto di libertà, uno stesso provvedimento non può trovare applicazione per tutti. Della serie: la legge si interpreta per gli amici e si applica per gli avversari. C’è sempre almeno uno per il quale anche il diritto si trasforma in abuso e per il quale si vorrebbero leggi speciali, se non l’obbligo di scomparire, anche se con azione violenta.
E non può reggere affatto la stopposa obiezione della vita privata dell’uomo pubblico trasparente come un contenitore di vetro. Nessuno è una macchina. Tutti hanno diritto ad una parte di vissuto quotidiano che deve restare inviolabile e riservato. Tutti hanno diritto alle debolezze, alle fantasie, ai sospiri, ai sogni, alle megalomanie, agli scatti d’ira, ai sentimenti ed ad esprimersi in libertà. Parlare in privato, senza il timore d’essere intercettati, ad esempio, è una libertà che non può essere svenduta per nessuna ragione.
Parlare di politica, di sport, di donne, di economia, di fatti personali, di gusti, di abitudini, di tendenze, di pulsioni, di fantasie, di desideri, ma anche arrabbiarsi, insinuare, imporre, infierire, raccomandare, suggerire, sono peculiarità che fanno parte della natura relazionale ed impulsiva dell’uomo, come ne fanno parte il vizio di trascendere nelle espressioni o la debolezza di farsi trascinare nelle emozioni. Non si può comprimere il bisogno di esprimersi, né mettere alla berlina le debolezze umane. L’uomo nasce come un contenitore di passioni e di contraddizioni: è imperfetto per carattere e costituzione. Kant sosteneva che l’uomo fosse come un legno storto: ”Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto”.
Ciò che si dice in privato non può essere in se oggetto di reato, ma neanche deve essere posto all’attenzione della pubblica opinione. A dividere ed ad alimentare la voglia della gente di trarre giudizi, bastano già le televisioni con i reality, le fiction, i talkshow, i programmi di approfondimento e persino con lo sport. Il gusto del dileggio è invece rozzo e medioevale. In Italia sono tutti giudici, proprio come succede per lo sport nazionale, come sono tutti commissari tecnici della nazionale di calcio. Non c’è uomo, donna, vecchio o bambino che non sia pronto a giudicare il suo prossimo. Si colpevolizza ogni cosa, persino le opinioni ed i pensieri, persino le conoscenze e le amicizie.
Ma quello di denigrare l’avversario è un metodo che fa parte della mentalità repressiva dei regimi illiberali. Il giustizialismo è il più pericoloso ed incivile metodo di strumentalizzazione politico-giudiziaria dei comportamenti ritenuti illeciti. Solo la magistratura, invece, come previsto dalla Costituzione, e servendosi delle funzioni di indagine e di pubblica sicurezza dello Stato, ha il compito di prevenire, sanzionare e reprimere i delitti. La funzione giudiziaria non l’hanno, invece, i politici che spesso fingono di ignorare la trasversalità dei reati, e neanche i giornalisti, e tanto meno l’hanno quei “tribunali speciali" allestiti nelle trasmissioni televisive di approfondimento, senza garanzie, senza difesa e senza rigore procedurale. Un metodo aggressivo e violento che si trasforma in intollerabile gogna mediatica e che spesso annienta la vita di gente innocente.
Quasi nessuna intercettazione di rapporti confidenziali tra gente libera e non sottoposta ad indagine giudiziaria, tra quelle che transitano sui giornali, si trasforma poi in una contestazione di responsabilità penale che regga nelle aule di un tribunale. Quale è allora lo scopo di carpire il privato e diffonderlo?
I reati vanno sempre accertati nelle situazioni reali, non attraverso l’orecchio del “grande fratello”. Anche la trascrizione di uno scambio di battute telefoniche può essere fuorviante. Secondo i toni, le pause, il contesto, si può trasformare un proposito lecito in un altro illecito. Si può sputtanare una persona travisando le sue parole ed i suoi propositi. Si può criminalizzare l’ironia, colpevolizzare le debolezze, strumentalizzare persino il travaglio psicologico di persone sottoposte allo stress di un procedimento giudiziario. Si può anche, come si è visto ad esempio con una intervista al Giudice Borsellino, far dire ciò che invece non era stato mai detto, mixando artatamente interviste diverse.
In uno Stato di Diritto le responsabilità vanno accertate nei Tribunali e chi sbaglia è chiamato a risponderne. Il procedimento penale è pubblico e c’è sempre una sentenza pubblica. Ma la condanna, se c’è, viene dopo e non prima: viene sempre dopo l’accertamento della verità e non stabilita in un processo mediatico.
Vito Schepisi

17 maggio 2010

Idee, determinazione e coraggio


Dopo l’intervento per salvare dal fallimento la Grecia, e dopo il piano di stabilizzazione contro la speculazione varato dalla Commissione Europea, la speculazione torna all’attacco dei mercati della zona dell’Euro. Sotto l’occhio del ciclone, come per la Grecia, finiscono le previsioni di aumento del debito pubblico dei paesi europei. Tutto come da copione della serie: i nodi tornano sempre al pettine.
La crisi economica, partita da oltreoceano, e legata alle bolle finanziarie dei mercati derivati, non soltanto ha fatto emergere la fallace illusione della ricchezza fittizia di una finanza che si avvolgeva come una spirale intorno al denaro virtuale, ma ha anche evidenziato la gracilità di un sistema che si becca la polmonite al primo accenno di vento.
Ora in quasi tutti i paesi europei e non solo, Italia compresa, si parla insistentemente di interventi e manovre per tagliare le spese e gli eccessi. Il debito pubblico in molti Stati è diventato una palla al piede e svilisce sia le politiche di sviluppo, che le politiche sociali, mentre favorisce le aggressioni speculative ai mercati. Si vive quasi dappertutto al di sopra delle possibilità. E c’è chi non può permetterselo. C’è un’abitudine allo spreco e lo si fa con le risorse energetiche, economiche, alimentari ed ambientali. Gli sperperi, invece, vanno recisi ad ogni costo. In Italia, ad esempio, anche a costo di una crisi di governo e di elezioni anticipate.
Il debito pubblico italiano al 31 dicembre 2009 è salito a 1.760.765 milioni di euro, pari al 115,8% del prodotto interno lordo. Una cifra enorme! E non si ferma, va avanti.
Se gli italiani, tutti insieme, per ipotesi, lo scorso anno avessero deciso di saldare tutto il debito, destinando a questo fine tutte le attività del Paese, non ci sarebbero riusciti. Lavorando e devolvendo tutto il salario, rinunciando agli utili e restituendo ogni ricavo, gli italiani avrebbero coperto solo l’86,37 dell’intero debito. Il PIL nel 2009 è stato, infatti, pari a 1.520.870 milioni di euro.
Con la previsione di un rientro graduale, o se si consolidasse l’esposizione, mantenendo invariata la sua incidenza, l’impegno, seppur gravoso, potrebbe anche andar bene, ma non è così. Nel 2009 il debito è cresciuto del 5,2% del PIL e per l’anno in corso le previsioni indicano sempre un disavanzo. L’inversione di tendenza viene, invece, rinviata di anno in anno.
Per capire, si pensi ad una famiglia che ha comprato la casa, gli arredi, l’automobile e tutto quanto necessario per una vita dignitosa. Bene! Ma si pensi che questa decisione, pur ponderata con sofferenza e presa con consulto di famiglia, con carta e penna, estratto conto bancario, buste paga e preventivi, la famiglia l’abbia presa non disponendo di mezzi propri, ma contraendo debiti, e che si sia illusa che così facendo potesse essere tutto più facile.
Un mutuo a lungo termine per la casa. Un prestito a medio termine per l’automobile e per gli arredi. Lo scoperto di conto corrente per pagare le rate dei prestiti e mutui, le spese di condominio e le utenze. La carta di credito revolving per le spese correnti, la continuità della vita sociale, l’abbigliamento ed i piccoli oggetti di “cult”. Il bancomat per disporre del contante per il bar, la paghetta ai ragazzi, la benzina alla macchina, il superenalotto (sperando nel colpo di fortuna), lo stadio, il parcheggio, i fiori alla moglie ed il cinema.
Se non vince al superenalotto, questa famiglia, prima o poi, si trova con il conto in banca bloccato e senza più gli arredi e l’automobile, pignorati dai creditori. E si trova senza più la casa, dopo l’attivazione della garanzia ipotecaria della banca.
Il debito se contratto con responsabilità può avere una virtuosa funzione di crescita, e può favorire la convenienza economica di un investimento. E’ così quando favorisce l’acquisto di un bene duraturo, mettendo subito a disposizione le risorse economiche necessarie, mentre ne scagliona nel tempo la restituzione. Quando consente di incrementare la consistenza patrimoniale o , per un’azienda, di dotarsi degli strumenti per la produzione, ovvero dell’elasticità di cassa necessaria per il ciclo produttivo. Ma un debito esercita questa funzione virtuosa, quando il suo costo non mette in discussione il fruire di ciò che è necessario per la vita di una famiglia o, nel caso di un’azienda, quando consente alla stessa di essere puntuale e corretta nei rapporti coi fornitori e con le maestranze.
Perché il debito sia una vera opportunità di crescita, e non una diminuzione della soddisfazione di vita di una famiglia, o un immobilizzo finanziario per un’azienda, è indispensabile la rinuncia al superfluo.
Ma è stato così in Italia? Il Paese ha mai rinunciato al superfluo per onorare i suoi impegni? Si direbbe di no! Per farlo si dovrebbero tagliare le spese, iniziando dai privilegi e dagli sprechi. Ma non è stato mai fatto.
Dai costi della politica a quelli delle caste, dalle spese delle consulenze a quelle della burocrazia, dagli stipendi ai burocrati a quelli dei manager pubblici, e poi l’incuria e l’improduttività del patrimonio pubblico, gli abusi ed i piccoli e grandi furti, i benefit, le agevolazioni ed i fannulloni che rubano lo stipendio. Le doppie e triple pensioni e persino la cresta a piè di lista. C’è una giungla di costi inutili ed esagerati e di sprechi. Ci vorrebbe una scure!
Tagliare diventa una necessità, prima che ce lo impongano gli altri. Serve responsabilità, ora. Si venga fuori dalle diatribe ideologiche: non c’è centrodestra o centrosinistra che tenga. Conta la volontà politica di chi ha le idee chiare, la determinazione necessaria e soprattutto il coraggio.
Vito Schepisi

13 maggio 2010

Mentre Fini va per far futuro


Mentre Fini va per far futuro, il Paese deve fare i conti con il presente. Se il Presidente della Camera sostiene che ci siano alcuni nodi politici da sciogliere nella maggioranza, l’Italia della gente comune sostiene, invece, che ci siano dei nodi etici da risolvere nell’intreccio tra politica ed impresa e tra pubblica amministrazione ed appalti. Questi nodi, però, si risolvono senza troppe chiacchiere, ma solo con la trasparenza e le riforme.
Se c’è chi ha pensato che in Italia le stagioni dell’incomprensione tra pubblica amministrazione e cittadini fossero tramontate, dovrà ora ricredersi. Ritornano, infatti, sia l’uso del malaffare nella gestione dei servizi e degli interventi, che la difficoltà dei Palazzi nell’interpretare i sentimenti del popolo. Si avverte di nuovo la politica come una “casta” di privilegiati, di affaristi e di corrotti. E si teme il ritorno della politica dell’indifferenza e della strumentalizzazione dei bisogni.
Il lavoro svolto su alcune questioni d’emergenza nel Paese, i tempi rapidi d’intervento e l’impegno profuso, come le prove di competenza e di responsabilità emerse nel gestire i conti del Paese, sono stati alla base del gradimento nell’opinione pubblica verso il Governo in carica. Una fiducia premiata con le conferme del consenso elettorale nelle consultazioni di volta in volta succedutesi. Un consenso trasversale dal Nord al Sud a testimonianza di una consapevolezza diffusa.
La crisi della politica, sbandierata da alcuni dei leader più discussi della sinistra, sembrava che potesse dissolversi. Le criticità, infatti, emergevano soprattutto a causa della perduta identità di alcuni nuovi e/o trasformati soggetti politici. A ben vedere, era entrata in difficoltà soprattutto l’idea di quelle forme partito che finivano per rendere il dibattito simile ad un confronto “stellare”.
Sembrava, persino, che si potessero accantonare, relegandoli ai rigurgiti della vecchia politica, quegli scontri apodittici sulle cose che non stavano né in cielo e né in terra: quelli che cozzavano contro la realtà, i tempi, la logica ed il buonsenso. Una specie di liberazione da tutti quei sofismi e quei principi teorici con i quali la gente non mette su famiglia, non mangia, non si cura, non può comprar casa, non si veste, non apprende, non si diverte e non viaggia. In crisi di credibilità venivano a trovarsi coloro che si ponevano nelle nicchie di autoreferenzialità e che incuranti dei problemi ricercavano solo gli spazi di un potere da gestire.
E’ per questa ragione che, oggi, appare incomprensibile che una parte della destra italiana indichi nelle difficoltà del Meridionale, e nelle due velocità del Paese, le questioni da porre al centro dell’attenzione politica del governo, e che lo faccia in modo tale da farne causa scatenante di una possibile frattura, o quanto meno di trarne motivo per la nascita di una minoranza organizzata all’interno del Pdl.
In Italia la questione meridionale esiste. L’anniversario dei 150 anni dell’Unità favorisce anche la ripresa di una vecchia contesa politica ed intellettuale, ma le differenze nello sviluppo e nelle risorse tra nord e sud sono secolari e non certo accentuate da questo Governo: e solo per la presenza della Lega Nord. Anche la riforma sul federalismo fiscale, già approvata con larghissimo consenso in Parlamento, può essere un’opportunità per il Sud. La responsabilizzazione nel reperimento e nell’utilizzo delle risorse può servire per correggere la spirale della spesa, per dare una spallata all’assistenzialismo clientelare, per abbattere gli interessi mafiosi. Lo sviluppo del Mezzogiorno passa, infatti, attraverso gli investimenti finanziari per il rilancio produttivo e per la rete dei servizi funzionali alla circolazione delle merci ed attraverso la valorizzazione al meglio delle risorse che il territorio mette a disposizione. Lo sviluppo non passa, invece, attraverso le strumentalizzazioni, la demagogia, la retorica ed i finti paladini della causa Meridionale.
Anche nel centrodestra emerge, invece, una parte della politica che riconduce allo sterile confronto sulle parole. Mentre l’Italia s’era mostrata stanca del “politicamente corretto” che consentiva di evitare di fare i conti con la realtà, sempre molto diversa e foriera di riflessioni e di dubbi, accade, oggi, che dopo la politica del fare che ha entusiasmato e ridato fiducia agli italiani, si riaffaccino anche nel centrodestra i tranelli, le furbizie, le lotte di potere mascherate dai distinguo sulle scelte di governo, sulle leggi, sulle riforme, sui programmi già concordati. Il timore è che si ritorni al confronto sulle teorie, sulle questioni ideologiche e sui motivi d’una differenza del sentire, invece che affrontare i problemi per portarli a soluzione. Il timore è che mentre Fini va per il futuro, l’Italia, affamata invece di riforme e trasparenza, riprenda ad andare a rotoli.
Vito Schepisi

10 maggio 2010

Ripensare l'Europa


Tremonti l’aveva detto dal primo momento, ma ogni volta che si è soffermato su questo argomento, giù critiche, giù accuse di raccontare panzane, giù un coro di invettive dal versante sinistro. L’economista del governo Berlusconi è stato accusato di strumentalizzare a fini politici l’eccesso di remissività di Prodi. L’attuale Ministro dell’Economia, infatti, all’epoca aveva mosso obiezioni sull’operato dell’ex Premier dell’Ulivo nel gestire l’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo e poi, da Presidente della Commissione europea, nel gestire l’allargamento agli altri paesi nell’area dell’Euro.
Troppa retorica a buon mercato. Romano Prodi si è mostrato troppo interessato ad esaltare il suo ruolo. Ha collezionato troppi cedimenti al suo solo protagonismo trionfalistico, entrando in palese conflitto con la realtà e finendo con l’agire anche a discapito dello spirito europeista.
Sta di fatto che l’Europa di Prodi mal ha potuto reggere, come si è visto, a tanta leggerezza.
Tutti, però, nell’Ulivo, poi nell’Unione e poi infine nel PD a difendere Prodi. Tutti a lodare i meriti del Professore, come Marcantonio dopo l’uccisione di Cesare. Ma come si spiega, di contro, tanta fretta, ogni volta, nel volersene liberare? Perché tanti Marcantonio ad arringare i romani in difesa dell’onore di Cesare, ma solo dopo averlo lasciato assassinare?
“Due volte nella polvere, due volte sull'altar”. Fu vera gloria la sua? Quello del Manzoni, però, era ben altro uomo e ben altra tempra. I posteri in questo caso sembra che dicano di no!
Tremonti nel 2001 è stato accusato, dalla sinistra che aveva perso le elezioni, di voler nascondere le insicurezze del centrodestra, e di voler precostituire le motivazioni delle difficoltà nella gestione dei conti. La sinistra si difendeva così dalle accuse del ministro berlusconiano che sosteneva, anche, che il governo Amato uscente avesse falsificato i conti e nascosto il disavanzo reale del bilancio dello Stato. Cosa che Eurostat in effetti accertò. Le sue accuse a Prodi ed alla sinistra, ed ai governi succedutisi in quella legislatura e diretti, oltre che dallo stesso Prodi, anche da D’Alema e da Amato, era di aver svenduto gli interessi nazionali e, nella fase della negoziazione dell’ingresso italiano nel sistema monetario europeo, di aver negoziato un rapporto di cambio a netto svantaggio del Paese. Giulio Tremonti al contrario, era stato accusato a sinistra di volersi nascondere dalle proprie responsabilità addossandole preventivamente sugli altri, e di aver mal gestito il passaggio dalla Lira all’Euro, consentendo l’aumento dei prezzi al consumo, come se in Italia ci fosse il modo, al di fuori delle regole di mercato, di congelare i prezzi delle merci.
Il rapporto Euro-Lira, secondo Tremonti, ma anche ad avviso di milioni di italiani che, benché a crudo di economia, ne subivano l’esperienza diretta, grazie a Prodi, aveva invece profondamente penalizzato il nostro Paese, dimezzando il potere di acquisto dei salari e riducendo alla metà il valore dei loro risparmi.
Tutte le vecchie certezze degli ex euro-euforici ora, però, vacillano. Adesso sembra che non sia stato davvero tutto così perfetto, se persino Il Presidente Ciampi mostra un certo ravvedimento e se, dinanzi a fatti incontrovertibili, vengono recuperate oggi alcune vecchie obiezioni degli euro-scettici di ieri.
Fino al 2000, per ironia della sorte, chi nutriva perplessità veniva additato come colui che agiva contro gli interessi dell’Italia. Chi sollevava obiezioni appariva come un nemico del nobile intuito politico, emerso nel dopoguerra per iniziativa di uomini moderati e liberali come Gaetano Martino, mirante alla realizzazione dell’Unione Europa. Quella stessa che con volontà decisamente politica, prima che economica, con visione autonoma e con collocazione politico-culturale essenzialmente occidentale, prima della caduta del Muro a Berlino, veniva invece osteggiata dalla sinistra social-comunista.
C’era qualcosa di sbagliato, invece, non nell’idea che resta nobile dell’unione degli Stati europei, ma solo in quella tronfia e bofonchiosa retorica prodiana!
Tremonti accusava Prodi di troppa rassegnazione e di assoluta inerzia nel sostenere le ragioni dell’Italia, nel negoziato con gli altri stati europei, per l’avvio della moneta unica. Prodi confermava, infatti, l’impressione, in altre occasioni già emersa, d’avere una visione negativa del Paese, come quella a lui più confacente del liquidatore che si presta a compiacere gli amici potenti. Senza determinazione, privo di coraggio, rassegnato, come se la missione d’assolvere fosse quella di non disturbare la volontà dei più forti. Come se pensasse che subire sia bello: come per Padoa Schioppa pagare le tasse!
La stessa rassegnazione che con il centrosinistra abbiamo imparato a conoscere nelle fasi più delicate della politica italiana. Un’inerzia che si è manifestata anche nei rapporti coi poteri e con le caste: dall’industria alla finanza, dalla magistratura ai sindacati, dall’editoria alle banche. Un inspiegabile ma reiterato complesso di inferiorità. Un umiliante mettersi in riga che ferisce l’orgoglio del Paese.
Da oggi, però, l’Europa cambia. Il pericolo e le troppe incomprensioni, le diverse realtà sociali, le aggressioni speculative, il debito dei Paesi, la spesa, le diverse velocità dell’economia e le tattiche politiche nazionali, hanno fatto emergere molte contraddizioni. Ora occorre ripensare l’Europa.
Vito Schepisi

07 maggio 2010

La Grecia fa paura



L’altalena delle borse ed i nuovi venti di panico, innescati dal tracollo del sistema economico della Grecia, sono altre tegole che si fiondano sui mercati, sul sistema finanziario, sulle economie dei Paesi industrializzati, sulla debolezza dei governi europei. E’ un'altra tessera del puzzle delle incertezze e delle incomprensioni politico-economiche dell’Europa, ma anche un altro mix di polvere pirica in cui si dimenano due scuole di pensiero formatesi sul debito, sugli investimenti, sulla spesa.
Il crollo dell’economia greca è scaturito dal dilatarsi del debito pubblico e dall’uso della spesa statale per tamponare gli effetti negativi della crisi recessiva dei mercati e per difendere l’occupazione e la stabilità sociale del paese ellenico. Il risultato è stato inversamente proporzionale alle speranze. E’ stato dirompente e rischia di trascinare nel vortice del panico finanziario mezzo mondo.
Da una parte, in Grecia, il crollo del prodotto interno ha favorito il rafforzarsi di un rapporto insostenibile col debito pubblico, che ha raggiunto il 180% del Pil stesso. Vale a dire un euro e ottanta centesimi di debito per ogni euro prodotto nel Paese. Dall’altra parte, l’aumento della spesa ha reso ancora più drammatico il disavanzo statale nel 2009, arrivando a superare il 10% sempre del Pil, e con previsioni ancora più catastrofiche per il 2010.
La crisi, partita dalla bolla finanziaria statunitense, la stessa che ha mietuto vittime in tutto il mondo e che ha svuotato i portafogli di milioni di risparmiatori mettendo alle strette paesi forti e stabili, ad Atene ha attivato una spirale così perversa da condurre la Grecia sulla soglia del “default” (fallimento) economico.
L’intervento delle agenzie di rating, che hanno definito "junk bonds” (spazzatura) le obbligazioni del debito pubblico greco, sarà stato pure un passo obbligato, ma anche il colpo finale. Con il giudizio negativo sul debito, e con le scadenze imminenti, la domanda dei titoli del debito pubblico greco sarebbe crollata, mentre l’aumento dei tassi per il collocamento avrebbe ancor più aggravato il costo del debito.
L’esperienza che si sta vivendo ripropone così la questione sui meccanismi della finanza, su quelli degli interventi della Comunità Europea, sulla speculazione e sui comportamenti dei Paesi dinanzi ai segnali di congiunture economiche. Limitandosi all’analisi di quest’ultimo aspetto, anche per le analogie con l’Italia, si rileva che se da una parte si sostiene che la crisi dei mercati si risolva aumentando la spesa pubblica, dall’altra, invece, attraverso i tagli ed il rigore.
Aumentando la spesa pubblica si mette in circolazione più denaro, si tamponano i pericoli di crisi sociale, aumenta la domanda interna, si rallenta il calo del pil, si contiene il calo delle entrate fiscali. Dall’altra parte, però, aumenta il disavanzo finanziario, si alimenta il debito pubblico, aumentano i tassi sui titoli di stato e si rischia il giudizio negativo sul debito delle società di rating, com’è accaduto per la Grecia. Ma ciò che è ancora più preoccupante, è che, seguendo la politica dell’aumento della spesa, si possa iniziare a percorrere una strada irreversibilmente in discesa per l’economia dei paesi coinvolti, e che debba servire sempre più spesa, e quindi più debito, per sostenere gli impegni finanziari e la stabilità sociale, e che quello intrapreso si trasformi in un percorso che abbia, come unico sbocco, il fallimento dell’economia.
Tagliando la spesa pubblica, invece, in periodo di crisi e con i mercati in sofferenza, si accentuano le questioni sociali, si riduce la circolazione del denaro, diminuisce la domanda interna, cala il gettito fiscale, si riduce il pil. Ma, d’altra parte, si riduce sia il disavanzo finanziario che l’ammontare del debito pubblico e si riducono i tassi sui titoli di Stato, ed il debito costa meno.
Naturalmente la strada da scegliere non può essere, sic et simpliciter, né l’una e né l’altra. Troppe criticità in un caso e nell’altro. Gli aspetti positivi non riescono a bilanciare quelli negativi. E se la prudenza deve essere sempre accompagnata da una più larga visione politica, per poter favorire la mediazione tra questioni ed interessi spesso diversi e contrapposti, l’azzardo, al contrario, non può mai restare privo dei margini di compatibilità, senza compromettere non solo la gallina di domani ma anche l’uovo di oggi.
Rimane da pensare, allora, ad una politica che sia prudente, ma nello stesso tempo avanzata e sociale. Si provi così ad immaginare un Paese in cui la spesa non sia soltanto ridotta, ma contenuta e riqualificata, ad esempio. E si provi a pensare ad un Paese in cui la pressione fiscale sia ben distribuita, ma anche compatibile con quella curva (curva di Laffer) che dimostra che le aliquote fiscali non siano affatto direttamente proporzionali al gettito.
Lavorare e produrre di più non deve essere controproducente e quasi antieconomico, ed il prelievo fiscale non deve essere considerato come un’indebita ed esosa partecipazione dello Stato al capitale di rischio, invece solo aziendale. Sarebbe persino bello pensare ad un Paese in cui il rischio economico e penale dell’evasione fiscale sia meno allettante, rispetto all’onere del proprio contributo erariale da sborsare per la qualità e la quantità dei servizi che lo Stato offre ai cittadini ed alle imprese.
Se ciò che sta accadendo in Grecia fa paura all’Italia, è forse giunto il momento di prenderne atto e di darsi da fare.
Vito Schepisi

04 maggio 2010

Per fare futuro non ignoriamo il presente



Subito una domanda: un partito che dell’opzione per un sistema bipolare ha fatto una ben precisa scelta politica, e che su questa scelta ha chiesto ed ottenuto la fiducia degli elettori, può riconvertire il suo metodo e le sue scelte e consentire che si sviluppi al suo interno un sistema che voglia rilanciare le correnti come metodo sistemico di opposizione interna?
Le correnti sono state indicate da tutti come l’origine della degenerazione della politica negli anni antecedenti a tangentopoli. Hanno contribuito, fino agli inizi degli anni ‘90, a creare le condizioni per il dilagare del malcostume (clientele, tangenti, sprechi) da cui si è consolidata la motivata sfiducia dei cittadini nei confronti della politica. Le correnti, per logica, finiscono sempre col privilegiare le ragioni delle lobby politico-affaristiche rispetto agli interessi del Paese, tendono ad anteporre i motivi dei distinguo a quelli delle sintesi, favoriscono nei partiti la presenza di caste autoreferenziali e si trasformano in strumenti di occupazione e gestione del potere. Non a caso lo stesso Fini, che favorisce oggi nel Pdl la creazione di un gruppo che fa riferimento alla sua persona in controcanto alla maggioranza berlusconiana, nel 2004, da segretario di AN, nella relazione pronunciata dinanzi all’assemblea nazionale del suo partito, intrisa di richiami ai valori comuni, con l’intento di riportare la calma e la concordia tra i suoi scalpitanti colonnelli, definì le correnti: ''Una metastasi che rischia di distruggere il corpo del partito''.
Il pluralismo e l’agibilità per il confronto interno sulle posizioni da assumere, assieme all’elaborazione democratica delle iniziative ed alle discussioni serrate sulle scelte, fanno parte del metodo democratico a cui oggi, anche volendo, per tutti i partiti che confidano nel consenso popolare, è persino difficile sottrarsi.
Internet è diventato un estroverso e paradossale “Parlamento” mediatico per tutti. Il Web è oramai una platea molto variegata di discussione in cui l’informazione e le idee trovano sia lo spazio che truppe di sostenitori. Il virtuale, come luogo di comunicazione interattiva, è talmente sfaccettato da rappresentare un ventaglio molto ampio di umori, di protesta e di istanze, ed è tale da comprendere, nel dissenso e nella proposta, l’intero confronto e l’intera trasversalità del corpo elettorale. E’ persino impossibile oggi per i partiti potersi sottrarre dal confronto con ciò che emerge da internet, senza doverne pagare un prezzo in termini di appeal popolare e di consensi elettorali.
Le discussioni su temi come la riforma della giustizia, il federalismo fiscale e l’assetto istituzionale dello Stato, come quelle sulle questioni della sicurezza e dell’immigrazione o dell’insostenibilità della pressione fiscale, o dell’occupazione e delle questioni sociali, sono diventate su internet il leitmotiv di ogni confronto. Ma questi temi sono anche gli stessi che hanno fatto parte del programma elettorale di questa maggioranza, a dimostrazione della concordanza con i sostenitori internauti del centrodestra.
Questi stessi argomenti, inoltre, esplicitati attraverso provvedimenti e proposte di legge, sono stati preventivamente concordati con la Lega Nord, quale unico alleato di coalizione del Pdl, ed hanno trovato unanime condivisione tra le anime interne dello stesso Pdl. Ora solo dinanzi a fatti nuovi si possono ridiscutere, ma sempre comunque nel rispetto dei principi generali concordati.
Non si può far ricorso a suggestioni, come ad esempio quella della presunta sovraesposizione della Lega Nord, o quella evergreen dell’immagine di un sud penalizzato rispetto al nord. E neanche si può stravolgere il senso dei contenuti che hanno fatto parte dell’impegno preso con il corpo elettorale. Se si chiede un cambio di indirizzo, perché qualcuno ha cambiato idea, il nuovo percorso, per rispetto della sovranità popolare, dovrà essere legittimato da un nuovo responso elettorale. In questa eventualità, chi è abituato a cambiare idea in corso d’opera farebbe bene a cambiare anche partito.
Non è in discussione, anzi ben venga il dibattito interno, e ben vengano interlocutori capaci di interpretare le diverse anime della realtà italiana, cioè di un Paese plurale per tradizione, cultura, economia, livelli di sviluppo e propensione territoriale, ma restino fuori da questo confronto i furbi, i provocatori, i professionisti della finzione, gli imbroglioni, i politicanti, gli avventurieri, i mistificatori, i tribuni. Sarebbe grave se, per fare futuro, si ignorasse il presente e si perdesse ancora una volta l’appuntamento con il consolidamento della democrazia e con le riforme.
Vito Schepisi