07 maggio 2010

La Grecia fa paura



L’altalena delle borse ed i nuovi venti di panico, innescati dal tracollo del sistema economico della Grecia, sono altre tegole che si fiondano sui mercati, sul sistema finanziario, sulle economie dei Paesi industrializzati, sulla debolezza dei governi europei. E’ un'altra tessera del puzzle delle incertezze e delle incomprensioni politico-economiche dell’Europa, ma anche un altro mix di polvere pirica in cui si dimenano due scuole di pensiero formatesi sul debito, sugli investimenti, sulla spesa.
Il crollo dell’economia greca è scaturito dal dilatarsi del debito pubblico e dall’uso della spesa statale per tamponare gli effetti negativi della crisi recessiva dei mercati e per difendere l’occupazione e la stabilità sociale del paese ellenico. Il risultato è stato inversamente proporzionale alle speranze. E’ stato dirompente e rischia di trascinare nel vortice del panico finanziario mezzo mondo.
Da una parte, in Grecia, il crollo del prodotto interno ha favorito il rafforzarsi di un rapporto insostenibile col debito pubblico, che ha raggiunto il 180% del Pil stesso. Vale a dire un euro e ottanta centesimi di debito per ogni euro prodotto nel Paese. Dall’altra parte, l’aumento della spesa ha reso ancora più drammatico il disavanzo statale nel 2009, arrivando a superare il 10% sempre del Pil, e con previsioni ancora più catastrofiche per il 2010.
La crisi, partita dalla bolla finanziaria statunitense, la stessa che ha mietuto vittime in tutto il mondo e che ha svuotato i portafogli di milioni di risparmiatori mettendo alle strette paesi forti e stabili, ad Atene ha attivato una spirale così perversa da condurre la Grecia sulla soglia del “default” (fallimento) economico.
L’intervento delle agenzie di rating, che hanno definito "junk bonds” (spazzatura) le obbligazioni del debito pubblico greco, sarà stato pure un passo obbligato, ma anche il colpo finale. Con il giudizio negativo sul debito, e con le scadenze imminenti, la domanda dei titoli del debito pubblico greco sarebbe crollata, mentre l’aumento dei tassi per il collocamento avrebbe ancor più aggravato il costo del debito.
L’esperienza che si sta vivendo ripropone così la questione sui meccanismi della finanza, su quelli degli interventi della Comunità Europea, sulla speculazione e sui comportamenti dei Paesi dinanzi ai segnali di congiunture economiche. Limitandosi all’analisi di quest’ultimo aspetto, anche per le analogie con l’Italia, si rileva che se da una parte si sostiene che la crisi dei mercati si risolva aumentando la spesa pubblica, dall’altra, invece, attraverso i tagli ed il rigore.
Aumentando la spesa pubblica si mette in circolazione più denaro, si tamponano i pericoli di crisi sociale, aumenta la domanda interna, si rallenta il calo del pil, si contiene il calo delle entrate fiscali. Dall’altra parte, però, aumenta il disavanzo finanziario, si alimenta il debito pubblico, aumentano i tassi sui titoli di stato e si rischia il giudizio negativo sul debito delle società di rating, com’è accaduto per la Grecia. Ma ciò che è ancora più preoccupante, è che, seguendo la politica dell’aumento della spesa, si possa iniziare a percorrere una strada irreversibilmente in discesa per l’economia dei paesi coinvolti, e che debba servire sempre più spesa, e quindi più debito, per sostenere gli impegni finanziari e la stabilità sociale, e che quello intrapreso si trasformi in un percorso che abbia, come unico sbocco, il fallimento dell’economia.
Tagliando la spesa pubblica, invece, in periodo di crisi e con i mercati in sofferenza, si accentuano le questioni sociali, si riduce la circolazione del denaro, diminuisce la domanda interna, cala il gettito fiscale, si riduce il pil. Ma, d’altra parte, si riduce sia il disavanzo finanziario che l’ammontare del debito pubblico e si riducono i tassi sui titoli di Stato, ed il debito costa meno.
Naturalmente la strada da scegliere non può essere, sic et simpliciter, né l’una e né l’altra. Troppe criticità in un caso e nell’altro. Gli aspetti positivi non riescono a bilanciare quelli negativi. E se la prudenza deve essere sempre accompagnata da una più larga visione politica, per poter favorire la mediazione tra questioni ed interessi spesso diversi e contrapposti, l’azzardo, al contrario, non può mai restare privo dei margini di compatibilità, senza compromettere non solo la gallina di domani ma anche l’uovo di oggi.
Rimane da pensare, allora, ad una politica che sia prudente, ma nello stesso tempo avanzata e sociale. Si provi così ad immaginare un Paese in cui la spesa non sia soltanto ridotta, ma contenuta e riqualificata, ad esempio. E si provi a pensare ad un Paese in cui la pressione fiscale sia ben distribuita, ma anche compatibile con quella curva (curva di Laffer) che dimostra che le aliquote fiscali non siano affatto direttamente proporzionali al gettito.
Lavorare e produrre di più non deve essere controproducente e quasi antieconomico, ed il prelievo fiscale non deve essere considerato come un’indebita ed esosa partecipazione dello Stato al capitale di rischio, invece solo aziendale. Sarebbe persino bello pensare ad un Paese in cui il rischio economico e penale dell’evasione fiscale sia meno allettante, rispetto all’onere del proprio contributo erariale da sborsare per la qualità e la quantità dei servizi che lo Stato offre ai cittadini ed alle imprese.
Se ciò che sta accadendo in Grecia fa paura all’Italia, è forse giunto il momento di prenderne atto e di darsi da fare.
Vito Schepisi

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