31 maggio 2010

Metà manovra ce la siamo giocata



In tanti avevamo sperato che i provvedimenti per limare gli eccessi di spesa dei conti pubblici, anche se non risolutivi, non sarebbero stati l’ennesimo atto della solita commedia italiana. La stessa che, per opportunismo o per troppa mollezza, se non per furbizia, ci ha portati ad essere un esempio negativo nel mondo. Ce lo diciamo da troppo tempo che per impegno, determinazione, coraggio, lungimiranza e chiarezza avremmo bisogno di più estesa tensione morale, di più responsabilità politica e di maggiore spirito nazionale.
E’ accaduto che le manovre di macelleria sociale, anche nel recente passato, con Prodi, sono state adottate nell’indifferenza del Capo dello Stato. Ma se si tagliano gli stipendi, ai magistrati ed ai burocrati, da 80 mila Euro l’anno in su, sembra che per firmare a qualcuno tremi la mano.
Quando la barca rischia di affondare per troppo peso, si getta a mare la zavorra e tutto quanto sia di poca utilità o che renda instabile e non più manovrabile l’intera imbarcazione. Meglio perdere il carico, fosse anche costituito da lingotti d’oro e da oggetti preziosi, che perdere, con lo stesso carico, la nave e la vita. Meglio le rinunce di oggi che il rischio di pagare domani un prezzo ancor più insopportabile. E se si parla di zavorra o di “gemme” e di oggetti “preziosi” inutili, e poi di magistrati e burocrati, l’accostamento non deve mai considerarsi solo e sempre casuale.
Il Governo, le parti sociali, i vari ministeri, i magistrati, i partiti, i gruppi interni ed il Presidente della Repubblica diventano troppi filtri per un provvedimento di sacrifici e di responsabilità politica. Troppi per un intervento con le cesoie che doveva scontentare un po’ tutti, ma che dovrà anche servire a raccogliere risorse certe e visibili.
Tutti hanno le loro ricette, spesso fumose. Tutti rimandano, però, la palla nel campo avversario. Idee concrete? Nessuna! Tra i suggerimenti, solo i soliti: il primo è la lotta all’evasione fiscale, che è un coro di tutti, di politici e di gente comune; il secondo è il taglio ai costi della politica, che è invece un coro della sola gente comune. Ma quando occorre realizzare non valgono i buoni propositi e gli impegni a lungo termine. Gli effetti dei tagli devono essere, invece, immediati. L’effetto della riduzione della spesa deve essere più a portata di mano ed immediatamente percettibile.
Un intervento finanziario di un Paese della Comunità Europea, oltre che produrre effetti pratici sui conti, contribuisce a riflettere la fotografia politica dello stesso Paese, e serve anche a ridare slancio e fiducia alle istituzioni monetarie della Comunità. Con l’immagine e con gli atteggiamenti delle diverse parti (maggioranza, opposizione, istituzioni, parti sociali, funzioni dello Stato etc.), benché nei ruoli e con i toni diversi, l’Italia fornisce, pertanto, un quadro complessivo di maggiore o minore coesione nazionale, oltre che di complessiva responsabilità politica ed istituzionale.
Un Paese non sta in Europa, e non adotta la sua moneta unica, perché è governato dalla destra o dalla sinistra, o perché ha un sistema di democrazia rappresentativa di un tipo anziché di un altro, ma perché vuole concorrere ad una politica di stabilità e di crescita comune. In caso contrario sarebbe incoerente. Ma per stare seriamente in Europa è opportuno che nei paesi della Comunità si formi una coscienza complessiva che vada oltre il confronto politico interno. E’ indispensabile l’impegno di tutti i soggetti interessati perché si rispettino i trattati e le regole comuni adottate. Le tensioni politiche vanno, invece, lasciate a casa.
Ciò che sta succedendo in Italia, invece, per una manovra ritenuta da tutti indispensabile, non è affatto una buona risposta ai mercati, né alla credibilità del Paese e neanche ai partner europei. Non rende affatto l’idea di voler fare sul serio. A parità di flussi economici realizzabili per il riequilibrio dei conti italiani, una metà manovra ce la siamo già giocata come effetto e come barriera psicologica da opporre alla speculazione. Continuiamo, cioè, a farci del male da soli. C’è purtroppo ancora un’Italia masochista. Permane la vecchia cultura ideologica del tanto peggio, tanto meglio. Viene da pensare che chi lo fa stia troppo bene! Nevvero Epifani, Palamara, Bersani, Napolitano, Di Pietro?
La Grecia, Il Portogallo, la Spagna non sono solo paesi vicini all’Italia nell’area mediterranea dell’Europa, ma sono vicini al nostro Paese per l’uso che è stato fatto in passato della spesa pubblica: un serbatoio a cui attingere per risolvere le tensioni sociali, un fondo senza fine che hanno sempre pagato le famiglie dei lavoratori ed i risparmiatori con l’inflazione e che salderanno le generazioni future.
Ora, però, questo giochetto è finito. I consociati di una volta (partiti, parti sociali, istituzioni, burocrati, banche, finanza e caste), per evitare il fallimento del Paese devono essere fermati. In Italia, come e forse più che in Grecia, Spagna e Portogallo il debito pubblico ha finanziato gli abusi, i partiti, la corruzione, i privilegi e le mafie. Nessuno, a questo punto, può pensare di farla franca dinanzi a 1800 miliardi di debito pubblico. E la sinistra ha le responsabilità maggiori, e non ha alcun titolo per chiamarsi fuori.
Vito Schepisi

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