25 maggio 2010

Il Pd incapace di intercettare il consenso



C’è ancora chi continua a credere che nel PD vi siano nobili sentimenti politici ancora inespressi. C’è chi pensa che siano state un po’ le vicende della contingente stagione politica, un po’ la diffidenza reciproca tra uomini con storie diverse, le difficoltà dell’amalgama ed, infine, il timore del nuovo, ad aver giocato un ruolo di freno alle potenzialità del partito guidato da Bersani. Ma c’è anche chi pensa, invece, che con le idee confuse e senza una leggibile strategia politica, sia più difficile ottenere la fiducia del Paese.
E’ evidente che, senza esser capaci di interpretare la società ed i suoi problemi, e reiterando persino la pretesa di giudicare gli elettori, sia inevitabile che si finisca col giocare un ruolo di secondo piano. Il Pd sembra un partito che si fa dettare la linea da altri. Ha al suo interno sentimenti e passioni che i vertici non riescono a controllare e guidare. Se non riuscirà a liberarsi del suo passato e di tutti quei personaggi che per una parte hanno sostenuto il mito della “felicità” comunista e per l’altra il cedimento e la rassegnazione al peggio, è difficile che il PD riesca a trovare la strada per diventare un vero partito democratico e riformista.
Prima e dopo le elezioni, prima e dopo il congresso, e con la conferenza programmatica di Roma, del Partito Democratico resta sempre la fisionomia del primo momento: un partito ora rancoroso, ora velleitario, soprattutto privo di idee e senza nessuna proposta. Un partito a metà strada tra l’immagine del Presidente Rosy Bindi, intollerante ed incapace di aperture di respiro politico, e quella del segretario Luigi Bersani che, formatosi nell’ipocrisia del vecchio Pci, adegua la linea del partito all’esatto contrario della proposta politica dell’avversario. Lo stesso metodo, illiberale ed autoritario, che induce tutto il PD a supporre che sia sufficiente dare un’idea criminale dell’avversario politico per conquistare il consenso popolare.
Più che riflettere sui contenuti della Conferenza nazionale celebrata dal PD, con conclusioni del tutto scontate, occorrerebbe invece riflettere sulla necessità, avvertita dal suo segretario, di dar la parvenza di un partito unito e capace di parlare con un’unica voce. E’ il caso di riflettere, ad esempio se, nel tempo di internet e delle comunicazioni, un partito possa permettersi di avere più voci, spesso in controcanto tra loro.
La riflessione vale per tutti. Vale, infatti, anche per il Pdl, in cui emerge l’azione di controcanto di Fini e dei suoi sostenitori. Il Pdl è anche l’asse portante della maggioranza che esprime il Governo e la polifonia delle voci al suo interno, per forza di cose, assume maggior rilievo politico.
Se il confronto delle idee, in democrazia, è un valore aggiunto, soprattutto quando serve per creare l’amalgama su idee e progetti, diventa, invece, un problema quando paralizza le scelte già fatte e quando alimenta confusione, disappunto e fastidio tra gli elettori.
Tornando al PD, non si sa se prevarrà, ma c’è la volontà di riprendere la strada del centralismo democratico. Il segretario ripropone la storia d’un tempo nel PCI. In quella “cosa” politica che non riesce a rinnovarsi nei metodi e nei programmi, ed in cui non emerge niente che faccia presagire per il futuro qualcosa di diverso dalla solita trama, si sta formando, di contro, la convinzione che l’immagine di un partito che discute, ma converge, sia molto più attraente di quella di un partito in cui si parlano lingue diverse ed in cui prevale la cultura della distinzione. Se quello di Bersani ora diventerà un intuito vincente dipenderà dal Pdl. Non sempre si vince sui meriti propri. Molto spesso, infatti, si prevale per gli errori degli altri.
Per il resto, nel PD, si conferma la solita carenza di idee e si consolida la percezione di un partito che si schiera sempre contro il Paese, contro il suo tessuto sociale fatto di famiglie, di anziani, di giovani, di lavoratori, di professionisti, di artigiani, di manager e di imprese. Manca il coraggio della responsabilità e manca il sostegno alla soluzione delle criticità del Paese. Assumersi le responsabilità del passato sarebbe, invece, un grande segnale di serietà e sarebbe anche un atto apprezzato dagli elettori.
Poca cosa, però, il PD di Bersani per l’ambizione di essere la componente riformista della democrazia italiana. E’ scarsa la tensione ideale di una nuova sinistra che voleva accantonare le spinte ideologiche per aprirsi, invece, al pluralismo. Resta la mancanza di convinzione per un rinnovato soggetto politico che voglia raccogliere le sfide dell’economia ed aprirsi al mercato ed alle sue regole. Permangono troppe contraddizioni per una forza popolare che voglia veramente dismettere la fisonomia del partito di lotta e di protesta, per assumere, invece, quella della fucina produttiva di proposte di governo.
Il PD non sa riflettere sugli errori, ma si lamenta perché non è capace di intercettare il consenso del Paese.

Vito Schepisi

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