21 aprile 2010

Il Pdl resterà un partito di popolo?


Nelle motivazioni del dissenso di Fini verso Berlusconi entra anche l’opinione del premier, non solitaria, che sia proprio la retorica di una certa letteratura, contro la criminalità organizzata, a consolidare l’idea che il malaffare possa diventare una reazione alle inermi ed autoreferenti consorterie politico-intellettuali.
Gli scrittori, i giornalisti e gli intellettuali che professionalizzano il mestiere di oppositori della disonestà, spesso con lo scopo di favorire il proprio tornaconto, finiscono per attribuire ai fenomeni malavitosi un carattere quasi leggendario. Quando poi si arriva a rappresentare l’immagine dell’Italia, come quella di un Paese irrimediabilmente compromesso, in cui una parte dello Stato, sempre quella che non è “politicamente corretta”, sia connivente, complice e partecipe del malaffare, anche a dispetto dei fatti, si rende un pessimo servizio all’immagine complessiva del Paese. Un’insistenza che nuoce al turismo ed al “made in Italy”, e che è anche ingenerosa verso l’impegno delle forze dell’ordine, della magistratura e del Governo nel reprimere, con ottimi risultati sul campo, e non sui “best seller”, la criminalità organizzata.
La critica all’antimafia che sia fa mestiere, la sosteneva anche Leonardo Sciascia, quando rilevava e stigmatizzava i comportamenti di alcuni protagonisti che definiva, appunto, professionisti dell’antimafia.
Il sentimento di ripulsa verso la criminalità non ha, invece, colore politico, né può essere motivo di distinzione ideale. E’ un istinto spontaneo che parte dalla consapevolezza del senso dello Stato, che percorre la maturità civica dei cittadini, che si consolida con la civiltà dei rapporti tra istituzioni e società e che si afferma, infine, con il bisogno avvertito della legalità.
Il contrasto alla criminalità, tra la gente civile, è un sentimento di rifiuto naturale senza nessuna caratterizzazione antropologica. Il confronto sulla lotta alle mafie non diverrebbe, infine, motivo di ulteriore e superfluo conflitto politico, se non ci fosse chi si cimenta nel dimostrare di averne più titolo.
In concreto, ciò che è trapelato del discorso di Fini è un mix di luoghi comuni e di argomenti senza sostanza. Sembra che nei finiani si sia svegliata la nostalgia per la vecchia politica, quando per dar tinta alle ambizioni personali di alcuni, o per soddisfare le pressioni di gruppi, ovvero per poter imporre i propri interessi particolari, si formavano prima le correnti organizzate e poi si studiavano a tavolino i dissensi politici: spesso uno sciocchezzaio di luoghi comuni, di fantocci polemici, di processi alle intenzioni e di distinguo metodici.
Fini così ci riporta alla politica delle chiacchiere e dei distinguo. Altro che Ezra Pound e la battaglia per le proprie idee, se queste si riducono alle questioni, ad esempio, del voto agli immigrati, senza un confronto, senza gli opportuni approfondimenti, senza un quadro d’insieme sulle presenze, sulle regolarizzazioni, sulle quote di accoglimento compatibili. Un’uscita di Fini non concordata, sulla scia di un’iniziativa demagogica promossa da Veltroni, e proprio quando in Europa si avvertivano i sintomi delle contraddizioni tra i principi sacrosanti dei diritti all’integrazione e le difficoltà di far osservare le leggi, di debellare la clandestinità e di assicurare il mantenimento dei traguardi di civiltà maturati.
L’integrazione non si raggiunge con le leggi, ma attraverso la conoscenza, la partecipazione e la legalità. Le leggi servono per regolare le questioni, per sancire diritti e doveri, non per integrare esperienze e culture diverse.
I temi etici ed i diritti civili sono entrati di recente nel patrimonio culturale della destra ex reazionaria di Fini. Fanno parte di una cultura liberale, estranea per principio agli eccessi e richiedono, pertanto, riflessione e moderazione. Nel Pdl il confronto su questi temi non è mai stato chiuso, e non è mai mancato, in sede di scelte, il ricorso alla libertà di coscienza dei gruppi parlamentari. Dov’è allora il contendere?
I rapporti con la Lega sono quelli di una leale collaborazione tra alleati impegnati nell’azione di governo e nell’attuazione del programma concordato. L’alleanza è stata voluta con l’accordo di tutti, Fini compreso. La lealtà è d’obbligo, pertanto, ed i patti si rispettano. E’ vero che a volte spuntano eccessi e protagonismi di singoli leghisti, ma si rompe o si mette in discussione un’alleanza per un eccesso di uno o più singoli?
Le politiche fiscali, quelle economiche e quelle della spesa, di cui, assieme alla questione del Mezzogiorno, si fa sostenitore il Presidente della Camera, sono state condizionate dalla crisi. I pericoli per l’Italia sono stati enormi, a causa del debito pubblico, si veda la Grecia. La gestione di Tremonti, però, compresi gli interventi nel sociale, merita plauso, come è attestato dai riconoscimenti degli organismi europei ed internazionali. Sul mezzogiorno, inoltre, occorre uscire dal generico. Sono necessarie riflessioni per non ritornare alle esperienze del passato. Si ad infrastrutture, si a colmare il divario nei collegamenti, si agli investimenti, no però all’assistenzialismo. L’economia assistita non crea sviluppo, ma, come una droga, crea dipendenza. L’assistenzialismo crea clientele, servilismo, corruzione e mafia.
Ciò che ci sfugge di Fini è, pertanto, il fine del tutto. Non si capisce quali vantaggi pensa di poter ottenere con quest’avventura. Cosa ci ricava nello spaccare il centrodestra? Cosa pensa, soprattutto, di realizzare dividendo la componente degli ex di AN che, per buona parte, è rimasta fedele allo spirito del Pdl? Perché Fini vuole minare l’esperienza di un partito di popolo che trae la sua forza dall’interpretazione dei bisogni e dei sentimenti della maggioranza degli italiani?
Gli elettori del centrodestra si sono spiegati abbastanza bene, anche di recente, col voto. Ma allora perché non voler capire? Perché ignorare le fondamenta su cui è nato e si conferma il Pdl? L’Italia, liberale, democratica, moderata e riformista era alla ricerca, dopo 50 anni di partitocrazia in Italia, di un sistema partito che fosse capace di separare i giochi dei politici di professione dagli interessi del Paese.
La formazione del Pdl aveva appunto alimentato le speranze di chi aveva sperato che in Italia si potesse costruire il futuro della democrazia liberale e di chi aveva pensato che la semplificazione e la trasparenza delle scelte e dei programmi fosse divenuta prioritaria rispetto ai voleri delle caste e delle consorterie affaristico - politiche. Ora Fini che vuole? Col Pdl era stata fatta una scelta di metodo, vuole ora cambiarla?
Anche il centrosinistra con Veltroni, aveva mirato a chiudere alle coalizioni eterogenee privilegiando, al contrario di Prodi, la coesione più che l’Unione. Se alla sinistra è mancato il coraggio di assumere una fisionomia precisa, se è mancata una strategia chiara, se è mancato un programma visibile, al centrodestra tutto questo non è mancato. Nel PD, molto più diverso nelle sue componenti, Franceschini e Bersani non hanno correnti organizzate, non entrano in conflitto polemico, esprimono le proprie idee liberamente senza caricarle di forzature e senza minare l’unità del PD. Perché Fini, allora?
Ritornando alla citazione di Ezra Pound: "Se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui". Pensiamo che se un uomo ( Fini) dice: “Berlusconi pensa che ci siano delle incomprensioni, invece il problema è solo politico. Ci sono punti di vista diversi tra me e il premier", se dice questo e non ne assume tutte le conseguenze … o i suoi punti di vista non valgono niente, o non vale nulla lui.
Vito Schepisi

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