19 giugno 2007

Nessun bavaglio alla libertà di stampa



“Non lo posso vedere ma questa volta ha ragione”: è un modo di dire che in questa circostanza ha una sua valenza. Ci si riferisce a Di Pietro ed alla sua dichiarazione: “non staremo un minuto né al Governo né con quella maggioranza che ritiene di fermare il lavoro dei magistrati e imbavagliare quello dei giornalisti”. Come forma è discutibile ma è la sostanza che conta. Peccato che Di Pietro sia il personaggio che in un anno è arrivato persino a sospendersi da ministro, prassi fino ad ora del tutto sconosciuta, e che tuttora non si capisce in che modo si sia concretizzata. Di Pietro, si sa, non ha solo difficoltà col congiuntivo ma spesso anche col buon senso e con la coerenza. Pone dubbi ed incertezze su questioni che puntualmente vota sia in Consiglio dei Ministri che in Parlamento. Si spera, però, che questa volta faccia sul serio e tolga la fiducia ad un Governo che per rilanciare il Partito Democratico e l’affidabilità dei suoi uomini si accinge a votare per il bavaglio all’informazione e nascondere così le malversazioni della politica.
Al contrario di come la pensa Di Pietro, però, l’accento non sarebbe da mettere sulle premure della magistratura per una riforma dell’ordinamento giudiziario che lasci tutto come prima, se non peggio: ciò che più importa, invece, è soprattutto la libertà di stampa. I primi sono una corporazione potente, non hanno necessità di eccessivo sostegno alle loro prerogative. Hanno una organizzazione piuttosto autonoma ed un organo, il CSM, controllato dai loro rappresentanti. Agiscono, come si è visto, anche in modo irresponsabile in considerazione dei poteri che esercitano. Dovrebbero svolgere il loro mestiere nella riservatezza e assicurando le garanzie democratiche sia nei confronti delle persone indagate, sia verso le parti offese che quasi sempre coincidono con l’interesse pubblico. A volte, però, accade il contrario, specie quando l’attenzione passa dal servizio da rendere alla Giustizia, all’esercizio di un ruolo politico tale da far supporre che i magistrati né sembrino e né siano davvero indipendenti.
L’attenzione maggiore, invece, va alla stampa che dovrebbe essere in grado di informare con onestà sui fatti della politica e della cronaca e non sugli “scoop” fatti di chiacchiere o supposizioni infamanti. Non può concepirsi la condanna di chi riferisce fatti che corrispondano alla realtà delle cose. Sarebbe davvero un insulto al buon senso.
Se gli indagati, e coloro che si accordano su beghe e scalate, non hanno interesse ai riflettori della stampa libera si astengano dall’agire in modo da doversene successivamente vergognare. Non è un’opinione qualsiasi ma è sostanza del viver civile.
Sia ben chiaro, però, che informare non significa pubblicare il contenuto delle conversazioni riservate ed attinenti la sfera privata, non centra con i pettegolezzi di coniugi e figli al telefono di casa o sui cellulari, e neanche con le moine fatte alle amanti o le confessioni delle mogli deluse. Intercettare conversazioni private è illegale per tutti i cittadini e dovrebbe esserlo anche per magistrati e per i servizi dello Stato.
L’uso del sistema delle intercettazioni dovrebbe essere utilizzato con molta più parsimonia e dinanzi a questioni di una certa importanza, previo un sistema di autorizzazioni e con il controllo delle Procure sui modi, ma soprattutto sugli usi, con un protocollo che andrebbe formalizzato attraverso una normativa adeguata e non solo col controllo delle spese da parte della Corte dei Conti. L’uso delle intercettazioni diffuso a pioggia, spesso frivolo, serve solo a far emergere l’inutilità del mezzo e renderlo così inefficace ai fini dei sistemi di formazione degli indizi e delle prove.
Se si trattasse di impedire che si faccia uso e mercato di intercettazioni illegali sarebbe giusto e non esisterebbe il problema. Tutto ciò che è illegale, come tutto ciò che è privato, non dovrebbe essere assolutamente diffuso e chi trasgredisse dovrebbe pagarne le conseguenze sia economiche che penali.
Tutto ciò che invece attiene l’attività finanziaria, dove pochi gestiscono in modo privato i beni di tanti, avrebbe bisogno di maggior trasparenza. Se vi siano motivi per ritenere attraverso indizi importanti, come ad esempio disponibilità di somme di ingente valore costituite all’estero, come è accaduto per gli amministratori di Unipol, la cui provenienza poteva esser ritenuta sospetta, sarebbe anche lecito che si sappia chi ne ha disposto e per quali fini e chi siano coloro che interferiscono nella gestione.
E’ giusto che il popolo elettore sappia cosa fanno partiti e candidati che si propongono di rappresentare il loro voto in Parlamento o in altri consessi elettivi. Se servono le intercettazioni telefoniche su esponenti del mondo della finanza e dell’impresa per conoscere come agisce il mondo politico quando, anziché proporre soluzioni nell’interesse di tutti, si attiva per garantire gli interessi di parte, siano benvenute queste fonti di informazione. Le scalate, i giochi finanziari all’ombra dei poteri e dell’influenza delle banche sappiamo che in Italia servono a drenare i risparmi della povera gente per investirli in avventure e megalomanie di alcuni. Servono a ricostituire capitali dispersi e sofferenze finanziarie occultate.
Nel passato col denaro pubblico, tutto a carico del debito complessivo del Paese, che viene assolto col consueto prelievo fiscale di chi produce reddito, si sono rilevate aziende in crisi che sono state successivamente cedute, spesso agli amici, a prezzi da realizzo, dopo averne ripianato le grosse perdite. Un po’ come era previsto per Telecom con il Piano Rovati, redatto su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quel Piano che il Presidente del Consiglio Prodi in Parlamento ha sostenuto di non aver mai conosciuto e tanto meno ispirato.
Non è pensabile che col pretesto di evitare i veleni e lo stillicidio di informazioni spesso costruite ad arte, si vogliano nascondere all’opinione pubblica le deviazioni dei percorsi della politica che da essere uno stimolo del confronto democratico diviene strumento di privilegi di uomini votati al potere.
Vito Schepisi

Nessun commento: