08 dicembre 2007

Il Dito e la luna

Tra le tante del politico più sgrammaticato d’Italia, finalmente una che ha senso. La metafora è già usata, ma è ciò che conta di meno. Se l’eroe di mani pulite afferma che stanno tutti a guardare il dito e che nessuno pensa più alla luna, si riferisce a quella sua immagine ripetuta fino alla noia, forse l’unica che gli sia riuscita di comprendere bene, in cui Antonio Di Pietro sostiene che, se un uomo punta un dito verso la luna, c’è chi si ostina a guardare il dito e non ciò che indica.
L’ex magistrato questa volta parla della questione Forleo e, fuori dalla metafora, avverte che l’attenzione sia stata abilmente deviata sul Gip di Milano (ancora per poco per quanto se ne sappia), invece che sulla questione Unipol-Bnl e le scalate bancarie. I media ed il Palazzo, abbastanza compatti tra maggioranza ed una tiepida opposizione (sulla questione della Giustizia, FI in particolare, opta per un basso profilo su intercettazioni ed effetti mediatici), distolgono lo sguardo dagli interessi che hanno determinato le mosse del trasferimento del magistrato, proprio come accade a chi si ferma a guardare lo strumento (il dito) puntato e non il fenomeno (la luna) indicato. Fuori dalla metafora, i metodi ed i comportamenti della Forleo e non i presunti reati commessi.
La definizione è tutta nei termini della inopinabilità delle regole della matematica. Lo diceva anche Totò: la matematica non è un’opinione.
Se la Forleo è diversa dal corretto esercizio della giustizia, ed i tre diessini (ora fusi nel PD) Fassino, D’Alema e Latorre sono stati i bersagli della sua poco corretta gestione della giustizia, appare abbastanza deduttivo che si debba supporre che Fassino, D’Alema e Latorre siano soggetti diversi dalle responsabilità. Se Clementina Forleo sulla gestione degli atti di Unipol, per il fatto che nella Giustizia la forma è sostanza, ha un risultato uguale a zero e se per l’elementare aritmetica ogni rapporto o prodotto che abbia un denominatore uguale a zero è nullo: anche i tre parlamentari possono azzerare i reati ipotizzabili. E se la Forleo non si interesserà più alle scalate bancarie ed ai reati connessi, anche la Giustizia non si interesserà più a D’Alema, Fassino e Latorre. Tutto chiaro? O no? E chi avrà più il coraggio o l’incoscienza di riprendere i fascicoli in mano dopo tanta evidente sensazione che chi tocca i fili dell’alta tensione ci rimette di sicuro le penne?
Il 31 ottobre scorso, in una intervista apparsa su La Stampa, il giudice Imposimato sosteneva: “So di sicuro di pressioni sul Procuratore Generale perché fosse avviato un procedimento disciplinare contro la Forleo, al pari di quanto ha fatto contro De Magistris”. Ora il tono è cambiato e la sostanza persino ribaltata. Quel “so di sicuro” dell’ex magistrato, ed ex parlamentare comunista, è diventato: “La mia convinzione derivava dalla lettura dei giornali che riportavano quanto stava succedendo intorno alla Forleo”. Un po’ troppo poco ed anche sostanzialmente diverso da quanto riferito a La Stampa appena un mese prima.
Ma non è solo l’intervista a La Stampa che coglie in contraddizione l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. A smentire le sue “smentite” c’è Oliviero Beha, giornalista, che riporta sul blog di Roberto D’Agostino Dagospia la sua testimonianza diretta delle rivelazioni di Imposimato. Beha conferma quanto sostenuto da Clementina Forleo: «Imposimato – scrive infatti Beha - mi ha detto esplicitamente di pesanti influenze sul Csm da parte dei coinvolti dei Ds, il solito trio (adesso nel Pd), e persino del Quirinale, affinchè la Forleo venisse delegittimata”.
Accuse gravissime. Ancora più gravi per il coinvolgimento del Presidente della Repubblica. Il Quirinale si affretta a smentirle, in tempo reale, parlando di “insinuazioni diffamatorie”. Beha accoglie con soddisfazione civica le smentite, ma chiede al Quirinale di chiarire due dettagli: “Le insinuazioni diffamatorie di cui parla il comunicato quirinalizio a chi si riferiscono? A me che ho citato parole di Imposimato ripetute anche di fronte ad altre persone compresa la Forleo (a detta naturalmente della Forleo), oppure a Imposimato stesso?”. E l’altro quesito: “vista la delicatezza di una faccenda fosca di cui ancora a distanza di sei mesi dalla richiesta del Gip Clementina Forleo di poter interrogare i sei parlamentari intercettati al telefono con Consorte, Fiorani e c. si sa poco o nulla, un cittadino specchiato come il Presidente della Repubblica che cosa avrebbe fatto nei miei panni? Avrebbe taciuto per non disturbare il “derby d’opinione” sulla Forleo (peraltro impari…) che sembra oggettivamente prezioso per non parlare invece del caso “scalate bancarie” forse di rilevanza politico-penale assai maggiore? Oppure – chiede ancora Beha - approva il mio contributo pro veritate? – e conclude Beha - Aspetto risposte con la stessa tempestività soprattutto per sapere come regolarmi in futuro.”
E’ probabile che le risposte, Beha le aspetterà per un pezzo ed è persino molto probabile che non arrivino mai. Resta da chiedersi se quanto già accaduto alla Forleo, come sembra, debba accadere anche a De Magistris, PM di Catanzaro, che indagava su Mastella e Prodi, cosa si deve pensare che siano coincidenze o che si è instaurato un regime?
Noi vorremo guardare la luna, ma tempeste di sabbia formano nuvole impenetrabili che si alzano ad intorpidire e nascondere la sua luce e così …la luna non riusciamo proprio a guardarla!
Vito Schepisi

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05 dicembre 2007

Un Governo fallito

Ci sono molte differenze tra la crisi del primo governo Prodi nel 1998 e la recente dichiarazione di Bertinotti sul fallimento del governo in carica, sempre condotto da Romano Prodi. Tra le tante, una differenza di significato consiste proprio nelle finalità.
Se nell’ottobre del 1998 Bertinotti si sfilò nella convinzione di dare significato e sostanza ad un progetto politico di rottura ed alternativo all’Ulivo, questa volta la denuncia del fallimento serve a porre fine all’agonia di una maggioranza scollacciata ed incapace di assumere iniziative condivise.
Nel 1998, con lo strappo, Bertinotti ed il suo partito della rifondazione comunista reagivano al pericolo di restare schiacciati nello sviluppo di un programma riformista di impronta essenzialmente eurocratica che si andava delineando. Un’azione di governo con prevalenza di indirizzi su scelte finanziarie e di mercato, con l’attenzione ai conti ed alle compatibilità della spesa. I comunisti di Bertinotti allora reagirono al pericolo di doversi misurare con interventi di tagli alla spesa e di macelleria sociale che sarebbero serviti a preparare il Paese alla svolta europea. La mossa dell’attuale Presidente della Camera, nel 1998 emerse dalla convinzione che la base comunista non avrebbe compreso né l’adozione di parametri rigidi per l’introduzione della nuova moneta e neanche i prevedibili controlli sulle politiche della spesa.
Questa volta, dopo le difficoltà create al Senato dalla pattuglia di Dini e dai dissidenti Manzione e Bordon, è sopraggiunta invece la convinzione che niente potrà più essere come prima nell’Unione.
Avvertendo i mugugni della base, Bertinotti trae così la consapevolezza che restare fermi può solo portare al massacro da parte dall’antagonismo militante e può favorire il disperdersi, a vantaggio dei movimenti dell’antipolitica, della primogenitura del dissenso e della lotta al sistema.
Chiudersi a difesa del governo di Prodi, soprattutto nella prospettiva del consolidamento dell’identificazione del governo nel progetto del PD, per il capo storico dei neo comunisti comporta il pericolo di non poter più esser credibile come leader di un movimento di lotta e di governo, e di rendere altresì non credibile la stessa Rifondazione Comunista come partito di confine e fabbrica attiva per l’elaborazione delle proposte per le diversità. Il Partito di Bertinotti ha l’esigenza di mantenere il suo protagonismo e di riposizionarsi nel suo spazio di funzione critica ed alternativa alle globalizzazioni ed alle strategie diplomatiche sugli scenari internazionali.
Come allora Bertinotti ed il Partito della Rifondazione Comunista poteva rinunciare a ritenere fallito il progetto dell’Unione?
La nascita del Partito Democratico, in verità, ha contribuito a creare ulteriori scompensi nel centrosinistra. Molte più difficoltà: più di quelle già presenti per la mancanza di coesione programmatica. Se alla criticità delle convergenze sulle scelte, soprattutto in campo sociale ma anche sugli obiettivi per la crescita e lo sviluppo, legati alle politiche fiscali ed agli interventi sulla competitività, una volta si contrapponevano le ragioni dello stare insieme, come spesso si andava sostenendo, per battere Berlusconi e scongiurare il suo ritorno al Governo, la nascita del PD ha creato una reazione a catena e molte fibrillazioni nei piccoli partiti.
La maggior parte delle formazioni minori, senza marcata identità, prive persino di radici storiche nella tradizione popolare, senza precisi riferimenti territoriali, rischiano ora di veder dissipare l’appeal più squisitamente personale che politico. E’ opinione diffusa, infatti, che possa prevalere l’attrazione dell’elettorato alla logica dei grandi numeri ed esiste nel Paese una sensibile voglia di semplificazione della politica.
Bertinotti, da politico astuto, ha avvertito questa difficoltà. Ha meditato sull’immagine del suo partito appiattito sul Governo ed apparso spesso moderato e prudente nel sopportare sacrifici e rinunce per non farlo cadere, ed è ora convinto che Prodi abbia ormai vita breve.
Ma più che rendersi responsabile ancora una volta della caduta di Prodi, togliendo la fiducia all’unica maggioranza parlamentare che potesse scongiurare il ritorno alle urne con la conseguente vittoria certa del centrodestra e di Berlusconi, quale modo migliore aveva Bertinotti per prendere le distanze da questo esecutivo? La risposta è: dichiararlo fallito e proporre la disponibilità ad un diverso esecutivo, d’impronta istituzionale, che possa traghettare il Parlamento all’approvazione della riforma della legge elettorale ed alle modifiche costituzionali. Tutto concorda!
Dal suo punto di vista è la cosa più intelligente che il Presidente della Camera potesse fare. La sinistra ha da intraprendere un percorso di unificazione. E’un tragitto che si presume lento e complesso. L’obiettivo di Bertinotti è una riforma elettorale sul modello tedesco, con sbarramento al 5%: una soluzione che rende inevitabile la convergenza sulla “cosa rossa”.
Il nuovo soggetto politico potrebbe così presentarsi alle elezioni in modo autonomo e giocarsi la possibile partecipazione ad alleanze, su programmi concordati, dopo le elezioni.
Vito Schepisi

04 dicembre 2007

Un magistrato scomodo

Tutto dev’essere iniziato nel gennaio di quest’anno, quando la signora Forleo ad un convegno organizzato a Milano dall’Unione delle Camere Penali dal tema: “Giudice e pubblico ministero. Due soggetti diversi nel processo, nell’ordinamento, nella Costituzione» si era espressa in modo disallineato sul progetto di riforma Mastella sull’ordinamento giudiziario.
Indifferente alla consapevolezza che la riforma era stata imposta dalla stessa associazione dei magistrati, la Forleo andava sostenendo le sue perplessità proprio sulla parte più discussa delle norme: quelle che regolano le carriere e le funzioni dei magistrati. Il magistrato perorava la separazione delle carriere tra requirenti e giudicanti.
Una posizione quella del Gip di Milano che rivalutava lo spirito della riforma coraggiosamente voluta dal centrodestra. Una riforma per l’ordinamento giudiziario pensata per uniformare la giustizia italiana alle scelte di civiltà giuridica già in esser in gran parte dei paesi liberali e democratici d’occidente.
Il Gip di Milano, sostenendo la necessità della separazione delle carriere si era, così, messa di traverso all’ANM. Da quel momento il magistrato già noto per il discusso provvedimento di scarcerazione di presunti terroristi definiti “guerriglieri”, atto giuridico che aveva persino esaltato la sinistra radicale italiana, è entrata nel mirino di chi intende la giustizia alla stregua di un’arma politica da utilizzare per scardinare il sistema delle certezze democratiche e rappresentative e predisporre il Paese alle avventure dell’antipolitica e della sommarietà dei giudizi.
Se Speciale è stato rimosso da Generale della Guardia di Finanza per essersi messo per traverso alla pretesa di Visco di rimuovere i vertici della Gdf di Milano che avevano indagato sull’affare Unipol-Bnl, non si capirebbe la ragione che dovrebbe impedire ora la rimozione della Forleo dall’Ufficio di Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano! E la ragione sembra tutta nella gestione prevalentemente politica del CSM.
La seconda volta la sua colpa è ancora più grave. Il giudice ha voluto toccare i fili della corrente elettrica ad alta tensione, ed è opinione corrente che chi tocca i fili, muore. E’ scritto persino sui tralicci dell’Enel!
La desolante impressione è che anche questa volta la “casta” abbia fatto quadrato intorno agli interessi della politica. E resta tutta la preoccupazione per i cittadini di sentirsi ancora una volta traditi dalle ramificazioni di una logica di potere che si chiude a riccio per impedire che emergano inganni, bugie e privilegi dei soliti noti. L’antipolitica nasce anche da qui!
Forse, però, conviene entrare nel merito delle “colpe” della signora Forleo. Le sue responsabilità consistono prevalentemente nell’aver formulato al Parlamento una richiesta d’autorizzazione all’utilizzo di alcune intercettazioni telefoniche acquisite ai fini di un’indagine penale in corso. Nelle intercettazioni si materializzavano strategie e suggerimenti di parlamentari DS di alto profilo che si accordavano sui metodi e sugli strumenti da utilizzare per l’acquisizione della Banca Nazionale del Lavoro.
Dalla trascrizione sono emersi intrecci e metodi, ritenuti illegali per la scalata alla BNL, tra D’Alema, Fassino, Latorre e Consorte. Quest’ultimo all’epoca era Presidente dell’Unipol, gruppo assicurativo legato alla Lega delle Cooperative, altro colosso produttivo, imprenditoriale, e distributivo ritenuto molto vicino alla sinistra. Ai tempi del Pci la Lega delle Cooperative era considerata persino parte integrante del movimento politico. Le “cooperative rosse” appaltano tuttora in percentuali bulgare tutte le attività della fascia rossa del Paese.
Alla Forleo, giudice per le indagini preliminari, viene persino imputata una formulazione esorbitante dalle sue prerogative per l’atto di richiesta dell’autorizzazione alle Camere. Viene ipotizzato l’inserimento di ipotesi di reato, prerogative invece dei pubblici ministeri, laddove Cicu, Comincioli, D’Alema, Fassino e Latorre vengono definiti: “consapevoli complici di un atto criminoso di ampia portata”.
Il compito della Giustizia è di venire a capo, seguendo un processo di competenze e di prerogative, alle responsabilità penali imputabili ai diversi soggetti interessati. La richiesta del Gip di autorizzazione all’uso delle intercettazioni, per essere privilegio riservato ai membri del Parlamento e non ai cittadini comuni, non potrebbe che essere pertanto motivata. Qualora non ci siano valide motivazioni, si dovrebbe presupporre che l’uso delle intercettazioni in cui compaiono parlamentari non debbano essere autorizzate. E cos’è una motivazione se non la segnalazione d’indizi e comportamenti illeciti che possano motivare persino una successiva iscrizione sul registro degli indagati? Senza l’utilizzo delle intercettazioni non è possibile formulare un atto d’accusa, ma senza un’ipotesi di reato non è possibile richiedere l’acquisizione delle intercettazioni! Delle due l’una!
Il provvedimento di rimozione della Forleo, già preannunciato, come sostiene Letizia Vacca, esponente laico del partito dei comunisti italiani nel CSM, “servirà è riportare la serenità negli uffici di Milano”. Il popolo italiano, però, nel nome del quale si eserciterebbe la giustizia in Italia, avrebbe idee del tutto diverse sulla sua serenità; ma sembra che di questo il CSM non si faccia carico.
Vito Schepisi
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03 dicembre 2007

Lenzuolate e coperte

Quando il Governo di Prodi aveva ancora i pantaloni corti, si annunciavano con grande entusiasmo le liberalizzazioni di Bersani. Dovevano esercitare la più grossa rivoluzione all’immagine di una sinistra fautrice di una politica dirigistica. Dovevano dissipare l’idea stantia e vetero socialista di un’area politica mossa esclusivamente da pulsioni populistiche e fuori dalle leggi del mercato. Avevano lo scopo di rimuovere lo stereotipo di una sinistra indisponibile alle regole della libera iniziativa e dell’impresa, principi economici ritenuti da sempre di impronta prevalentemente liberale e liberista.
Il centrosinistra accusava così il centrodestra d’aver disatteso nei 5 anni precedenti le politiche di liberalizzazione e d’aver contraddetto persino i propositi e gli indirizzi economici tipici delle politiche di movimenti e partiti di ispirazione occidentale.
Con le liberalizzazioni di Bersani, l’immagine della sinistra doveva apparire quella di un movimento rinnovato, aperto ai nuovi principi e fautore di valori di libero mercato e di più diffuso liberismo economico.
Le hanno chiamate lenzuolate ma non per il loro candore. Le lenzuola danno sempre l’idea di qualcosa di fresco e pulito. Le hanno definite così perché hanno costituito un insieme di provvedimenti, forse affrettati ma anche demagogici ed in alcuni casi dimostratisi inutili, se non dannosi, su materie diverse e non sempre trasparenti, tanto da suscitare più di un sospetto sull’impronta autenticamente liberale.
Spostare l’interesse da una parte all’altra dei soggetti economici, od introdurre elementi di vessazione tributaria, magari celata, non ha niente di liberale, spesso invece è più opportunismo, se non l’introduzione di ulteriori elementi di privilegio e di sottomissione alle pressioni delle caste.
In Italia, è noto, ci sono gli intoccabili da sempre. Ci sono coloro che possono tutto, anche configgere con l’interesse generale, o con quello particolare, senza destare preoccupazioni, indignazione e sgomento. L’abuso, tanto si sa per regola, è sempre e soltanto da una sola parte. Dall’altra al massimo o si sbaglia per caso e da soli (i famosi compagni che sbagliano) oppure se c’è qualcuno che azzarda l’approfondimento degli sbagli è ritenuto così pazzo da doversi provvedere a rimuoverlo dai suoi uffici. C’è sempre, insomma, chi sa e chi trova come provvedere alla bisogna. C’è chi può, sempre e comunque!
Sui risparmi degli italiani per le lenzuolate di Bersani non c’è nessuno che ne abbia preso coscienza: sono tanti i dubbi che effettivamente ce ne siano stati! In converso, invece, sembra che ogni costo sia lievitato sia per effetto dell’aumento dell’inflazione, ovvero della pressione fiscale, sia per effetto del caro petrolio.
Quando i mercati erano fermi, per la congiuntura internazionale successiva alla tragedia delle Torri Gemelle a New York, durante l’amministrazione di centrodestra della scorsa legislatura, nessuno faceva sconti al Governo. Anche la concorrenza sleale di paesi asiatici veniva persino ignorata dal Presidente della Commissione Europea. La responsabilità era indifferibilmente di Berlusconi.
Se il prodotto interno lordo non cresceva e se i salari non garantivano i mezzi indispensabili per la sussistenza fino alla fine del mese, la responsabilità era sempre di un Governo disattento alle questioni sociali e, benché non avesse aumentato la pressione fiscale a carico dei lavoratori, la responsabilità del minore potere di acquisto dei salari era sempre di Berlusconi: per definizione!
Ora piacerebbe a tanti sapere di chi sia la responsabilità, oggi, se i lavoratori dipendenti, che prima arrivavano a nutrirsi per tre settimane, oggi si trovano a farlo solo per poco più della metà di ogni mese.
Se l’inflazione falcidia i salari e se le materie di prima necessità subiscono aumenti di gran lunga superiori ai tassi di inflazione ufficiali, non sarà mica colpa dell’opposizione? In questo caso a molti italiani sfuggirebbe qualcosa, e non si tratta soltanto delle espressioni colorite che il 60% della popolazione vorrebbe indirizzare a Prodi ed a questo Governo.
Sfugge la logica, ad esempio, di promesse, programmi ed impegni come la “felicità degli italiani” o la “serietà al governo”. Sfugge ancora la logica di provvedimenti che fanno lievitare la spesa, come l’abolizione dello scalone, ad esempio, o quelle politiche di vessazione fiscale che hanno frenato la domanda interna e rischiano di creare stagnazione e regressione della crescita.
C’è, tra la sinistra alternativa, chi vorrebbe toccare la legge Biagi per eliminare il precariato. C’è persino un sistema semplicissimo per farlo ed in modo radicale che è quello, ad esempio, di eliminare del tutto il lavoro. Senza occupazione, infatti, non ci sarebbe neanche il precariato: un “bingo” ideologico per rendere immensamente felici Giordano, Diliberto e Cremaschi.
La prossima lenzuolata di Bersani riguarderà elettricità, gas e trasporto ferroviario, già gravati di aumenti nell’ultimo anno, pari dal doppio al triplo del tasso di inflazione, e già c’è chi si dispera prevedendo un ulteriore aumento delle tariffe anziché maggiori servizi, maggiore offerta e razionalizzazione dei costi.
Ministro Bersani questa volta invece delle lenzualate procuri le coperte agli italiani: c’è un intero inverno da attraversare ed i lavoratori il riscaldamento se lo potranno permettere solo fino alla metà del mese!
Vito Schepisi
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30 novembre 2007

La spallata del Cavaliere

A Piazza San Babila a Milano il cavalier Berlusconi la spallata l’ha data. L’annuncio del nuovo partito del popolo delle libertà ha avuto l’effetto di una spinta politica, almeno pari ad una vittoria parlamentare sulla maggioranza.
Per prevalere in Parlamento servono intese, spesso trattative e rigida gestione dei gruppi: a volte veri compromessi. In Parlamento con l’azione delle caste, e tra gli interessi particolari, può passare di tutto e persino il suo contrario. Anche il voto di scambio non ha ostacoli di valenza penale. Per prevalere nel Paese, invece, servono chiarezza, decisione e coraggio. Fuori dai palazzi della politica, infatti, servono parole chiare e saper interpretare i sentimenti del popolo.
Prodi fino ad oggi ha mostrato la capacità di prevalere in Parlamento dove agita la clava del dopo di me il v(u)oto, ed infila un voto dopo l’altro utilizzando di tutto: dai senatori a vita precettati, persino bloccati per votare, nonostante i loro impegni scientifici in giro per il mondo, agli avvertimenti minacciosi ed alle costanti pressioni. Tra il popolo, invece, Prodi trova fischi, proteste e tanto sconforto.
Berlusconi, lasciato solo dai suoi alleati, deluso dai “parrucconi” della politica, ha provato invece a confrontarsi direttamente con gli elettori: ed il popolo della libertà ha risposto compatto. Sono state, infatti, otto milioni le firme raccolte contro questo Governo, ritenuto inadeguato e dannoso e privo del consenso politico dei cittadini.
E mentre il popolo firma in massa, fa la fila ai gazebo, sottoscrive gli appelli su internet per chiedere a Prodi ed alla sua maggioranza di togliere il disturbo, Fini e Casini, sollecitati persino dalla stampa sempre critica, se non proprio avversaria, spinti a voler essere protagonisti contro la strategia di Berlusconi, covano l’idea di mettere nell’angolo l’ex premier. Azzardano una spallata al contrario, all’interno dell’opposizione, per assumere protagonismo e visibilità, per aumentare il peso politico ed elettorale dei loro partiti.
Dopo il voto favorevole al Senato, sul testo finale della finanziaria, incassato da Prodi, è emerso il significato dell’enfasi che giornali e persino gli alleati del centrodestra hanno voluto dare al voto. La crisi interna nella maggioranza, con alcuni gruppi che hanno dichiarato di votare a favore solo per senso di responsabilità, anche se non è sfociata nella caduta del Governo, è stata comunque una vittoria politica dell’opposizione. La presa d’atto nell’aula parlamentare dell’implosione della maggioranza di centrosinistra, è stata l’affermazione delle ragioni di una minoranza parlamentare che ritiene dissolta ed esaurita questa maggioranza politica.
Per alcuni non è stato così! Ed invece che esibire la vittoria per il cedimento della credibilità della sinistra di governo, per alcuni Berlusconi ha sbagliato ad annunciare e denunciarne l’implosione. Persino il difficile percorso della maggioranza, in piedi ancora una volta per il rotto della cuffia, viene così imputato a carico del leader di Forza Italia. Qualcuno tra i suoi ex alleati ha parlato persino di fallimento di una strategia politica.
Le mani libere! Ma libere da cosa? Quando si è all’opposizione, in particolare, le mani si liberano solo quando si è concordi nel contrastare le iniziative ritenute sbagliate. Se la maggioranza, come quella di Prodi, ha occupato il potere con sofismi e contraddizioni, facendo ritenere un’unione che nella sostanza non è mai esistita, avere le mani libere significa contrastarla con ogni mezzo.
Cosa vuole Casini o Fini che interessi al popolo delle libertà, arricchito da tanti ex elettori del centrosinistra, la loro necessità di visibilità politica? Mentre il popolo in massa firma, e firma anche a sostegno della loro opposizione, non è corretto rilasciare interviste con cui si prendono le distanze dalle strategie adottate e se ne annunciano nuove e divergenti, con l’evidente intenzione di isolare la leadership dell’opposizione e, soprattutto, con l’idea di rendersi protagonisti di stagioni politiche diverse.
Ciò che non si capisce è cosa, a loro avviso, dovesse fare invece l’opposizione? Forse augurarsi che la maggioranza fosse compatta ed a ranghi pieni, e votare contro solo per un esercizio formale? Nessuno si chiede ma scusate il Paese che dice? Il Paese che pensa? Il Paese che vuole?
C’è stato un voto circa 20 mesi fa in cui l’elettorato s’è diviso in due. Da quel momento i rappresentanti del 50% del paese, ignorando le promesse fatte agli elettori, e tra queste persino quelle della serietà, hanno ritenuto di governare contro il Paese . Alcuni, ispirati dal desiderio di vendetta sociale “anche i ricchi piangano”, hanno premuto per sommergere di tasse i contribuenti, col risultato contrario di far continuare a gioire l’alta finanza ed i capitali e far piangere ancora di più la povera gente.
Ora tocca al popolo delle libertà esprimersi, e Berlusconi non dia l’impressione di far marcia indietro. Il popolo è unito nel chiedere compattezza e coerenza e soprattutto la caduta di questo governo. ”La situazione dell’Italia non è buona”: sicurezza, giustizia, pressione fiscale, debito pubblico, sanità, servizi, infrastrutture, occupazione giovanile, precariato sono come tante ferite che se non curate diventano piaghe. E’ populismo volerle porle all’attenzione dei cittadini e provvedere a risolverle con il consenso dei diretti interessati? Sia populismo allora!
Al popolo non interessano i giochi della politica, ma le questioni di tutti i giorni, quelle che vive sulla propria pelle, interessa la forza e la coerenza dell’azione, senza i giochi ed i tatticismi della visibilità politica.
Vito Schepisi

28 novembre 2007

La riforma elettorale tra alchimie e furbizie

E’ opinione comune che le alchimie elettorali, più che essere un modo per assicurare al Paese governabilità e maggioranze omogenee e coese, servano ai partiti per tentare di assestare meglio la propria consistenza parlamentare e per poter esercitare pressioni politiche ben oltre il proprio peso specifico, anche contro il mandato della maggioranza del corpo elettorale.
Tra le scelte, alla base c’è già un intreccio iniziale da sciogliere: se optare per un sistema maggioritario o per un sistema proporzionale.
Mentre il primo, senza correzione proporzionale, favorisce prevalentemente il bipolarismo, rendendo necessario l’accordo tra partiti collocati in aree larghe (centrodestra, ovvero centrosinistra), pena il rischio di restare fuori dalla rappresentanza parlamentare; il secondo, quello proporzionale, favorisce la frammentazione e persino la convenienza a porre motivi di divisione.
Tra le opportunità del proporzionale per i gruppi minori, oltre ad esserci quella della possibilità di esercitare pressioni sulla maggioranza o sulle scelte del Governo, persino al limite di ogni decenza, c’è la possibilità di favorire di volta in volta l’adeguamento dei regolamenti parlamentari, anche attraverso deroghe di cui è divenuto costume l’abuso, onde creare diversi gruppi con tanto di sedi e rappresentanze, con costi sempre a carico dei contribuenti, ed ancora, fatto ritenuto di grande importanza, la possibilità di poter accedere al finanziamento pubblico.
Sia il maggioritario che il proporzionale sono scelte che rispettano in pieno i principi della democrazia: sono ambedue legittime espressioni del popolo. Appare però evidente che l’opzione proporzionale sia quella che più possa riflettere compiutamente le diverse anime del Paese e che più possa essere legittimata a sostenerne le istanze. Se si potesse trarre un giudizio di merito sulle regole di una democrazia parlamentare, si potrebbe affermare che il proporzionale puro possa essere la scelta più equa. La suddivisione in perfetta percentuale riflette, infatti, i limiti ed i confini di ciascuna forza ed offre l’immagine precisa del Paese.
Tutto questo in teoria ma, come si è detto, e soprattutto si è visto dal vero, la realtà è purtroppo diversa. L’obiettivo non deve essere, allora, quello di comprendere cosa ci sia di diverso, ad esempio, tra Casini e Mastella, o tra questi e Dini, o ancora tra Diliberto e Giordano. Una volta compresa la ragione del loro diverso sentire, se mai si possa comprendere, resta il fatto che ove l’uno, o l’altro prenda un “piccio”, se il loro apporto di voti parlamentari dovesse essere indispensabile, il Paese si troverà a dover attendere i comodi loro per poter adottare provvedimenti o varare riforme.
Ma la democrazia non può essere questa! Non si può ridurre il mandato popolare all’esercizio delle schermaglie di nicchia o agli interessi particolari e neanche, come abbiamo visto di recente tra Di Pietro e Mastella, alle rivalità personali. Se la civiltà del confronto richiede il massimo rispetto per le istanze delle minoranze e per il pluralismo delle posizioni, è vero anche che si debba prendere atto che c’è una maggioranza che ha un diverso sentire e che ha diritto di prevalere, laddove il suo diritto non sia lesivo di quello degli altri. Ed inoltre, se c’è una maggioranza nel Paese sugli indirizzi generali, non la si può ricercare continuamente persino sulle istanze particolari. Niente funziona in questo modo. Se si pigia sul freno, e si ferma la macchina che procede ad andatura continua e costante, a conti fatti, si rischia di consumare più energie e di arrivare in ritardo agli appuntamenti che nel caso di un governo sono quasi sempre i bisogni.
Tra i principi delle democrazie elettorali, per ovviare alle tante questioni, ce ne sarebbero alcuni abbastanza validi, sperimentati con successo in altri paesi. Ma non è detto che si possa importare un sistema che altrove funziona e presumere di farlo funzionare anche da noi. Le realtà sono diverse e sono differenti persino i profili costitutivi dei diversi stati. In Spagna ed Inghilterra, ad esempio, c’è la monarchia. In Francia e negli USA il presidente è eletto dal popolo ed ha ampi poteri. Sarà per questa ragione che l’occhio è continuamente puntato sul sistema tedesco dove il Cancelliere è espressione della maggioranza parlamentare.
Quello della Germania è un sistema elettorale misto: i parlamentari sono eletti metà col maggioritario e metà col proporzionale. Su questa seconda metà, però, c’è una soglia di sbarramento: i partiti che non raggiungono il 5% restano fuori dal parlamento. Non è detto, però, che col sistema tedesco si garantisca la governabilità: dopo le ultime elezioni, vinte di misura dalla Merkel, si è fatto ricorso alla grande coalizione per consentire la governabilità. In Italia. Invece, pur non avendo vinto le elezioni in entrambi i rami del Parlamento, Prodi ha respinto la proposta di un esecutivo dalle larghe intese. E’ interessante osservare, però, che in Germania non si può con un colpo di mano sfiduciare il governo in carica. Esiste, infatti, l’istituto della sfiducia costruttiva che prevede la proposta di un diverso premier e di una diversa maggioranza con cui sostituire il cancelliere e la maggioranza già in carica.
E’ opinione comune, come si diceva all’inizio, che le alchimie elettorali servano anche ad altri fini. Sono in molti, infatti, oggi in Italia a chiedersi se l’iniziativa del centrosinistra sia ispirata dai buoni propositi di dotare il Paese di una efficiente riforma elettorale più idonea alla governabilità e non, come da più parti si sospetta, per prendere tempo e superare le difficoltà di una maggioranza senza una vera e credibile proposta politica.
Sarà per questo che Berlusconi ha deciso di sedersi al tavolo per vedere le carte ed eventualmente smascherare il bluff di Veltroni.
Vito Schepisi

21 novembre 2007

Ognuno ora si assuma le sue responsabilità

Il più delle volte i percorsi più difficili si dimostrano i più facili e viceversa. Quante volte tra gli elettori del centrodestra si è diffusa rabbia e delusione nel vedere annacquare la forza d’urto dell’opposizione per la corsa verso la visibilità di leader molto ambiziosi ma confusionari, incoerenti e senza il necessario consenso popolare?
Dalla scorsa legislatura c’è ancora chi si chiede cosa avesse voluto dire Follini, ad esempio, quando parlava di “soluzione di continuità” ogni qualvolta il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, lanciava una nuova iniziativa politica. La forza di coesione del centrodestra aveva rappresentato uno dei pilastri su cui si era radicato il consenso politico del 2001. Ed è bastato un Follini che si fregiava del riparo di un Presidente della Camera, collocato in quel posto per grazia ricevuta, per disperdere credibilità e coesione e diradare altresì un patrimonio di voti che ha poi consentito al centro sinistra di vincere le elezioni politiche del 2006.
Sono bastati solo 24mila voti all’armata politica di Prodi, la più sgangherata dal dopoguerra ad oggi, per occupare ogni spazio del Paese. Ed è bastata una possibile difficoltà di Prodi al Senato per vedere Follini, senza indugio, saltare dall’altra parte della barricata.
I percorsi più difficili si mostrano invece i più facili quando si ha la percezione d’esser dalla parte del popolo e di interpretarne gli umori. E’ così che Berlusconi, frenato dai suoi alleati nel condurre un’opposizione decisa al Governo del declino, si è smarcato da coloro che spesso si sono dimostrati più palle al piede, o politicanti di un sacco ed una sporta anziché coerenti alleati. L’ha fatto alla sua maniera, dimostrando che il suo rapporto con pezzi della maggioranza non può che essere privilegiato, rispetto ai goffi tentativi dei “furbetti” di turno di scavalcare la sua leadership.
Anche Fini, sdoganato assieme al suo vecchio partito, il vecchio movimento sociale italiano, ritenuto più a ragione che a torto erede dei principi e delle simpatie del ventennio fascista, si è lasciato prendere da eccessi di ambizioni. Ha ritenuto di dover rilasciare interviste in cui si discostava dalle iniziative dell’opposizione, rilanciando persino la disponibilità a dialoghi separati con la maggioranza su riforma elettorale, sconfessando di fatto la richiesta di nuove elezioni su cui Berlusconi aveva investito impegni organizzativi e credibilità politica e per la quale milioni di italiani avevano appena posto la firma.
Cosa crede Fini che senza il sostegno e la copertura politica delle componenti liberali e democratiche del Paese il suo passato non gli sarebbe stato rinfacciato ad ogni piè sospinto? I voti alla destra missina erano considerati una volta “voti a perdere”, senza peso politico. Per espressa volontà di una consistente parte di quello che si definiva “arco costituzionale” il Msi era stato espressamente estromesso dal gioco del governo e delle maggioranze. Fini questo non dovrebbe dimenticarlo.
Alleanza Nazionale, dopo la caduta dei partiti tradizionali, nella cosiddetta seconda repubblica, ha potuto realizzare la sua evoluzione democratica tanto che ad oggi Fini ed AN si sono spinti fino a voler ricercare spazi in famiglie di più vasto respiro europeo, come il PPE. I novi tragitti sono il frutto del lavoro e del sostegno di forze politiche che si sono impegnate a far girare le pagine della storia sviluppando nuove strategie politiche che, nonostante le canee retoriche, chiudevano le pagine ed i capitoli della vecchia politica. Si è sviluppato un contesto in cui le vecchie ideologie totalitarie, in un’accezione larga e condivisa, venivano definitivamente condannate come crimini contro l’umanità, liberando così alle regole della democrazie espressioni più conservatrici che reazionarie
Le vecchie chiusure venivano così superate dalle fasi nuove dei rapporti tra i popoli dove i principi della democrazia e del pluralismo si costituivano come basi irrinunciabili di un lavoro e di un impegno comune. Su questa nuova prospettiva i componenti della vecchia Cdl hanno lavorato gomito a gomito, come sinceri alleati, per aprire nuove pagine e scrivere nuovi capitoli della storia d’Italia. Sono stati così dischiusi nuovi orizzonti e realtà diverse si sono affacciate ai nuovi contenuti e, slegate dai vecchi principi limitativi, si sono potute rivolgere ai concetti ed alle strategie delle forze politiche moderne.
Di chi è stato il merito di questa evoluzione, se non di una strategia di alleanze che toglieva ad ogni forza politica pezzi di passato stantio per unificare valori, come è emerso, negli spazi comuni di principi di libertà in cui il cittadino potesse sviluppare il suo ruolo di individuo responsabile?
Se questa strategia subisce una frenata perché sulle idee e sulla spinta propulsiva qualcuno si sfila, per ricercare collocazioni diverse, non si può poi pretendere che gli altri aspettino immobili che si facciano esperimenti, o si prendano iniziative divergenti, senza che di contro vengano percorse strade alternative, ritenute persino cautelative rispetto alle iniziative di altri.
Vito Schepisi

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16 novembre 2007

Presidente Prodi ha capito che la sua maggioranza non esiste più?

Prodi sorride e si mostra soddisfatto. Ma non ha capito che la sua maggioranza è finita?
Non è una spallata e neanche un incidente di percorso: è una volontà politica del Paese, prima che delle forze politiche della sua maggioranza parlamentare.
Il Presidente del Consiglio più caparbio e restio a scendere dalla sella della sua bicicletta, oramai con le ruote forate, si rende conto che è diabolico e persino immorale governare contro il Paese? Persino larghi settori della componente centrista e della sinistra moderata della sua maggioranza lo considerano responsabile del malessere diffuso. Tra questi in buona parte anche tra coloro che sono confluiti nel Partito Democratico che è ritenuto, persino a ragione, sua creatura politica.
Con il suo linguaggio dislalico, le sue bugie e l’ostinata presunzione nel ritenere di poter mischiare gli opposti è il responsabile della crisi emersa con la debolezza della proposta politica della sinistra.
E’ un ostacolo a tutto: al dialogo, alla pacificazione, alle riforme, persino al buonsenso.
Le dichiarazione al Senato di Dini “ Va superato questo quadro politico, poiché il governo che ne è espressione non appare adatto a realizzare le politiche necessarie per invertire la tendenza al declino economico e civile del Paese” e l’avviso così lapidario nelle sue conclusioni di Bordon “voto si, ma la maggioranza non c’è più” fanno parte degli atti parlamentari del Senato della Repubblica e non dell’annuario del circolo bocciofili di Scandiano, il comune nella provincia di Reggio Emilia che dette i natali a Romano Prodi.
Un qualsiasi uomo politico responsabile ne avrebbe preso atto e sarebbe andato dal Presidente della Repubblica per concordare i tempi della crisi. Uno statista avrebbe dato seguito alle dichiarazioni dei dissidenti della sua maggioranza per dirsi disposto a portare a termine l’approvazione della legge finanziaria ma solo per senso di responsabilità, premettendo che alla fine dell’iter parlamentare della legge di bilancio avrebbe ritenuto conclusa la sua esperienza di governo. Un politico responsabile, ma a quanto sembra non Prodi, avrebbe dichiarato, senza mezzi termini, di voler rassegnare, al più presto possibile, nelle mani del Presidente della Repubblica il mandato ricevuto, perché questi possa ottemperare alle sue prerogative di indicare per il prosieguo della legislatura le decisioni ritenute più idonee. Tra queste, ad esempio, se opzione largamente condivisa dal Parlamento, far proseguire la legislatura per una strada diversa, ovvero in caso contrario indire nuove elezioni politiche.
Prodi invece non ci pensa neanche. Resta attaccato a Palazzo Chigi come una mosca a quella striscia impregnata di collante che si usava verso la seconda metà del secolo scorso, appesa al candelabro delle stanze in cui le famiglie cosuetudinalmente si riunivano, per bloccare la libera circolazione delle mosche.
Invece che l’insetto, però, in questo caso si costringe all’immobilità il Paese e si impone, ai tanti italiani che nei sondaggi mostrano insofferenza e fastidio, la presenza sgradita di un Governo in crisi di credibilità politica. Ci sono regole scritte, principi costituzionali, persino aspetti di regolarità democratica che possono avallare la caparbietà di Prodi nel non voler prendere atto di un’intesa difficile con il sentimento popolare. Su queste basi il Presidente del Consiglio continua ad affermare che fino a quando non riceverà la sfiducia formale del Parlamento si riterrà legittimato a presiedere il Consiglio dei Ministri e rappresentare l’indirizzo politico del Paese.
Ci sono però anche sensazioni non scritte e senso di responsabilità che non sono formalmente, civilmente o penalmente rilevabili. E’ possibile che un Capo del Governo non debba avvertire l’obbligo morale di prendere atto di situazioni di oggettivo fastidio che la sua gestione politica sta alimentando tra i cittadini italiani?
Ci sono pezzi di consenso politico che hanno abbandonato l’Unione, di gran lunga più rappresentativi dei 24mila voti in più guadagnati alla Camera nelle ultime elezioni. Si sono sfilati dalla coalizione di maggioranza sia il partito dei pensionati (333.000 voti) sia Capezzone, allora leader della componente radicale della Rosa nel Pugno (990.000 voti). Al Senato l’Unione ha persino avuto ben 428.000 voti in meno della Cdl.
Ora si aggiungono al Senato almeno 5 senatori tra i liberaldemocratici di Dini, Bordon e Manzione e già si parla di ulteriori confluenze provenienti dal centrosinistra.
Sono tutti segnali politici che già per loro conto, senza ricorrere ai sondaggi rilevati da più fonti e convergenti, avrebbero dovuto consigliare al Presidente Prodi di mettersi da parte. Uomini più attenti e sensibili avrebbero persino mutato i contenuti dell’azione politica e soprattutto evitato di adottare scelte mirate a ribaltare le riforme adottate dal precedente governo ed apprezzate da larghi settori del Paese. La furbizia e l’intelligenza politica avrebbero dovuto far emergere l’umiltà di chiedere persino il sostegno dell’opposizione per migliorare, sia negli effetti che nell’impatto sociale, riforme come la Biagi o la Maroni.
Si sono invece percorse strade diverse, più dure ed orientate allo scontro, persino dissolti equilibri di rappresentatività come con la rimozione del consigliere Petroni dal Cda della Rai (ritenuta ora illegittima dal Tar) .
La maggioranza di Prodi è finita perché rappresentava un sofisma, perché ha voluto realizzare sulle finzioni una proposta politica inesistente. E’ giunto ora il momento di staccare la spina: le medicine somministrate non sono in grado di ristabilire regolari funzioni di vita, risultano persino tossiche per il Paese. L’accanimento terapeutico non serve: è necessaria una guida forte e coerente.
Possibile che sia rimasto solo Prodi a non aver ancora realizzato che il tempo è ormai abbondantemente scaduto?
Vito Schepisi

14 novembre 2007

E' stato un errore

Nel 1995 a Lamberto Dini, già Ministro del Tesoro del Governo Berlusconi, non gli sembrò di star nella pelle per l’opportunità offertagli dal Presidente della Repubblica del tempo, Oscar Luigi Scalfaro, di sostituire Berlusconi alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Fu così che l’ex Direttore Generale della Banca d’Italia, senza porsi problemi di legittimità, formò il suo governo, coi ministri suggeriti da Scalfaro e sostenuto da coloro che erano usciti perdenti dalle consultazioni elettorali dell’anno precedente, dando così vita al “ribaltone” più famoso della storia della Repubblica Italiana.
Se il leader di Forza Italia ritiene ora di poter contare su chi già una volta ha dato esempio di privilegiare l’ambizione personale alla legittimità degli atti, commette almeno due errori.
Il primo dei due è il rischio di trovarsi con un pugno di mosche in mano per la scarsa fiducia che il leader di Forza Italia dovrebbe avere verso chi già in precedenza non si è creato scrupolo alcuno. Se nelle scelte di Dini ci fossero ragioni politiche, piuttosto che ambizioni personali, non si capisce perché questi scrupoli giungano ora. L’ex ministro, prima di Berlusconi e poi di Prodi, era già pronto ad entrare nel PD e se ne è mantenuto fuori solo quando è stato reso evidente che il suo ruolo futuro sarebbe stato del tutto secondario se non marginale o nullo. Se l’ispirazione liberaldemocratica, che Dini sembra ora voler rappresentare, fosse stata sincera, non si capisce perché portare le cose alla lunga: non sono mancate nei 18 mesi trascorsi di governo di sinistra-centro sia le circostanze, sia le scelte di spessore squisitamente politico in cui le istanze di scelte di rigore e di valenza prevalentemente liberale sarebbero dovute emergere con chiarezza.
Il secondo errore di Berlusconi è di non considerare che contro lo scioglimento delle Camere esista un partito trasversale motivato dal timore di perdere l’indennità previdenziale per la mancanza del requisito della durata della legislatura. Cosa che invece Prodi sa bene tant’è che annuncia, come se fosse una minaccia, che la caduta del suo Governo porta dritto alle elezioni anticipate in primavera e cioè prima della maturazione del requisito richiesto. Non a caso Mastella, molto attento alle debolezze dei parlamentari, sembra essere diventato il più energico protagonista della compattezza della maggioranza. Ha sotterrato, per il momento, la sua ascia di guerra in attesa di circostanze migliori ed anche di cause più redditizie.
Non si sa se sia vero ciò che Berlusconi ha lasciato pensare per giorni. Ha fatto credere di disporre di un gruppo di senatori, delusi dall’immobilismo e dalla confusione della sinistra e persino spiazzati dalla nascita del Partito Democratico, pronti a passare dall’altra parte. E’ anche possibile che possa effettivamente accadere ma è stato un errore aver consentito ai media, sempre pronti ad enfatizzare i termini delle sue dichiarazioni, e senza immediate smentite, di far passare la data del 14 novembre come quella della caduta quasi certa di Romano Prodi. Se accadesse apparirebbe più una congiura di palazzo che l’implosione della maggioranza parlamentare. E’stato uno sbaglio che potrebbe rafforzare persino Prodi e la credibilità del suo governo, se invece non accadesse niente ed il voto finale sulla finanziaria passasse.
La caduta di Prodi non dipende dalle scelte di Berlusconi o di altri leader del centrodestra ma solo dalla eventuale sfiducia di una parte della sua maggioranza, ovvero da eventuali incidenti di percorso. Neanche le contraddizioni, a volte sopra le righe, tra i partiti ed i ministri riescono a dissolvere un Governo di così limitato spessore, e nonostante il precipizio della popolarità e la inconsistenza di una proposta politica credibile.
La maggioranza e la compagine ministeriale hanno dimostrato di saper inghiottire ogni rospo ed ogni pietanza indigesta. L’impressione che si ha è che sia l’ultima spiaggia per la sinistra italiana. Il collante sta nel loro timore d’avere la difficoltà d’esser credibili. Sembrano invisi a tanti e considerati generalmente incapaci ed inadeguati, e soprattutto imborghesiti e privilegiati, componenti a vario titoli delle cosiddette “caste”. Questa consapevolezza rende concreta l’ipotesi che se questa classe dirigente di oggi, sia politica che di gestione, va a casa poi ci rimane per sempre.
La sinistra, infatti, oltre a dover scontare il prezzo della incapacità dimostrata, confina con larghi settori dell’antipolitica e le invasioni di campo, che si verificano, sono ora considerate non più solo fenomeni da mettere in conto quanto, invece, realtà quotidiana con cui fare i conti. Le manifestazioni organizzate dalle sinistre contro le scelte del governo non sono solo sintomi di un disagio di militanti, quanto prove dell’emigrazione a sinistra di fette di organizzazioni sociali e di espressioni politiche alternative della sinistra più radicale.
Il rafforzamento della maggioranza potrebbe coincidere sull’altro versante con l’indebolimento di Berlusconi. Le ripetute aspettative deluse di coloro che confidano nella possibilità di vedere soccombere questo governo rischiano di trasformarsi in disillusioni e criticità nella leadership dell’ex Presidente del Consiglio.
Per queste ragioni è stato un errore.
Vito Schepisi

08 novembre 2007

Veltroni ed il "Sogno Americano"

Non penso che Veltroni sia un tonto, anzi penso esattamente il contrario. E’ per questo che dico che ci troviamo di fronte al più camaleontico personaggio politico italiano. Si pensava che, oltre Prodi, per giocolieri ci fosse poco spazio da occupare. Ci siamo sbagliati. La verità è che il Presidente del Consiglio, invece, è più assimilabile al tonto di quanto non lo sia il leader del Partito Democratico.
Prodi ci mette del suo. Diviene arrogante e spocchioso per reagire alla sua scarsa presa mediatica; è portato a far abuso del falso per far prevalere i suoi interessi politici o i suoi tentativi egemonici, come è stato con Telecom ed il Piano Rovati; si contorce nelle risoluzioni adottate per attenuare i distinguo dei suoi alleati; ha il terrore di dover aprire all’opposizione perché teme che possa essere il principio di una breccia irreversibile per la sua maggioranza.
Veltroni, al contrario, persegue il suo obiettivo essenziale per dar sostanza alla sua leadership. Ha necessità di liberarsi del condizionamento della sinistra più radicale e farebbe carte false per scompaginare l’opposizione ed acquisirne spezzoni. E’ furbo ed ha capito che in un sistema tendenzialmente bipolare non c’è spazio per una sinistra che, benché moderata, possa restare separata da quella più antagonista, senza finire nell’equivoco e nel disperdere il consenso di quegli elettori inclini a veder sviluppare la società italiana sui modelli delle democrazie occidentali.
Veltroni è intenzionato ad occupare stabilmente il centro dell’arco politico italiano e di proporsi allo stesso tempo come unica forza propulsiva di progresso del Paese. Il suo sogno è una sorta di partito popolar socialista in cui far sviluppare istanze sociali e necessità di mercato, scelte di sicurezza e tolleranza verso gli immigrati, scelte etiche ed aperture alle diversità.Veltroni sembra il filosofo dei contrapposti, vuole convincere tutti d’esser la soluzione pronta per tutto. Quello di Walter l’americano, però, è un sogno ben diverso da “TheAmerican Dream” raccontato nella metà del diciannovesimo secolo da Horatio Alger. E’ un “dream” diverso da quello passato alla storia di Martin Luther King, enunciato nel suo più famoso discorso a Washington nell’agosto del 1963: “Vi dico oggi, fratelli miei, non perdiamoci nella valle della disperazione. E anche se affrontiamo le difficoltà di oggi e di domani, io ho ancora un sogno. È un sogno profondamente radicato nel Sogno Americano.”
Il sogno dell’italiano Walter è più di basso profilo. Dopo aver esautorato il socialismo democratico, in alleanza con la magistratura militante all’inizio degli anni novanta, il post comunista Veltroni, con il neonato PD, sogna di esautorare Forza Italia e le componenti liberali, laiche e cattoliche, presidio del centro del sistema democratico italiano. Per far questo il leader ex pci ha bisogno di ricercare le strade del dialogo con il centrodestra, con chiunque, sia pure con Calderoli, se non con Casini o componenti di Forza Italia. Il richiamo all’impegno sulle riforme è la sua carta vincente. Confida sulla volontà del Presidente Napolitano che ha già detto che senza almeno la riforma elettorale non si può andare a votare.
Il feeling del PD con i potenziali elettori, dopo l’impennata iniziale, man mano che sono emerse alcune contraddizioni, si va affievolendo. Pezzi della Margherita non confluiti nel PD, prendono le distanze sino a far emergere il pericolo per Prodi del venir meno dei numeri della maggioranza al Senato.
Veltroni all’inizio sembrava propenso a non lasciarsi logorare, soprattutto dal malgoverno di Prodi. I suoi annunci programmatici erano in netta discontinuità con questo esecutivo. Ora invece è interessato a prendere tempo. La svolta è apparsa evidente soprattutto dopo la prima vera difficoltà sull’immigrazione che lo ha coinvolto in prima persona, smascherando la sua cattiva gestione del Comune di Roma, tra festival e notti bianche ma con le periferie in pieno degrado.
Il centrodestra ricompattato lo ha spaventato. Andare al voto in primavera, senza la sinistra radicale, con la Cdl unita e compatta, equivarrebbe per lui a comprare in anticipo un biglietto per l’Africa. Un biglietto di sola andata, senza ritorno, per corrispondere ai suoi progetti enunciati nel 2001 dopo la sconfitta elettorale del centrosinistra e la sua candidatura a Sindaco di Roma: chiudere con l’esperienza dell’amministrazione di Roma la sua carriera politica per dedicarsi ai bisogni delle persone meno fortunate del continente africano. Verrebbe da pensare cosa abbia fatto di male questo sfortunato continente per ricevere questa minaccia! In Africa, a dir il vero, non sembra che qualcuno lo aspetti davvero!
Se non potrà essere possibile da solo col suo PD, in caso di elezioni politiche in primavera, non gli rimarrebbe che andare al voto in alleanza con i partiti della sinistra estrema, ammesso che questi ultimi siano propensi ad allearsi con lui. A sentire Ferrero, ad esempio, qualche dubbio verrebbe: "Veltroni ha proposto nei fatti un impianto emergenzialista e securitario, facendo pressing sul governo. Oggi - continua il ministro di Rifondazione Comunista - c'è la possibilità di battere questa linea politica che porta dritti dritti all'accordo con Fini e con la destra". Questo rinnovato accordo con i neo comunisti, qualora vi fosse, non sarebbe molto credibile perché simile alla strada percorsa da Prodi: sarebbe lo stesso tragitto di un progetto miseramente fallito tra le beghe e gli equivoci sin qui rilevati.
Il sogno di Veltroni assume pian piano contorni evanescenti, sbiadito come il profilo del personaggio. Un uomo per alcuni aspetti duale. Il suo sostegno a Prodi, da quando ha realizzato che con Prodi si perde, è stato sempre condizionato dall’esigenza dello sfoggio di lealtà verso il Presidente del Consiglio e dalla necessità di marcare una serie di distinguo sulle scelte di governo e di programma. La sua strategia si è andata così permeando di sostanziale ambiguità da essere da qualche tempo sottoposta ad insistenti rappresentazioni satiriche da parte di quegli stessi comici della sinistra che sembravano fino a poco tempo fa aver messo casa, per le loro esibizioni, in un ipotetico “piazzale Berlusconi”. Sembra che ora la satira politica si sia trasferita nei pressi di casa Veltroni.
Ed assume, così, aspetto sempre più comico il suo “American Dream”!
Vito Schepisi

24 ottobre 2007

Con toni pacati

Anche questa volta il Presidente Prodi è riuscito a salvare il suo Governo. L’ha salvato nelle forme costituzionali, con un voto di scarto al Senato e grazie ai soliti senatori a vita. Quello che conta però, più dei numeri e della legittimità etica di utilizzare i voti di senatori “non eletti”, per superare l’ostacolo di una maggioranza che al Senato non c’è, è il clima politico che si è andato creando.
Oramai il 2007 volge al termine. E’stato un anno pieno di fatti da ricordare, alcuni straordinari, come le anomalie atmosferiche, il gran caldo, un’estate meteorologica lunghissima ma anche vissuto in un clima politico che si è fatto rovente.
Tra le tante questioni che dividono il mondo politico, come è giusto che sia nella dialettica maggioranza/opposizione, ve ne sono ancora di più all’interno dello schieramento di maggioranza. Lo scontro che puntualmente si accende, spesso in termini e modi dirompenti tra le componenti politiche e gli uomini di questo governo, finisce col svilire la serietà e l’autorevolezza di tutte le Istituzioni.
Anche gli interventi tardivi del Presidente della Repubblica, e persino quelli che sono venuti a mancare, non giovano a ripristinare il rispetto delle forme che, come si afferma nelle questioni giuridiche, sono spesso sostanza nel perseguire i fini di una entità nazionale democratica dove la civiltà del confronto prevalga sui modi barbari ed arroganti.
Una preoccupazione in più, in Italia, è la litigiosità e le divergenze programmatiche all’interno della maggioranza. Criticità che si intersecano con le altre questioni irrisolte, anzi aggravate proprio dall’immobilismo di questo governo: si aggiungono così al debito pubblico record ed alla obsolescenza delle strutture istituzionali, oltre che alla ricerca da tempo di un sistema elettorale che assicuri governabilità e responsabilità.
Chissà quanti italiani lucidi e riflessivi rimpiangono ora la riforma costituzionale bocciata lo scorso anno da una consultazione referendaria in cui i vinti, come sempre accade, sono saliti sul carro dei vincitori, all’insegna della discontinuità con Berlusconi, per respingere proprio quella riforma della politica invocata da sempre dagli italiani!
Sin dalla realizzazione di questo Governo, tra Mastella e Di Pietro s’è creata una conflittualità che è andata oltre la politica e le scelte. L’ultima diatriba, che li ha visti coinvolti sulla questione del PM De Magistris e della Procura di Catanzaro, è stata stoppata con l’intervento diretto di Prodi. Ma la disistima reciproca continua a covare, esiste un’evidente incompatibilità tra i due, e spesso si ha l’impressione che la lotta sia principalmente rivolta alla ricerca di visibilità, a discapito del raziocinio e della tolleranza.
La situazione conflittuale richiamata è la cartina di tornasole della fragilità di questa maggioranza, e stabilisce per di più che non si vedono sintomi del ripristino del confronto, seppur serrato, ma civile e pacato tra le forze politiche che danno vita alla coalizione del centrosinistra. Anche la fiducia di Prodi al Guardasigilli viene letta come l’obbligo del Presidente del Consiglio a non volgere le spalle a colui che gli ha tolto le castagne dal fuoco giudiziario, per il suo coinvolgimento nella questione degli affari poco chiari in Calabria con i fondi europei, su cui De Magistris stava indagando.
Sulle questioni del lavoro e sugli “scalini” della riforma delle pensioni le divergenze, tra sinistra radicale, ancorata a vecchi schemi ideologici, e le forze della sinistra moderata, esistono e rappresentano rotture reali, sebbene camuffate. Si sono viste centinaia di migliaia di persone scendere in piazza a Roma sotto i vessilli di forze politiche con responsabilità di governo a manifestare contro le scelte dello stesso governo.
Il clima non è dei migliori e nessuno sembra disposto a fare un passo indietro. La confusione rischia di accendere gli animi più dirompenti, alimenta l’antipolitica, crea disorientamento e preoccupa perché allontana la capacità di lavoro dell’esecutivo e non pone soluzione alla crisi della politica, richiamata da D’Alema appena qualche mese fa, anzi l‘aggrava.
Se si va diffondendo la sensazione d’aver vissuto un anno particolare che a memoria d’uomo non si ricorda, è anche vero che si stenta a ricordare un disfacimento così pesante della stima dei cittadini verso la nostra classe dirigente. C’è la sensazione che la vecchia politica s’aggrappi alle maniglie dell’omertà, come gli anziani ai maniglioni nella vasca da bagno per non scivolare.
E’ in questo clima che le persone responsabili, consapevoli d’essere motivo di scontro e d’aver fallito nell’impresa di costruire un cartello elettorale contro una persona, ma senza una vera e credibile proposta politica, avrebbero tutto da guadagnare prendendo atto d’aver sbagliato e lasciando le redini di un Governo ormai in balia delle beghe personali tra ministri. L’Italia democratica, i cittadini con le loro idee anche differenti, il buonsenso vorrebbero che si passasse la mano.
Le stagioni della politica sono come quelle meteorologiche: a volte sono anomale. Alla fine, però, la natura, che è “la ragione” della metafisica, prevale: all’estate segue l’autunno e poi l’inverno per arrivare alla primavera ed al ripristino della buona stagione.
Presidente Prodi, ci consenta un appello con toni pacati. Iniziano i primi freddi, è arrivato l’autunno, ed è arrivato anche il suo, l’Italia le chiede di mettersi da parte: ora c’è anche Veltroni, il nuovo. Lasci a quest’ultimo, se capace, il compito di affrontare l’inverno e ricondurre la politica al tepore della primavera. Lo lasci provare! Per farlo, però, coerentemente e senza condizionamenti, c’è bisogno che lei si metta da parte: l’Italia ha anche bisogno di una sinistra che sia presentabile!


Vito Schepisi

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20 ottobre 2007

Le due sinistre italiane


Ma questa sinistra ha proprio una vocazione masochista! In una fase politica molto delicata per le sorti di un governo frastornato dall’antipolitica e dall’immobilismo, indeboliscono consapevolmente la credibilità, già seriamente compromessa, di Prodi e della sua maggioranza.
Nelle coalizioni di governo le espressioni più marginali e minoritarie sostengono soluzioni di bandiera, compatibili però con un indirizzo più largo, ma non possono pretendere, come è accaduto, d’essere partecipi in modo prevalente nella proposizione di scelte politiche. Ed è proprio questa pretesa che è alla base della crisi propositiva di Prodi e del governo di centrosinistra.
C’è una parte del Paese che ha perso la fiducia verso questo esecutivo proprio per le accentuazioni su scelte contraddittorie e senza senso e per indirizzi, in economia, miranti all’aumento della spesa ed alla maggiore pressione fiscale. Un percorso quest’ultimo che ha moltiplicato le difficoltà senza aver risolto alcuno dei problemi sul tappeto. Le scelte volute prepotentemente dalla sinistra radicale favoriscono prevalentemente gli effetti dell’incremento esponenziale del fabbisogno, mentre riducono le potenzialità produttive per la contrazione degli investimenti, rischiando così di creare effetti dirompenti sugli equilibri economici del Paese.
Una maggioranza credibile, di solito, perfeziona nel confronto interno quegli accenti sulle opzioni politiche delle espressioni minoritarie che, il più delle volte, sono dettate da esigenze di visibilità miranti a soddisfare il proprio elettorato di nicchia. Nei tempi passati il dissenso minoritario alzava la voce e chiedeva la verifica sull’attuazione del programma, oppure vertici sulla sua nuova definizione, non scendeva nelle piazze come se fosse opposizione.
Si ha idea che la sinistra radicale per costituzione non si senta mai forza di governo ma sempre e comunque di opposizione. La formazione culturale e le opzioni ideologiche condizionano lo sviluppo dei metodi e delle scelte verso soluzioni piuttosto singolari in cui prevale l’assolutismo proprio del pensiero marxista nell’ottica, per fortuna remota, di un potere gestito nelle forme chiuse di principi precostituiti, e senza margini per il confronto ed il pluralismo.
La manifestazione di oggi sul “protocollo welfare” non ha senso ed è contraddittoria persino con i principi di democrazia diretta, tanto sbandierati dalla stessa sinistra radicale. Fino a qualche tempo fa, infatti, era la stessa area politica che riteneva necessaria la partecipazione di pensionati e lavoratori alle scelte nel mondo del lavoro. I sindacati hanno promosso un referendum a cui hanno partecipato col voto milioni di lavoratori e la scelta è stata massiccia a favore del protocollo già siglato tra governo e parti sociali.
In sede di trattative nello scorso luglio il confronto è stato serrato. Tra le diverse sigle sindacali, e nella maggioranza di governo, si sono rischiate persino clamorose rotture per le diverse accentuazioni sulle questioni del precariato e sulle modifiche alla legge Biagi sul lavoro. Per alcuni è stata certamente una soluzione sofferta, una scelta, però, che i lavoratori alla fine hanno accettato. L’iter percorso, per il rispetto della democrazia diretta, sarebbe già più che sufficiente. Ora quello che emerge è solo la prepotenza della sinistra più estrema perché si vuole che al 19% dei voti contrari sia riconosciuto una sorta di diritto di veto, tale da rimettere in discussione gli accordi già sottoscritti.
Si ha l’impressione che la sinistra di piazza di oggi sia alla prova dei muscoli contro quella sinistra di gestione che domenica scorsa aveva celebrato la sua enfatica prova di democrazia partecipata, aprendo nelle città italiane le urne del PD e di Veltroni a quanti volessero dar prova di fiducia al nascente nuovo soggetto politico di centrosinistra. A stretto giro di posta, infatti, a Veltroni arriva la risposta del leader di Rifondazione Comunista Giordano, che invece sostiene che quella di oggi sia “una giornata decisiva per scuotere il Governo e dimostrare il peso della sinistra”. Una prova di forza tutta a sinistra nel principio, tutto marxista, dell’egemonia.
La sovraesposizione mediatica del successo nei numeri della nascita del nuovo Partito Democratico aveva ottenuto l’effetto di smorzare il clamore dell’antipolitica di Grillo e della contestazione al sistema. Lo stato maggiore dei costituenti il PD aveva organizzato l’evento con l’idea di rilanciare la sinistra moderata, in crisi di identità e di consensi. L’aspirazione di Veltroni e compagni era rivolta a far emergere che la crisi della politica potesse risolversi con la nuova proposta di una forza politica moderna ed europea. Si voleva far emergere la rappresentazione di una credibile sinistra di governo che avesse finalmente messo da parte le spinte massimaliste. Una forza riformatrice rivolta al futuro e che fosse riuscita ad accantonare le utopie di forme di società che si reggessero senza l’impegno delle diverse componenti sociali, e che avesse assimilato la necessità del rispetto delle regole economiche, oltre all’ esigenza di regole di mercato nel mondo della produzione e del lavoro.
La manifestazione di oggi ci riporta però alla realtà di una sinistra di lotta, spesso irrazionale, contraddittoria ed all’occasione esacerbata e violenta. “E’ giusto scendere in piazza – sostiene ancora Giordano - perché altrimenti la sinistra scompare” e Sgobio dei Comunisti Italiani sostiene che "la manifestazione di oggi non è contro il governo: stimolarlo a fare di più e meglio significa rafforzarlo. Chi dice il contrario è in malafede”. Si ripresenta così una sinistra alternativa che rincorre la contestazione al sistema, che si smarca dalle responsabilità per inseguire la piazza e la gestisce caricandola di tensioni. Si sceglie così la strada della piazza in cui prevalgono le forme gridate della proposta politica. Si dà vita ad una kermesse in cui si sviluppano componenti diverse che si spiegano tra lo spettacolo e la contestazione animata, tra satira e rabbia, tra parole d’ordine ed illusioni. Una sinistra senza un visione d’insieme, inattendibile e confusionaria, più incline al folcrore che alla serietà di governo: inaffidabile e politicamente senza futuro.

Vito Schepisi

15 ottobre 2007

Salutiamo il Partito Democratico

L’avvio del Partito Democratico si è consolidato con un successo di partecipazione del popolo della sinistra moderata.
Al di là del balletto delle cifre il risultato c’è stato e la macchina organizzativa ha funzionato con successo. Questa volta non sono state le primarie eccessivamente gonfiate di due anni fa volute da un signore che, senza un partito e scelto per l’insostenibilità di altre candidature, scottato dal complotto a suo danno nel 1998, condizionava la sua partecipazione alla cosiddetta investitura popolare.
Anche nel 2005, come oggi per Veltroni, alle primarie non c’è stata partita. Nessuna vera competizione ma solo uno strumento per offrire visibilità e “carisma” ad un personaggio allora assolutamente privo di capacità propulsiva.
Si dice che le idee camminano sulle gambe degli uomini, ed a volte sono proprie le caratteristiche di queste gambe che rendono le idee interessanti e vincenti. Questi arti devono saper correre e frenare, spingere e saltare, trascinare e radicarsi, perchè ferme sul terreno della storia facciano si che le idee che trascinano siano poderose e vincenti. Quando non ci sono uomini che abbiano queste caratteristiche ci si affida ad espedienti diversi per pompare carisma e rendere visibili anche i brocchi con le gambe molli. E’ stato il caso di Prodi dove lo spessore era talmente inconsistente da aver prima inventato le primarie, con un candidato che si sapeva già vincente, e poi da averlo anche gonfiato nel risultato, per farlo percepire come un candidato credibile. Lo stesso metodo commerciale che si adotta per un prodotto di consumo dove la forza indotta della pubblicità, ottenuta con il martellamento sulle qualità del prodotto, supera di gran lunga la forza propria della qualità del prodotto stesso.
Questa volta, invece, è sembrata una convinta partecipazione del popolo della sinistra compatibile. L’idea politica di un movimento di opinione che nutre speranza di vedere avanzare una sinistra con connotati europei e che sia propulsiva per le riforme ed il soddisfacimento delle istanze sociali. Una sinistra che non sappia solo correre dietro ai miti fumosi di una rivoluzione radicale, già sconfitta dalla storia, e soprattutto, è da auspicare, non impegnata in sole cieche fughe in avanti. Una speranza che possa maggiormente giovare alla crescita della coscienza democratica, purché ponga finalmente il confronto sul piano delle cose e non dei miti e delle illusioni che spesso si rivelano deludenti e dannose.
E’ d’uopo auspicare che, abbandonate le politiche della delegittimazione e della superiorità antropologica, il nuovo soggetto politico sappia avere la capacità concettuale del confronto tra scelte di modelli democratici e liberali su cui indirizzare il cammino del Paese a prescindere dalle maggiori accelerazioni sulla pista dello sviluppo economico o della solidarietà.
La storia d’Europa e dell’Occidente ci hanno dimostrato che non è il discrimine tra le politiche sociali e quelle dello sviluppo il confine tra l’umanesimo e l’egoismo, anzi il contrario perché le une e le altre si integrano nelle scelte e nelle alternanze di gestione per assicurare continuità allo sviluppo ed alle esigenze sociali.
Il risultato di queste primarie, soprattutto in termini di partecipazione, ha avuto la valenza di una rivincita contro un sentimento diffuso che sembrava volesse emarginare la presenza di una sinistra moderata ostaggio della sinistra radicale. Una rivincita anche contro quell’opposizione antisistema che si andava allargando nel Paese e che rischiava di confinare la proposta politica di Prodi, Padoa Schioppa, Dini e Mastella tra le ganasce di una ipotetica tenaglia: una morsa soffocante tra l’opposizione vera del centrodestra e le opposizioni costruite all’interno dello stesso tessuto politico-elettorale che avevano concorso a compattare intorno a Prodi il necessario consenso per prevalere nelle ultime elezioni politiche.
Si può dire che più che l’uomo, investito dal compito di dar concretezza ad una nuova proposta politica, abbia vinto la capacità di sapersi stringere attorno ad una speranza di nuovo. Veltroni ha ottenuto il consenso che punto in meno, punto in più, tutti sapevano e si aspettavano. Del resto era stato messo a quel posto per ottenere questo risultato e per rilanciare le speranze sopite e mortificate dell’elettorato della sinistra moderata.
Il partito Democratico ha voluto offrire alla sinistra ed al suo popolo la speranza del rilancio e della coerenza che i partiti, compattati e fusi nella nuova realtà, avevano disperso sia per l’ inconsistenza della proposta politica che per i deludenti risultati di gestione.
L’augurio di ogni democratico, benché scettico e disilluso, deve ora essere quello di vedere consolidare questo nuovo soggetto politico intorno ai valori della Politica con la “P” maiuscola, nella consapevolezza che ove questa venga a mancare a rimetterci sarà sempre il popolo e la sua libertà.
Salutiamo, pertanto, con questi auspici, il nuovo Partito Democratico.
Vito Schepisi

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11 ottobre 2007

Tutti bocciano Prodi

Dalle bocciature plurime che provengono da ogni parte, non si può certo pensare che la manovra finanziaria trovi soltanto i consueti commenti negativi dell’opposizione. E’ un coro di tante voci che si diffonde, tutte a ripetere le stesse note, come un rindondare di campane con il loro suono cupo e monotono. Dalla Corte dei Conti, alla Banca D’Italia, dalla Commissione Europea, alla Associazione degli Industriali, alla Confcommercio, tutti a sollevare obiezioni, a segnalare carenze, a denunciare l’inadeguatezza e l’inconsistenza delle linee economiche del Governo per il prossimo esercizio finanziario.
Come si fa ad ignorare e liquidare con spallucce seccate un grido di allarme che proviene da organismi neutrali, a volte e spesso persino indulgenti con questo governo e la sua maggioranza? E’ come se all’esame per la maturità il docente interno sollecitasse i candidati ad approfondire la letteratura italiana del 900 ed i candidati facendo spallucce si limitassero ad approfondire il solito Leopardi. Ebbene è questo ciò che fa il nostro Presidente del Consiglio, ricorre alla spesa, non taglia le tasse e fa lievitare il debito pubblico e poi mostra fastidio per le critiche ed i suggerimenti, anche se provenienti da fonti amiche.
Veltroni, prossimo leader del PD e azionista di maggioranza della coalizione di governo, sostiene che ci sia una sorta di sfiducia nel Paese. In più occasioni ha rilevato i limiti assai vessatori della pressione fiscale, la mancanza delle riforme, la carenza di segnali di discontinuità con l’andazzo intrapreso, nonostante la crescita di sentimenti di antipolitica. Di recente il Sindaco di Roma ha chiesto persino un rimpasto di Governo e la riduzione di ministri e sottosegretari, ricevendo risposte seccate. Ha persino suggerito iniziative per ridurre il debito pubblico attraverso l’alienazione di beni demaniali inutilizzati.
Tutti i suggerimenti sono risultati però “di corto respiro” per Prodi.
C’è chi sostiene, come il commissario europeo Almunia, che l’Italia abbia perso un’occasione per riprendere il controllo dell’economia del Paese, e c’è chi, come Prodi, ha persino perso l’occasione per poter dire che in fin dei conti le sue ricette danno i frutti auspicati. Aveva un extragettito che poteva essere destinato a realizzare due obiettivi considerati da tutti primari: ridurre le tasse e ridurre il debito. Non ha fatto né una cosa e neanche l’altra. Anzi, il contrario!
Per inseguire le pressioni ed i ricatti della sinistra radicale “il tesoretto” è andato a finanziare la nuova spesa corrente. Anche la rivisitazione della Maroni che ha modificato lo scalone in scalini, posticipando di 18 mesi l’entrata a regime dell’aumento dell’età pensionabile, comporterà una spesa di 10 miliardi di euro nei prossimi tre anni, costi che andranno ad aggiungersi alla spesa corrente.
Per avere un’idea di ciò che sta facendo Prodi con i conti dello Stato, si potrebbe pensare all’immagine di un paziente bisognoso di trasfusioni, a cui gli si andasse a chiedere di donare il suo sangue.
L’Italia è in procedura di infrazione per deficit eccessivo e se non riuscissimo ad uscire da questa morsa l’esazione da pagare per l’infrazione ci sarebbe fatale. Nonostante questo pericolo, però, si ha l’impressione che l’interesse maggiore sia quello di tenere legata la maggioranza per sostenere il governo, costi quel che costi. Ed i costi ci sono!
Il rischio Italia viene avvertito nei mercati finanziari globali. I titoli pubblici italiani hanno, pertanto, tassi più alti e gli interessi sul debito pubblico crescono e costituiscono ulteriore spesa che va ad alimentare inesorabilmente il nostro debito.
La Banca d’Italia, col Governatore Draghi, avverte che il buon andamento delle entrate potrebbe anche fermarsi, come potrebbe fermarsi o rallentare la crescita, e che l’Italia col debito record in Europa avrebbe fatto meglio ad approfittare del tempo buono per le entrate e la crescita per alleggerire i suoi conti. Prodi però, stizzito a Bruxelles sostiene che “la politica economica del mio governo, la decide il mio governo!”.
Gli italiani da qualche tempo hanno stabilito che questo governo non li rappresenti più. L’hanno reso evidente nel corso delle ultime amministrative, lo hanno dimostrato fischiando Prodi dappertutto. Nei sondaggi rilevati da più fonti, Prodi ed il suo governo sono in discesa libera, ed anche al Senato sulla sfiducia a Visco la sua maggioranza ha retto grazie ai voti dei senatori a vita.
Perché gli italiani non dovrebbero poter dire: il governo del nostro Paese lo decidiamo noi?
Per coerenza con quanto sostiene sulle legittimità nel decidere, si faccia da parte e sia chiamato il Paese a decidere.
Vito Schepisi
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09 ottobre 2007

La Curva di Laffer

L’infelice uscita di Padoa Schioppa in Tv, nella trasmissione su Rai 3 di Lucia Annunziata, in cui ha sostenuto che “dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima”, fa ricordare il Ministro delle Finanze dei governi Prodi, D’Alema e Amato dal 1996 al 2001. A quel tempo, a chi denunciava l’impennata della pressione fiscale il Ministro replicava dicendo che il suo gabinetto era sommerso da fax che, al contrario, esprimevano soddisfazione per l’aumento delle tasse. Il Ministro in questione, poco credibile, forse un po’ fanfarone e arrogante, è l’attuale Vice Ministro dell’Economia, il Vice di Padoa Schioppa, il tanto discusso, e descritto come un vampiro, Vincenzo Visco.
Sembra quasi che non sia un caso che Tommaso Padoa Schioppa e Vincenzo Visco siano ora insieme al Ministero dell’Economia.
Le tasse non sono una cosa bellissima. A volerla dire tutta, c’è molto di meglio che pagare le tasse. Anche se a ciascuno può essere dato, nei limiti del lecito, ciò che è l’oggetto del proprio desiderio, c’è un limite a tutto. Assecondare la follia può arrecare danni incalcolabili ed a volte irreparabili. Il prelievo fiscale, oltre un certo limite, mortifica gli investimenti, l’impegno, il coraggio, il rischio, il lavoro.
Le tasse da pagare, però, sono un dovere civile. Sarebbero da porre sull’altro piatto di una ipotetica bilancia per far lievitare diritti e servizi. La logica vorrebbe che più alta sia la pressione fiscale e più alta debba essere anche la qualità e la quantità dei servizi fruibili. Nei paesi del nord Europa è così. Sempre la logica vorrebbe che siano elargiti con più soddisfazione i sacrosanti diritti, che sia diffusa tra i cittadini più tranquillità e sicurezza, che ci sia più efficienza, più ricchezza per il popolo, più fruibilità del tempo libero, buona amministrazione, ordine, pulizia, giustizia più rapida ed imparziale.
Con la contribuzione fiscale dei cittadini ci sarebbe da chiedere la tutela del nostro patrimonio artistico e paesaggistico, la sua valorizzazione come investimento produttivo per il turismo e l’occupazione. Anche chiedere la realizzazione di infrastrutture più simili al modello europeo che a quello africano non dovrebbe rappresentare una ingiustificata pretesa. C’è in Italia un giacimento di preziosità da valorizzare e da mettere in condizioni di realizzare ricchezza, ma mancano i collegamenti viari, e quelli ferroviari sono una vergogna per pulizia e puntualità; mancano le strutture ricettive, manca la sicurezza e soprattutto manca la presenza e l’autorità dello Stato.
Il Ministro, in televisione, ha parlato dei costi dei beni indispensabili che il gettito fiscale finanzia. Tra i costi ci sono anche quelli della politica che i cittadini dubitano che siano tra gli indispensabili e questo governo, di cui Padoa Schioppa è ministro per le questioni economiche, li ha dilatati e ne ha moltiplicato i fruitori. L’aumento della spesa nel 2007, per 15 miliardi di Euro, non solo appesantisce il debito pubblico complessivo e produce per il futuro ulteriori oneri finanziari, mentre sarebbe da ridurre l’esposizione complessiva e da alleggerire così il costo degli interessi sul debito, ma è anche sottratta agli investimenti che, al contrario della spesa improduttiva, rendono ricchezza ed occupazione.
L’uscita del Ministro dell’Economia, tra le altre cose, ci riporta alla mente anche la teoria economica di Arthur Laffer. Quando, infatti, si parla di soddisfazione e di felicità nel pagare le tasse non possiamo non pensare che anche in questo campo, come in tutte le questioni, ci sia il punto di svolta: il limite oltre il quale non si sopporta più. La Tolleranza di Voltaire è apprezzabile se rivolta alle idee ed al pensiero, non al sacrificio ed alle vessazioni. In tutte le cose esiste il punto di rottura. Quando, ad esempio, il lavoro da essere piacevole e soddisfacente diventa sacrificio e stress; quando il piacere da essere rilassante, estatico e travolgente diventa ozio e noia; quando la buona cucina da essere gustosa e profumata diventa nauseante e pesante. Perché non dovrebbe esistere il punto di rottura, il limite della tolleranza, il margine della svolta quando si parla di prelievo fiscale?
La "Curva di Laffer” prende il nome dell'economista Usa che convinse Ronald Reagan ad inserire nel suo programma, alla vigilia delle presidenziali del 1980 negli USA, la diminuzione delle imposte dirette, scelta che contribuì alla sua elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America.
Arthur Laffer teorizzò la presenza di un punto (assi cartesiani) d'incrocio tra i valori delle ascisse(aliquota fiscale) e delle ordinate (entrate fiscali) in cui l'aumento delle imposte (aliquota) fungerebbe da disincentivo alle attività economiche, determinando di conseguenza minore gettito fiscale. Nella sua dimostrazione grafica l’economista americano dimostrò che lo stesso gettito fiscale può essere ricavato con due aliquote differenti: ipotesi, quindi, che renderebbe del tutto inopportuna e controproducente l’utilizzo di quella più alta.
La teoria ci induce anche a convalidare l'idea che la maggiore pressione fiscale, in definitiva, scoraggi anche l'emergere delle attività sommerse e favorisca di conseguenza l’evasione.
La soddisfazione di Padoa Schioppa, pertanto, per essere virtuosa dovrebbe esser direttamente proporzionale anche a quella dei contribuenti: in caso contrario se non sadomasochista risulterebbe velleitaria e folle.
Vito Schepisi

04 ottobre 2007

Piccoli Andreotti crescono

Piccoli Andreotti crescono. Il tessuto è lo stesso: la Roma sorniona che osserva fuori le mura e vede un’Italia riottosa e divisa e sorride sapendo di poterla dominare col motto di sempre “divida et impera”. Nei secoli, dai tempi dell’Impero Romano fino ai nostri giorni, con piccole differenze nel linguaggio e nei metodi ma con la stessa idea secolare che le debolezze di tanti possono essere la forza di coloro che le sanno gestire.
Da Andreotti lo divide la profondità, la cultura, l’intelligenza, l’estrazione formativa ma a Veltroni non difetta la furbizia, l’ecumenismo, la strumentalità, l’indefinitezza delle scelte, la permeabilità e la duttilità. Il Sindaco di Roma si appresta ad essere investito leader della sinistra post comunista e post democristiana. Il PD unisce ora i due contenitori di un potere una volta spartito, tra maggioranza ed opposizione, mentre si impoveriva l’Italia. Per anni comunisti e democristiani hanno devastato il Paese, lasciando infrastrutture obsolete e servizi da terzo mondo. Lo hanno saccheggiato alimentando quel debito pubblico, lasciato in eredità alle generazioni future, che oggi frena la crescita e assorbe i sacrifici degli italiani. L’Italia è entrata nell’Euro dimezzando il potere d’acquisto della lira, svalutata giorno dopo giorno, e soffocando il Paese con un cumulo di tasse su tutto.
Oggi agli italiani lo Stato assorbe sei mesi del lavoro di un anno. La pressione fiscale è al record in Europa: è pari al 43,1% del Pil. E’ come un masso che schiaccia i cittadini onesti, puntualmente chiamati almeno una volta l’anno a subire le “angherie” della legge finanziaria. La legge di bilancio, spacciata come un insieme di provvedimenti utili e necessari a risolvere le iniquità del Paese, finisce sempre, invece, per alimentare le sofferenze degli italiani. Un insieme di tasse e gabelle e di angherie fiscali che assottigliano fiducia e credibilità, sviliscono la politica e fanno nascere la protesta contro il sistema.
Ritornano e sono copie pessime di un copione già visto. Ritornano con un sorriso accattivante ed i modi cortesi, pronti ad essere d’accordo con tutti ed a fare le scelte di sempre. Una stretta di mano al Presidente di Confindustria, un sorriso ai leader sindacali, la concertazione, sentimentalismo e buoni propositi e tutta la retorica dei buoni modi. Il primo impegno, quello di sempre, quello che funziona e non guasta: l’apertura alla partecipazione femminile nelle scelte e negli impegni della politica, naturalmente riaffermando la preziosità del loro apporto.
Il candidato alla segreteria del PD non indica una scelta, non prende una posizione su niente. Usa una parola in difesa delle scelte etiche della Chiesa, un’altra per ribadire le ineludibili scelte laiche dello Stato; sostiene il Governo ma nello stesso tempo dà l’impressione di puntare al suo superamento, si mantiene decisamente alla larga dalle questioni che oggi dividono in due il centrosinistra, se non lo stesso PD.
Gode del sostegno dalla grande stampa. Nessuna riga di osservazioni scomode o di interviste pungenti: i media più diffusi riportano nei minimi dettagli ogni buon proposito dell’eroe nascente del centrosinistra. Lo fanno passare come l’uomo nuovo che spazza la vecchia politica: una via di mezzo tra la continuità della tradizione democratica e la nascente protesta antipolitica, tra il socialismo democratico europeo ed il popolarismo solidale.
Basterebbe lui, e solo lui, ad interpretare tutto il confronto democratico tra le opzioni ideali, come sintesi di una dialettica evolutiva del pensiero del ventunesimo secolo!
Anche con il comico genovese che in queste ultime settimane ha voluto interpretare le disillusioni del Paese, i suoi rapporti si mantengono cauti e prudenti. Le affermazioni appena più coraggiose vengono immediatamente ritrattate e smentite. Il suo motto è non farsi coinvolgere in niente, impedire che contro di lui ci si possa schierare.
Veltroni è la fiera dell’ovvio. Ha lo stesso metodo soporifero dell’Andreotti di un tempo. Un pensiero per tutti, senza nemici apparenti: con gli Usa e con gli arabi, con Israele ma equivicino. Una volta a sinistra, nei cortei che frequentava Veltroni, si usava dire “né con le brigate rosse e nè con lo Stato”. Caduto il muro i post comunisti per affacciarsi al Governo si sono dovuti porre a favore dello Stato. Se non fosse per questa ragione, anche in questo caso Veltroni avrebbe evitato di fare una scelta.
Mancano pochi giorni alle primarie del 14 ottobre ed ecco il colpo di scena: “la voglio in squadra”- sembra abbia detto riferendosi alla signora Berlusconi. Ci avrà pensato per qualche giorno, si sarà consigliato con i suoi collaboratori e forse sondato il terreno. Il colpo di teatro, l’apertura alla moglie del suo contendente alla leadership del Paese. Un uomo di spettacolo, con c’è che dire! Dal giorno della sua kermesse al lingotto, all’ultima uscita su Veronica Lario, una sola steccata sulla firma per il referendum sulla legge elettorale. Solo in quell’occasione si è fatto prendere in castagna.
Come nella commedia dell’arte! Tanta popolarità, battute ad effetto e colpi di scena, molto presenzialismo. Troppo poco per riempire un vuoto di indirizzo politico, abbastanza per essere acclamato in modo plebiscitario come leader del PD.
Vito Schepisi