Ci sono molte differenze tra la crisi del primo governo Prodi nel 1998 e la recente dichiarazione di Bertinotti sul fallimento del governo in carica, sempre condotto da Romano Prodi. Tra le tante, una differenza di significato consiste proprio nelle finalità.
Se nell’ottobre del 1998 Bertinotti si sfilò nella convinzione di dare significato e sostanza ad un progetto politico di rottura ed alternativo all’Ulivo, questa volta la denuncia del fallimento serve a porre fine all’agonia di una maggioranza scollacciata ed incapace di assumere iniziative condivise.
Nel 1998, con lo strappo, Bertinotti ed il suo partito della rifondazione comunista reagivano al pericolo di restare schiacciati nello sviluppo di un programma riformista di impronta essenzialmente eurocratica che si andava delineando. Un’azione di governo con prevalenza di indirizzi su scelte finanziarie e di mercato, con l’attenzione ai conti ed alle compatibilità della spesa. I comunisti di Bertinotti allora reagirono al pericolo di doversi misurare con interventi di tagli alla spesa e di macelleria sociale che sarebbero serviti a preparare il Paese alla svolta europea. La mossa dell’attuale Presidente della Camera, nel 1998 emerse dalla convinzione che la base comunista non avrebbe compreso né l’adozione di parametri rigidi per l’introduzione della nuova moneta e neanche i prevedibili controlli sulle politiche della spesa.
Questa volta, dopo le difficoltà create al Senato dalla pattuglia di Dini e dai dissidenti Manzione e Bordon, è sopraggiunta invece la convinzione che niente potrà più essere come prima nell’Unione.
Avvertendo i mugugni della base, Bertinotti trae così la consapevolezza che restare fermi può solo portare al massacro da parte dall’antagonismo militante e può favorire il disperdersi, a vantaggio dei movimenti dell’antipolitica, della primogenitura del dissenso e della lotta al sistema.
Chiudersi a difesa del governo di Prodi, soprattutto nella prospettiva del consolidamento dell’identificazione del governo nel progetto del PD, per il capo storico dei neo comunisti comporta il pericolo di non poter più esser credibile come leader di un movimento di lotta e di governo, e di rendere altresì non credibile la stessa Rifondazione Comunista come partito di confine e fabbrica attiva per l’elaborazione delle proposte per le diversità. Il Partito di Bertinotti ha l’esigenza di mantenere il suo protagonismo e di riposizionarsi nel suo spazio di funzione critica ed alternativa alle globalizzazioni ed alle strategie diplomatiche sugli scenari internazionali.
Come allora Bertinotti ed il Partito della Rifondazione Comunista poteva rinunciare a ritenere fallito il progetto dell’Unione?
La nascita del Partito Democratico, in verità, ha contribuito a creare ulteriori scompensi nel centrosinistra. Molte più difficoltà: più di quelle già presenti per la mancanza di coesione programmatica. Se alla criticità delle convergenze sulle scelte, soprattutto in campo sociale ma anche sugli obiettivi per la crescita e lo sviluppo, legati alle politiche fiscali ed agli interventi sulla competitività, una volta si contrapponevano le ragioni dello stare insieme, come spesso si andava sostenendo, per battere Berlusconi e scongiurare il suo ritorno al Governo, la nascita del PD ha creato una reazione a catena e molte fibrillazioni nei piccoli partiti.
La maggior parte delle formazioni minori, senza marcata identità, prive persino di radici storiche nella tradizione popolare, senza precisi riferimenti territoriali, rischiano ora di veder dissipare l’appeal più squisitamente personale che politico. E’ opinione diffusa, infatti, che possa prevalere l’attrazione dell’elettorato alla logica dei grandi numeri ed esiste nel Paese una sensibile voglia di semplificazione della politica.
Bertinotti, da politico astuto, ha avvertito questa difficoltà. Ha meditato sull’immagine del suo partito appiattito sul Governo ed apparso spesso moderato e prudente nel sopportare sacrifici e rinunce per non farlo cadere, ed è ora convinto che Prodi abbia ormai vita breve.
Ma più che rendersi responsabile ancora una volta della caduta di Prodi, togliendo la fiducia all’unica maggioranza parlamentare che potesse scongiurare il ritorno alle urne con la conseguente vittoria certa del centrodestra e di Berlusconi, quale modo migliore aveva Bertinotti per prendere le distanze da questo esecutivo? La risposta è: dichiararlo fallito e proporre la disponibilità ad un diverso esecutivo, d’impronta istituzionale, che possa traghettare il Parlamento all’approvazione della riforma della legge elettorale ed alle modifiche costituzionali. Tutto concorda!
Dal suo punto di vista è la cosa più intelligente che il Presidente della Camera potesse fare. La sinistra ha da intraprendere un percorso di unificazione. E’un tragitto che si presume lento e complesso. L’obiettivo di Bertinotti è una riforma elettorale sul modello tedesco, con sbarramento al 5%: una soluzione che rende inevitabile la convergenza sulla “cosa rossa”.
Il nuovo soggetto politico potrebbe così presentarsi alle elezioni in modo autonomo e giocarsi la possibile partecipazione ad alleanze, su programmi concordati, dopo le elezioni.
Se nell’ottobre del 1998 Bertinotti si sfilò nella convinzione di dare significato e sostanza ad un progetto politico di rottura ed alternativo all’Ulivo, questa volta la denuncia del fallimento serve a porre fine all’agonia di una maggioranza scollacciata ed incapace di assumere iniziative condivise.
Nel 1998, con lo strappo, Bertinotti ed il suo partito della rifondazione comunista reagivano al pericolo di restare schiacciati nello sviluppo di un programma riformista di impronta essenzialmente eurocratica che si andava delineando. Un’azione di governo con prevalenza di indirizzi su scelte finanziarie e di mercato, con l’attenzione ai conti ed alle compatibilità della spesa. I comunisti di Bertinotti allora reagirono al pericolo di doversi misurare con interventi di tagli alla spesa e di macelleria sociale che sarebbero serviti a preparare il Paese alla svolta europea. La mossa dell’attuale Presidente della Camera, nel 1998 emerse dalla convinzione che la base comunista non avrebbe compreso né l’adozione di parametri rigidi per l’introduzione della nuova moneta e neanche i prevedibili controlli sulle politiche della spesa.
Questa volta, dopo le difficoltà create al Senato dalla pattuglia di Dini e dai dissidenti Manzione e Bordon, è sopraggiunta invece la convinzione che niente potrà più essere come prima nell’Unione.
Avvertendo i mugugni della base, Bertinotti trae così la consapevolezza che restare fermi può solo portare al massacro da parte dall’antagonismo militante e può favorire il disperdersi, a vantaggio dei movimenti dell’antipolitica, della primogenitura del dissenso e della lotta al sistema.
Chiudersi a difesa del governo di Prodi, soprattutto nella prospettiva del consolidamento dell’identificazione del governo nel progetto del PD, per il capo storico dei neo comunisti comporta il pericolo di non poter più esser credibile come leader di un movimento di lotta e di governo, e di rendere altresì non credibile la stessa Rifondazione Comunista come partito di confine e fabbrica attiva per l’elaborazione delle proposte per le diversità. Il Partito di Bertinotti ha l’esigenza di mantenere il suo protagonismo e di riposizionarsi nel suo spazio di funzione critica ed alternativa alle globalizzazioni ed alle strategie diplomatiche sugli scenari internazionali.
Come allora Bertinotti ed il Partito della Rifondazione Comunista poteva rinunciare a ritenere fallito il progetto dell’Unione?
La nascita del Partito Democratico, in verità, ha contribuito a creare ulteriori scompensi nel centrosinistra. Molte più difficoltà: più di quelle già presenti per la mancanza di coesione programmatica. Se alla criticità delle convergenze sulle scelte, soprattutto in campo sociale ma anche sugli obiettivi per la crescita e lo sviluppo, legati alle politiche fiscali ed agli interventi sulla competitività, una volta si contrapponevano le ragioni dello stare insieme, come spesso si andava sostenendo, per battere Berlusconi e scongiurare il suo ritorno al Governo, la nascita del PD ha creato una reazione a catena e molte fibrillazioni nei piccoli partiti.
La maggior parte delle formazioni minori, senza marcata identità, prive persino di radici storiche nella tradizione popolare, senza precisi riferimenti territoriali, rischiano ora di veder dissipare l’appeal più squisitamente personale che politico. E’ opinione diffusa, infatti, che possa prevalere l’attrazione dell’elettorato alla logica dei grandi numeri ed esiste nel Paese una sensibile voglia di semplificazione della politica.
Bertinotti, da politico astuto, ha avvertito questa difficoltà. Ha meditato sull’immagine del suo partito appiattito sul Governo ed apparso spesso moderato e prudente nel sopportare sacrifici e rinunce per non farlo cadere, ed è ora convinto che Prodi abbia ormai vita breve.
Ma più che rendersi responsabile ancora una volta della caduta di Prodi, togliendo la fiducia all’unica maggioranza parlamentare che potesse scongiurare il ritorno alle urne con la conseguente vittoria certa del centrodestra e di Berlusconi, quale modo migliore aveva Bertinotti per prendere le distanze da questo esecutivo? La risposta è: dichiararlo fallito e proporre la disponibilità ad un diverso esecutivo, d’impronta istituzionale, che possa traghettare il Parlamento all’approvazione della riforma della legge elettorale ed alle modifiche costituzionali. Tutto concorda!
Dal suo punto di vista è la cosa più intelligente che il Presidente della Camera potesse fare. La sinistra ha da intraprendere un percorso di unificazione. E’un tragitto che si presume lento e complesso. L’obiettivo di Bertinotti è una riforma elettorale sul modello tedesco, con sbarramento al 5%: una soluzione che rende inevitabile la convergenza sulla “cosa rossa”.
Il nuovo soggetto politico potrebbe così presentarsi alle elezioni in modo autonomo e giocarsi la possibile partecipazione ad alleanze, su programmi concordati, dopo le elezioni.
Vito Schepisi
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