10 dicembre 2007

Fini e il Popolo

Se si domandasse agli elettori dell’Italia moderata cosa desiderano di più per essere rappresentati in Parlamento ed al Governo, in massa risponderebbero che gradirebbero un grande partito dell’Italia laboriosa e cosciente, strutturato in modo tale da poter stabilire una grande affinità con le questioni quotidiane della gente.
Pochi si infilerebbero in ragionamenti astratti, un numero esiguo sulla divisione in diversi partiti, pochissimi si inoltrerebbero in strategie di coalizioni per dare visibilità ad una parte più che ad un’altra. Sulla opzione elettorale nessuno, o solo pochi addetti ai lavori, sarebbero oggi in grado di valutare le diverse scelte in discussione ed indicar preferenze, a prescindere dalle indicazioni più semplici, quali proporzionale o maggioritario, ad esempio.
Una stragrande adesione, però, ci sarebbe sulla semplificazione del quadro politico. Molto consenso otterrebbe una legge che offrisse opportunità di scelte chiare tra diverse sensibilità su cui si sviluppa la coscienza democratica del Paese.
Ora dinanzi a questa realtà che emerge dal popolo, una volontà diretta senza filtri o mediazioni, dinanzi alla domanda di partecipazione in scenari chiari e senza ambiguità, cosa vuole Fini che valga il suo arroccamento nella difesa dell’identità del suo partito? Non è, come sostiene, la sua una difesa dei valori da privilegiare rispetto alla forma: i valori che richiama sono comuni. Appare, al contrario, il suo, un modo ben definito della volontà di salvaguardare una forma partito. Scelta, la sua, che si mostra persino anacronistica, per essere ormai superata dall’affievolirsi delle più nette divisioni ideologiche d’un tempo.
Oggi ciò che divide un nazionalista di destra di una volta, da un liberale, non è più un sentimento nostalgico di un ideale smarrito tra leggi razziali, violenza ed autoritarismo, non è più la visione dirigistica e statalista dell’economia e dello Stato corporativo, non è l’autarchia antimassonica, antiplutocratica, antiamericana di un sentimento social-fascista ormai defunto. Ciò che differenzia al massimo, a parte l’origine e la cultura patrimonio ideale del patriottismo risorgimentale dei liberali, è l’accento sui percorsi ritenuti più adatti per raggiungere un obiettivo comune.
Oggi persino gli ex marxisti sono diventati liberisti in economia ed i cattolici diventati tolleranti verso coloro che respingono le fondamenta cristiane della nostra civiltà. Il Presidente del Consiglio in carica è un democristiano della prima repubblica. La caduta di quest’ultima, per ironia del buon senso e per vocazione trasformista, ha cementato il connubio tra i protagonisti, e monopolisti di maggioranza ed opposizione, di un tempo.
Tra i contendenti, una volta radicati sulle convinzioni ideologiche di una visione antagonista delle scelte politiche, è sopraggiunto un nuovo “pactum” in cui si è compattata a sinistra quella che un tempo erano considerate l’ala cattolico-conservatrice e l’ala marxista-massimalista della scena politica italiana. Si è andata trasformando la vecchia “conventio ad excludendum” (sistema chiuso con la secolarizzazione in regime di monopolio tra i ruoli di governo ed opposizione), sancito di fatto nella prima repubblica, con la “conventio contra personam”, formatasi dal ’95 in poi, grazie all’opera di Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, intimorito dall’azione travalicante della magistratura militante.
E’ dal 1995 che la politica delle scelte, ha modificato le sue funzioni trasformando queste in politiche delle preclusioni e delle delegittimazioni.
La politica spesso è mestiere ed arte del divenire, in particolare se è affidata a coloro che lavorano nell’esclusiva immagine del partito, quale ente di interesse primario rispetto alla gente ed alle strategie di governo. Una visione partitocratrica in cui emerge il privilegio della forma sulla sostanza, dell’interesse particolare o di bottega sul benessere per la popolazione.
Le parole di Fini ci ricordano così Togliatti ed il vecchio pci. Il Migliore, come i suoi compagni di partito lo chiamavano era, ed è, storicamente famoso per la sua doppiezza. Per il leader comunista del primo dopoguerra, la verità non era mai un libero modo di acquisire le diverse ragioni che formavano una o l’altra convinzione, ma era la ragione unica e sola, propria dei principi massimalisti: la ragione di partito.
AN non si scioglie - sostiene il leader di Alleanza nazionale - per confluire nel nuovo soggetto politico. Resti com’è allora! Se ha chiesto le mani libere con la sua lettera al Corriere, nello stesso momento in cui si votava al Senato per la Finanziaria, e Berlusconi si batteva per far cadere questo Governo fallito, abbia le mani libere. Ma libere devono averle anche gli altri! Perché allora alzare la voce e polemizzare un giorno si e l’altro ancora con chi ha scelto di rivolgersi al popolo, pur restando fermo nella sua area politica di sempre, ed ha stabilito di affrancarsi dal condizionamento degli alleati?
Vito Schepisi

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