12 febbraio 2013

La Rai eroga un servizio privato con le risorse pubbliche


Il reiterato uso privato di un servizio pubblico dovrebbe costituire reato. 
Un bene pubblico, formatosi con le risorse pubbliche e finanziato con un canone pagato dai contribuenti, non può essere utilizzato per fini diversi da quelli del rispetto del pluralismo e dell’ampia comprensione delle esigenze degli spazi e delle scelte di tutti. 
Non si possono appaltare trasmissioni di grande rilievo popolare alla strumentalizzazione di personaggi ritenuti contigui a ben individuate espressioni politiche. 
E non si può lasciare che queste espressioni politiche siano platealmente favorite in tempi di “par condicio”, legge in vigore dello Stato in presenza di competizione elettorale, per ridicolizzare, denigrare e offendere il sentimento di milioni d’italiani che fanno, con piena legittimità democratica, scelte diverse. 
Nel prendere atto che la Rai si è trasformata da bene di pubblico interesse, finanziato e retto dal canone annuale dei possessori di un apparato audiovisivo, a servizio ad uso di parte, si deve anche prendere atto che c’è chi non è disposto a subire passivamente ciò che appare pretenzioso e illegittimo. 
E’ un esproprio di un bene di tutti che nessuna democrazia dovrebbe poter consentire. 
A nulla vale la pretestuosa giustificazione della libera espressione del pensiero. 
Non è affatto così. 
Non si tratta di pensiero che, in altri luoghi, più che in quelli per il tempo libero, per il rispetto del pluralismo, dovrebbe essere rappresentato in modo equilibrato, sia per gli accessi, sia per i modi e sia per la pari dignità di ogni pensiero. 
Se il pensiero è libero, inoltre, bisognerebbe chiedersi perché, invece, è rappresentato sempre a senso unico? 
La televisione è informazione, è cultura, è tempo libero. 
Di libero, però, si avverte solo la protervia di assolvere un principio di militanza che spinge i personaggi a sostenere i propri benefattori; di libero c'è la tolleranza all’arbitrio di chi parcellizza con cachet milionari prestazioni d’immorale meretricio ideologico. 
Mentre tra quelli che sono costretti a pagare la tassa alla Rai, privati della loro libertà, c'è chi ha problemi per far quadrare i conti di fine mese e c’è chi deve rinunciare a tante cose indispensabili per la vita dignitosa di ogni giorno. 
Pretendere che si debba pagare per ricevere ciò che non si vuole mi sembra un principio illiberale e stridente con la nostra Costituzione, perché è in palese contraddizione con il diritto di tutti (Art.21: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione), ma, nei fatti, negato a tutti. 
Né lo Stato o il servizio erogato dalla Rai rende possibile la rinuncia (pagamento del canone) ad un servizio reso senza soddisfazione, senza che il cittadino sia anche costretto a dover rinunciare all’uso del mezzo televisivo. 
Perché il cittadino non deve essere libero d’ottenere un servizio che da altri riceverebbe in modo gratuito? 
L’art. 23 della Costituzione stabilisce che “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. 
In base a quale legge illiberale, orbene, si debba corrispondere una prestazione patrimoniale per consentire a prezzolati uomini di spettacolo di offendere la libera intelligenza degli italiani? 
E quale sarebbe quella democrazia che consente di farlo, compensando i protagonisti dell’abuso con una parte delle tasse di quei cittadini che non avrebbero, invece, alcuna voglia o interesse a destinar loro? 
Vito Schepisi

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