30 luglio 2010

Corruzione e politica


E’ evidente che in Italia ci sia un andazzo che alimenta il malcostume amministrativo, come è evidente che il malaffare si insinui in ogni possibile spiraglio in cui circolano appalti e danaro.
Ed è evidente che la politica si intrufoli nel mestare e nell’amplificare a danno del proprio avversario politico le responsabilità del fenomeno. In particolare si cimenta nell’impresa quella parte che non avendo proposte di governo di ampio respiro da far valere, con una buona dose di ipocrisia e con la compiacenza di una evidente partigianeria che cova all’interno del sistema giudiziario italiano, strumentalizza il malessere dei cittadini. Accanimento e strabismo si mischiano a teoremi ed atti investigativi che media ed opposizione, ma anche frange interne alla maggioranza, interessate a rovesciare gli equilibri di gestione, come un concerto in crescendo, come nel Bolero di Ravel, diffondono con misurato tempismo.
La tentazione è una debolezza propria degli uomini, ed il cedimento al suo richiamo non appartiene agli uni o agli altri per scelta o per natura. Non si può stabilire che “tutti quelli che …” sono vulnerabili mentre “quegli altri che non … “, invece non lo siano. Sulla tesi di diffusa ed equa tentazione al comportamento delittuoso, si potrebbero infatti citare tantissimi episodi ed altrettante iniziative giudiziarie in più regioni d’Italia, del sud come del nord, del centro come delle isole.
Il fenomeno è dunque trasversale, sia geograficamente che politicamente.
Cedere alla tentazione fa parte della natura dell’uomo. L’essere umano è per definizione debole, e non solo nella carne, ma anche verso i richiami edonistici in genere, e poi nei sentimenti e nel senso morale. Sostenere il contrario, salvo moltissime eccezioni per fortuna, sarebbe ingiusto e scorretto. E sarebbe anche sleale non osservare che, per quantità e peso, alcune situazioni di arroganza e di malcostume politico farebbero pendere la bilancia del disappunto proprio verso quella parte politica che oggi fa appello alla questione morale.
Chi fa professione di virtuosità, e chi porta avanti il “giustizialismo” come “missione” prioritaria e caratteristica della propria azione politica, infatti, non può affatto chiamarsi fuori. A veder bene le cose, al contrario, il fenomeno coinvolgerebbe anche più degli altri quelle formazioni politiche sorte dalla raccolta di avventurieri e di personaggi ai margini dei partiti tradizionali. Il fenomeno, infatti, appare ben più grave se si pensa che per la corruzione conti tantissimo il consolidamento e la stabilità in una funzione amministrativa. C’è gente, ahinoi, che impara velocemente ad abusare del proprio ruolo.
La corruzione è una costante nella gestione pubblica, naturalmente nasce laddove ci sia un potere capace di orientare le scelte e di gestirne i processi esecutivi. Maggiore è la portata degli interventi previsti, maggiori sono gli appetiti, e maggiori sono i pericoli della creazione di sistemi corruttivi. Non esiste un potere pubblico che non abbia il suo sistema consolidato di interessi, privilegi e discriminazioni.
La fonte principale del fenomeno corruttivo, la responsabilità dunque, è nel sistema.
Nella cosiddetta prima repubblica la corruzione ha consentito l’allargamento di un sottobosco politico, sindacale e burocratico a cui molti cittadini hanno fatto ricorso, se non per ottenere privilegi e favori, anche per ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Nel mezzogiorno, in particolare, quando democristiani, comunisti e socialisti si spartivano tutto, anche per il rilascio di un certificato anagrafico era necessario avere le conoscenze utili. I finanziamenti ai partiti ed alle correnti facevano parte di quei misteri di cui tutti erano al corrente, anche se tutti facevano finta di non sapere. La stessa magistratura l’ha tollerato per anni, ma solo dal 1989 in poi, dopo la grande amnistia che ha cancellato tutti i reati dei finanziamenti illeciti, soprattutto quelli del pci, s’è accorta che in Italia c’era una tassa in più a carico dei cittadini: la tangente.
Per comprendere la dimensione dell’ipocrisia politica, ci sarebbe da rileggersi il discorso di Craxi alla Camera nel 3 luglio del 1992: “Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale” – “Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro". Naturalmente nessuno si alzò a dichiarare la propria virtuosità o quella del proprio partito. Se si fosse alzato un Di Pietro, che a quei però faceva il magistrato, anche lui sarebbe stato accusato di “spergiuro”.
La corruzione è nel sistema perché consente che si consolidi un potere burocratico enorme che passa attraverso le maggioranze ed i partiti. E’ nel sistema perché le regole non sono chiare e perché vengono facilmente aggirate. Perché consente istituti giuridici che di per se sono leve di abusi e di infiltrazioni malavitose, come quello della revisione dei prezzi, come quello dei subappalti, come quello delle varianti.
La facoltà di moltiplicare gli appalti (stato, regioni, provincie e comuni) senza che agli enti interessati derivi una precisa responsabilità giuridico-economico-fiscale, ad esempio per l’eolico ed il fotovoltaico, dove ogni regione fa per se, finisce col creare sempre nuove focolai di illeciti e di interessi particolari. Si vorrebbe sapere, ad esempio, se ciò che è reato per la Sardegna lo sia anche per la Puglia.
E ci piacerebbe sapere anche se mettersi d’accordo per far pressione su Mattarrese per l’acquisizione di Giovinco al Bari sia anche un’attività di associazione segreta. Coi tempi che corrono … meglio sapere!
Vito Schepisi

21 luglio 2010

La fabbrica di nichi



Vendola, dopo aver devastato la Puglia, si muove per demolire anche il Paese. Ha lanciato la sua proposta di candidarsi per competere da premier. Il largo anticipo, però, desta qualche sospetto. Una candidatura troppo anticipata rischia d’essere bruciata. Vendola ha dovuto anticiparla per almeno tre ragioni. Forse anche per quattro. Sgombriamo subito il campo dalla quarta, che è quella di dar modo a De Benedetti di spianargli la strada con i suoi giornali ed i suoi contatti industriali e finanziari.
La prima ragione, invece, è quella di mantenere viva la sua popolarità. Vendola è sempre un personaggio che si muove in una scena minore, quale può essere quella di una delle 20 regioni italiane.
La seconda è che l’ex rifondarolo ha vinto le elezioni pugliesi ma non ha convinto. Le ha vinte solo per la spaccatura dell’elettorato moderato. Tra l’altro ha già i suoi problemi. L’opposizione nel complesso ha preso più voti di lista. Due consiglieri eletti con la sinistra (uno del PD e l’altro dell’Idv), con un altro consigliere eletto nel centrodestra, hanno costituito un gruppo che si è collocato all’opposizione. L’Idv di Di Pietro, infine, è determinante per la maggioranza in Consiglio e si pensa che, prima o poi, in una Regione con tanti problemi, anche giudiziari, farà pesare la sua presenza, sottraendo visibilità e popolarità al leader di socialisti e libertà.
La terza ragione è che Vendola non è proprio convinto che alla lunga la Puglia mantenga la visione di quella magica oasi nella realtà politico-amministrativa meridionale che vorrebbe far passare. I giornali locali e le pagine pugliesi delle testate nazionali sono state troppo tenere con lui. Le sceneggiate ora contro Fitto, ora contro Tremonti, perdono pian piano la loro eco dinanzi ai problemi non risolti. Il Governatore teme, inoltre, il progressivo logoramento politico della sinistra pugliese, pensa ai danni fatti nei 5 anni precedenti i cui costi cadranno sui contribuenti pugliesi, riflette sul degrado ambientale, sociale, produttivo che si accresce a spese dei giovani ed, in senso più largo, della complessiva qualità della vita nella Regione.
Vendola avverte così l’esigenza di un palcoscenico diverso da calcare. Prepara il suo distacco dai problemi che ha creato. Ha paura del futuro pugliese e di essere travolto dal dissesto amministrativo e ambientale, come è capitato a Bassolino in Campania e Loiero in Calabria.
I suoi stati generali a Bari si sono aperti con la simbologia fantasiosa del vulcano islandese, evocato come “eruzione di buona politica”, con il giovanilismo inteso come valore aggiunto della politica, con l’immagine del “Berlusconi - Cesare” che impedisce un confronto politico reale. E’ da lì che parte, come da copione, con tutta una serie di immagini successive che fanno parte del suo consueto bagaglio delle apparenze e dell’immaginario. Parte la sua funambolica furbizia con cui spaccia per salvifica poesia un verbalismo inconcludente e con cui fa passare per idee le sue fumosità verbali e le sue certezze ideologiche, prive invece di un qualsivoglia spessore politico.
Il Pullman di Prodi e Veltroni, il treno di Franceschini, la fabbrica sempre di Prodi, il loft di Veltroni e non poteva mancare, pur se non originale, anche la fabbrica di Nichi, l’abile fabulatore e tracciatore di illusioni, il realizzatore di fantasticherie e di buoni propositi spacciati per poetar di politica. Vendola: lo stesso uomo ben posto tra i politici cialtroni dal Ministro Tremonti.
C’è una Puglia ideale che è molto diversa dalla Puglia reale. Quella ideale è anche quella che diventa ideologica, esclusiva, immutabile, eterna nei racconti del Governatore Vendola. Una Puglia in cui la passione, il sacrificio, il sangue, il sudore, l’impegno si mischiano alla natura, al mare, ai paesi lastricati di pietre, agli odori di una cucina deliziosa che profuma di terra e di mare, alle case ai monumenti, agli ulivi millenari, ai colori intensi di una natura prorompente. La Puglia della musica, dei canti e dei balli popolari. Quella delle feste estive della tradizione popolare fatta di mostre e degustazioni di vini e di prodotti tipici. La Puglia che si fa amare da chi la conosce da sempre e da chi la scopre per la prima volta. La puglia delle barche che portano a riva il pesce appena pescato, dei pescatori che seduti per terra sui moli dei piccoli porti dei paesi marinari riparano le reti per la nuova giornata di lavoro, la Puglia della cortesia, della semplicità, dei sorrisi, della arguzia popolare, della modestia e della mesta rassegnazione dei suoi abitanti.
Ma ci chiediamo, a ragione, se questa che tutti vorrebbero ritrovare intatta nella sua magnifica semplicità sia la stessa Puglia violentata invece dall’incuria, dai pannelli fotovoltaici che sostituiscono gli alberi e le piantagioni dell’uva e degli ortaggi. Se sia la stessa delle “foreste” di pale eoliche che deturpano i paesaggi. La Puglia dove la differenziata non esiste ancora, quella delle discariche a cielo aperto, quella delle pulizie delle strade … solo quando mi ricordo. La Regione dove l’igiene nelle città è spesso un’opinione. La Puglia sitibonda in cui l’erogazione dell’acqua potabile, come accade in alcuni paesi del Salento, è razionata o manca del tutto. La stessa a cui manca l’acqua per l’irrigazione.
Ci chiediamo se la Puglia della poesia di Vendola sia la stessa Regione del Levante d’Italia delle condutture che saltano, delle fogne che scoppiano, della desertificazione di vaste zone, delle devastanti ed intollerabili dispersioni dalla rete idrica e dei furti dell’acqua. Se è, insomma, la stessa Puglia delle comunicazioni stradali insufficienti, dei trasporti che mancano, degli asfalti gruviera. Ci chiediamo, inoltre, se questa Puglia ideale sia la stessa di quella che è indicata come luogo di una sanità tribale. Sull’argomento c’è oramai una letteratura cospicua fatta di abusi, di violenze, di umiliazioni, di squallore, di mafia, di degrado, di precarietà e di incuria. E’ la sanità dei ticket che dovevano essere aboliti ed ora ci sono anche per patologie invalidanti, delle liste di attesa che dovevano essere anch’esse abolite e che ora sono lunghe per mesi ed a volte per anni. Quella pugliese è la sanità dei debiti oltremisura contratti per un servizio da terzo mondo.
Ma quella di Vendola è anche la Puglia dove non esistono posti di lavoro per i giovani, e dove non esiste nessuna idea in cantiere per lo sviluppo delle attività imprenditoriali e produttive che possano assorbire le domanda di occupazione. Investimenti non fatti, fondi non utilizzati. Una colposa responsabilità per le occasioni perdute.
La fabbrica di nichi è solo un opificio di chiacchiere, un involucro vuoto, come vuote sono le idee del suo capo fabbrica.
Vito Schepisi

16 luglio 2010

Le Regioni non riconsegnano più le deleghe




C’era chi ci aveva sperato. Ma i sogni come si sa svaniscono all’alba.
La notizia era di quelle che, sebbene per diverse motivazioni, poteva definirsi di gradimento trasversale. Si inquadrava propriamente nel mezzo, tra gli effetti del qualunquismo e quelli della reazione istintiva: in quel diffuso moto di disappunto che anima gli italiani avverso la politica, con tutti i suoi rituali, i suoi giochi ed i suoi abusi.
Le Regioni che riconsegnavano le deleghe al Governo per la gestione di alcuni servizi di pubblica utilità, poteva anche essere una buona notizia. Un’ottima notizia!
Siamo tra quelli che sono convinti che gli enti locali, e le regioni in maggior misura, come anche autorevolmente rilevato dalla Corte dei Conti, non facciano molta attenzione alla spesa, anzi, al contrario, se ne servano per alimentare un sottobosco corrotto. Nel recente passato, sono stati tantissimi gli esempi di allegra gestione. Molto spesso ci si è ritrovati, infatti, a riflettere sulle contraddizioni che sorgono tra le macroscopiche carenze di servizi in alcune realtà del Paese ed il ricorso alle spese superflue.
Dinanzi alle megalomanie inutili, all’uso clientelare, se non criminoso, delle deleghe amministrative, dinanzi ai disavanzi finanziari di gestione, che per l’incidenza sul debito pubblico concorrono a danneggiare l’intero Paese, ci si chiede se tutte le carenze e gli eccessi siano oggi compatibili con la presenza di un mercato globale sempre più difficile con cui quotidianamente occorre misurarsi.
Siamo tra quelli che immaginano che con la manovra finanziaria, il cui decreto è appena passato al Senato ed è in attesa di definitiva conversione in legge alla Camera, si sia appena all’inizio dell’opera che ci attende da questo Governo, per la razionalizzazione e la ritrovata efficienza della spesa pubblica. Non è immaginabile, infatti, pensare di proseguire nell’andazzo percorso negli anni passati.
Il federalismo fiscale potrà forse servire per mettere dinanzi alle proprie responsabilità i governatori delle regioni e potrà far comprendere agli elettori ciò che è legittimo che debbano aspettarsi dagli amministratori locali. Con il federalismo potrà, forse, essere più facile far comprendere ai cittadini quanto sia più utile guardare alla qualità e quantità dei servizi che le amministrazioni sono state capaci di mettere a disposizione delle comunità o che saranno in grado di poter assicurare in futuro che non, invece, guardare alla vita privata di Berlusconi. Si potrà evitare di cadere nella trappola della stampa schierata che ha utilizzato il gossip e le escort per distogliere l’attenzione da alcune questioni amministrative, le cui gravità avrebbero potuto assumere, ad esempio in Puglia, grande rilevanza per il voto locale.
La qualità della vita nelle città potrà, infatti, mutare con il ricorso alle scelte amministrative e cogliendo le opportunità di sviluppo sul territorio. E non come abbiamo visto, invece, non realizzarsi con il mancato uso dei fondi europei destinati allo sviluppo delle aree sottoutilizzate. Il mezzogiorno, ad esempio, nel suo insieme, ha avuto la possibilità di uscire dalle sue difficoltà, che risalgono ai tempi dell’Unità d’Italia (150 anni fa), utilizzando, per gli investimenti sul territorio e per la modernizzazione degli impianti, i fondi messi a disposizione dall’Europa. Non lo ha fatto. Non lo ha saputo fare. Gli amministratori sono stati, forse, troppo impegnati ad inseguire le spese di rappresentanza, le consulenze, i lussi, le apparenze, le pubblicità istituzionali, le politiche clientelari ovvero i fumosi principi ideologici.
Immaginare così che i governatori delle regioni fossero sul punto di rimettere le deleghe al Governo, e quindi pensare che quest’ultimo potesse nominare dei commissari per la gestione e naturalmente per il controllo della pertinenza della spesa, ci aveva persino riempito di buone speranze.
Nessuna cosa in campo amministrativo può essere peggiore di ciò che ben si conosce, specialmente se ciò che c’è è molto simile al niente. E finanziare il niente è stupido e dannoso. Se l’amministratore, infatti, ha la possibilità di avere soldi, li spende anche per il niente. Nessuno, motu proprio, rinuncia mai alla gestione di fondi. Il superfluo nasce sempre da disponibilità iniziali a cui, in futuro, nessuno è più disposto a rinunciare. Si creano strutture, si creano competenze, si creano professionalità ed organici che restano a vita, anche quando viene a mancare l’utilità e la ragione di queste presenze. Il sistema pubblico, come si sa, è antieconomico per definizione perché, da parte di chi amministra, spesso non c’è altro interesse se non quello di poter disporre di fondi. Il potere, infatti, sta nel gestire e per farlo occorre avere facoltà di spesa. E’ una spirale poco virtuosa, ma che, purtroppo, si involge sempre così.
La notizia c’era, la Conferenza delle Regioni compatta l’aveva lanciata. Sapevamo che era solo una provocazione. Sapevamo che sarebbe stato un sogno destinato a svanire in una notte di inizio estate. Non ci avevamo veramente creduto sino in fondo, ma la speranza l’avevamo nutrita. Conosciamo i nostri politici. Sappiamo che in Italia il passo tra la politica e la sceneggiata è molto breve, sapevamo che anche questa volta doveva trattarsi del solito festival degli strilli che, per il suo andazzo rituale, si doveva dispiegare tra le crisi di pianto ed il disperato strappar di vestiti, ma ci avevamo sperato. Peccato!
Vito Schepisi

07 luglio 2010

Vendola in Puglia paga le "cambiali" all'Udc



Nella Regione Puglia i componenti del centrodestra della settima commissione consiliare “Affari Costituzionali” si sono dimessi dalla commissione. Hanno fatto la stessa cosa anche i consiglieri del gruppo Moderati e Popolari (nuovo gruppo composto da tre consiglieri eletti con il PD, l’Idv ed il Pdl). La settima commissione è una commissione di garanzia ed è assegnata alla minoranza. Il Presidente del Consiglio Regionale Onofrio Introna parla, però, di consuetudine politica. Sostiene che la motivazione di doverla assegnare “ad un esponente del maggior gruppo d’opposizione è da ritenere non formale, ma politica”. Tra gli aspetti formali e quelli politici, però, c’è la sostanza della “consuetudine” che in questo caso viene calpestata.
Una commissione di garanzia a beneficio dell’opposizione è tale se l’opposizione ne possa essere rappresentata con tutta la sua autorevolezza formale e politica, e non se si sceglie di farla rappresentare da un consigliere che deve la sua nomina alla volontà della maggioranza e che trova la sua nomina contestata dall’opposizione, forte del 44,22% dei voti dei pugliesi. I consiglieri di centrodestra si sono dimessi perché la commissione è stata assegnata ad un consigliere Udc.
Un metodo da mentalità autoritaria come appare quella del Governatore Vendola. Questi è uno dei presidenti regionali indicati come “cialtroni” da Tremonti. E’ il Governatore che ha recentemente ipotizzato il secessionismo, lasciando dubbi sul da che e da chi. Il Governatore che deve ancora spiegare ai pugliesi i motivi del mancato utilizzo dei fondi europei per lo sviluppo; che deve dar conto delle promesse del 2005 del salario garantito, dell’abolizione sia delle liste di attesa che dei ticket sanitari e che, avuta in eredità una sanità con i conti a posto e con saldo attivo, l’ha precipitata nei debiti, nei disservizi, negli sprechi e nella corruzione.
Vendola che occupa anche gli spazi dell’opposizione deve spiegarci come mai la Puglia perde lavoro, non ha un piano di sviluppo, ha grosse difficoltà con lo smaltimento dei rifiuti, è deturpata nel suo territorio, ha l’agricoltura in crisi e le città degradate. Deve spiegarci gli sprechi e le megalomanie, i compensi tra i più alti d’Italia, il numero dei dirigenti, le consulenze, le sedi all’estero. E dato che si trova deve anche spiegarci se sia morale, con la crisi che c’è e con i tanti problemi per le famiglie e per i giovani, chiedere, come ha fatto, l’allargamento del numero dei consiglieri da 70 a 78 (otto in più e tutti a favore della sua maggioranza). E’ pazzesco pensare di voler essere premiato perché non è stato, invece, premiato dagli elettori ottenendo solo il 46,05” dei voti e dovendo la sua elezione esclusivamente alle furbizie elettorali di Casini e Poli Bortone.
Che sia un debito che Vendola sta pagando a Casini a spese dell’opposizione di centrodestra? E’ ciò che sostiene il Pdl ed il suo capogruppo Rocco Palese: “Vendola oggi ha pagato la seconda rata della cambiale del Patto elettorale con l’Udc: prima il segretario dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio (che l’Udc ha rifiutato da noi e accettato dalla maggioranza), oggi la presidenza della VII Commissione che la maggioranza ha preteso di dare ad un centrista. L’Udc da oggi è formalmente in maggioranza e di questo risponderà ai propri elettori, ma la maggioranza si rende oggi colpevole di aver consumato uno strappo istituzionale senza precedenti”.
Il successo di Vendola in Puglia non è stata una meteora. E’ bene che a freddo si sappia che, nelle recenti consultazioni in Puglia, le cose sono andate così: il centrosinistra capeggiato da Vendola ha ottenuto il 46,05% dei voti; il centrodestra capeggiato da Palese ha ottenuto il 44,22% dei voti e la lista della Poli Bortone, alleata con Casini, ha ottenuto il 9,43% dei voti, (Udc di Casini 6,5% e Io Sud di Poli Bortone 2,93%).
Se si parla di minoranza, sostengono pertanto nel Pdl, appare chiaro che si faccia riferimento a quella che ha conteso la guida della regione a Vendola. Se è così, appare sospetta la convergenza della maggioranza sul candidato dell’Udc, spacciato per il candidato della minoranza. Il Pdl e tutto il centrodestra avanzano il sospetto che la pattuglia degli uomini di Casini sia in effetti una finta minoranza. Un sospetto già apparso allorquando il gruppo degli uomini di Casini rifiutava l’offerta di un incarico nell’ufficio di Presidenza in rappresentanza dell’opposizione, mentre accettava la stessa offerta fattagli dalla maggioranza. Quando si dice che la forma sia sostanza!
La maggioranza, inoltre, non può non essere consapevole che per minoranza debba intendersi la reale alternativa politica alla giunta guidata da Vendola. Non ci sono margini di interpretazione. Anche i numeri parlano chiaro. Se fosse confermata la bocciatura dell’allargamento dei consiglieri regionali della Puglia da 70 a 78 (tutti ad esclusivo beneficio della maggioranza) e con il disimpegno di alcuni consiglieri (2) eletti nella maggioranza, ora nel nuovo gruppo Moderati e Popolari collocatosi all’opposizione, si ridurrebbe il numero dei consiglieri di maggioranza in Consiglio Regionale (36 contro 34 dell’opposizione), rendendo più che un sospetto l’Udc che si prepara al soccorso.
Vale la pena riportarne gli aspetti più salienti della conferenza stampa del Capogruppo del Pdl Rocco Palese: “E' la prima volta – ha detto – che questa Commissione meramente istituzionale diviene merce di scambio politico”.“Quando la maggioranza – ha continuato – stamattina ha imposto la votazione di un Presidente dell’Udc abbiamo abbandonato i lavori della Commissione e ne chiediamo l'abolizione perché non ha più senso che essa esista. Specie dopo che, in nostra assenza, la maggioranza come un caterpillar si è votata pure il vicepresidente che spetta all’opposizione”. ''Oggi - ha detto ancora Palese - la sinistra ha compiuto il vilipendio della democrazia; ha dimostrato che vuol balcanizzare il Consiglio regionale. Nostro malgrado non potremo tener fede all’impegno di fare di questa una Legislatura costituente e da oggi il nostro atteggiamento cambierà: finora da parte nostra ci sono state solo censure politiche, da oggi ci rivolgeremo anche ad altre Istituzioni per ottenere giustizia e verità, per far valere ragioni e diritti che in questo Consiglio non esistono più. Se Vendola pensa di eliminare così le altre forze politiche sbaglia: se parteciperemo ai lavori delle altre Commissioni si accorgeranno di noi”.
Sono espressioni che per peso e gravità si commentano da sole. Sono in pericolo le garanzie democratiche in Puglia.
Vito Schepisi

06 luglio 2010

I magistrati se la prendono con Il Legno Storto


Se il Vice Presidente del CSM, Mancino, ha ritenuto “eccessivo” lo sciopero dei magistrati contro il Governo, avallando di fatto l’accusa del Ministro Alfano di “sciopero politico”, è un segnale di preoccupazione e stabilisce che qualche limite sia stato superato.
Ma se è così, è legittima anche la preoccupazione per una magistratura che appare in sospetto di parzialità. E’ giusto chiedersi se sia qualcosa di più di una sensazione la presenza del sistema giudiziario nelle mani di una corporazione spesso sorda alle regole della civiltà giuridica. E ci può anche stare il sospetto che la magistratura, trasformatasi in casta, pensi più ad altro che non alla mera erogazione della giustizia.
I giudici che si autoassolvono, ed i magistrati chiamati a giudicare su risarcimenti richiesti dai loro stessi colleghi su cause intentate contro chi esprime le proprie opinioni, fa poi parte di un sistema che facilita i sospetti. L’autonomia giurisdizionale è stata voluta dal Costituente con un significato molto diverso dalla presunzione dell’esercizio di un potere esclusivo e fuori da un riferimento democratico e pluralista. I costituenti non hanno certo pensato all’ordinamento giurisdizionale come a quello di una casta.
La democrazia non è un feticcio da idolatrare a comando. E’uno strumento di civiltà che si adopera giorno per giorno per migliorare la vita relazionale di intere comunità. Non si può pensare che valga per alcuni e non per altri. La democrazia consente a ciascuno di esprimersi, di non essere d’accordo e soprattutto di poter correggere ciò che non funziona. E la Magistratura in Italia non funziona.
Per un principio liberale, nessuno deve sentirsi al disopra di tutto e nessuno può esercitare funzioni senza controllo nel metodo e nel merito. Il controllo deve essere esercitato dagli organi preposti, per la parte disciplinare, e dall’opinione pubblica e dalla stampa per quello della pertinenza e dell’efficacia. Non può pensarsi una giustizia che sia lasciata nelle mani di singoli ed usata per esercitare vendette, per modificare la storia, per imporre un principio politico, per sovvertire l’espressione democratica della pronuncia popolare.
Non si può pensare che nello Stato ci possano essere corpi che agiscano per fini diversi dal pubblico interesse. E se la giustizia è amministrata nel nome del popolo è perché si pensa che così debba essere perché l’Italia sia un nazione coerentemente democratica. C’è più di un dubbio, però, che sia effettivamente così!
Se la Giustizia, ad esempio, fosse utilizzata per tappare la bocca a chi esprime le sue convinzioni o a chi si cimenta ad interpretare la storia, assumerebbe la funzione di un’arma impropria utilizzata per sopprimere la libertà. Se si prendesse nota di ciò che succede con l’azione di quella magistratura che invade il campo della politica e con quella di politici che si rendono portavoce delle procure, emergerebbe con chiarezza anche il pericolo di una pericolosa deriva giustizialista. Non va! Non Piace! Inquieta!
Il timore di una magistratura che finisca per sostenere una parte politica, intervenendo nel merito delle leggi, sta diventando più di un sospetto! I casi di estemporaneità dell’azione giudiziaria alla vigilia di ogni elezione, se finiscono col deviare l’attenzione sui connessi episodi marginali che si prestano alle più classiche azioni di strumentalizzazione, non possono essere solo e sempre coincidenze.
E’ bastato, ad esempio, far scendere in campo una escort per trasformare la cattiva gestione della sanità pugliese in gossip. La focalizzazione su episodi pruriginosi è stata sufficiente per deviare l’attenzione dai risvolti meschini ed inquietanti, dai fatti di corruzione, di malavita organizzata, di controllo politico del territorio, di ricatti sessuali che coinvolgevano personaggi della Giunta regionale di Vendola.
Sarà perché si vive in una realtà mediatica, ma tutto ruota intorno alla spettacolarizzazione degli episodi. Ma la macchina da presa è uno strumento che non ha anima! E’ l’operatore che la punta sui fatti che animano la curiosità degli spettatori. In Puglia invece d’essere puntata su episodi che avevano per sostanza l’uso allegro e prepotente delle risorse pubbliche della regione, quelli che poi avrebbero portato gli inquirenti a chiedere l’arresto di un vide presidente del PD ed a far emergere una vasta trama di rapporti illegali, è stata puntata, invece, sulla vita privata del Premier. Sullo sfondo c’era il lettone di Putin a solleticare la curiosità, ma in cabina di regia anche la mano di un malizioso regista. Ma se la magistratura si mette al servizio del regista, c’è motivo o no per esserne preoccupati?
E se la stampa libera, anche se minore e più povera, viene citata in giudizio per opinioni critiche e valutazioni politiche c’è motivo di preoccupazione? Preoccupiamoci allora perché è ciò che sta accadendo al giornale on line Il Legno Storto. Chi sarà il prossimo?
Vito Schepisi

05 luglio 2010

Il quotidiano on line Il legno Storto rischia d’essere chiuso



LETTERA DA DIFFONDERE

Carissimi lettori de Il Legno Storto, con grandissima amarezza vi annunciamo che in questi giorni il nostro giornale sta correndo il pericolo di essere chiuso.
Negli ultimi tempi, infatti, ben due magistrati, cioè il dr. Luigi Palamara e il dr. Pier Camillo Davigo, ci hanno querelato. Per l'esattezza la Procura di Roma ci ha comunicato (attraverso il quotidiano la Repubblica, divenuto ormai il "postino" e il "megafono" delle procure) che ha aperto un fascicolo per le minacce che noi avremmo formulato con questo articolo nei confronti del dr. Palamara. Sono in corso indagini (siamo stati già chiamati dalla Digos di Milano) che, al momento, non sappiamo come e quando finiranno: ma è facile immaginare il peggio...

Giorni fa abbiamo poi ricevuto una citazione dal dr. Davigo che ci chiede 100.000 € per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa per quest'altro articolo , pubblicato da noi il 21 giugno 2009.
Per completare il quadro di quella che a noi pare una manovra per farci fuori dalla rete, circa due mesi fa abbiamo ricevuto un'altra querela dal sindaco di Montalto di Castro – Salvatore Carai del Partito Democratico – che si è sentito diffamato da questo articolo che abbiamo pubblicato su il 27 ottobre 2009.
Al di là di ogni considerazione sul merito degli articoli, che agli occhi di chiunque li legga senza volontà punitive riterrebbe duri, certo, ma sempre nell'ambito del diritto di critica, la cosa che lascia esterrefatti è la rapidità con la quale sono state notificate le querele e/o l'avvio di indagini, quando si tratta di magistrati. Una denuncia per diffamazione di un qualunque cittadino verso qualcuno che non appartenga alla casta della magistratura, in Italia, impiegherebbe sicuramente anni per giungere a destinazione. Noi invece siamo chiamati a giudizio (querela del dr. Davigo) il prossimo 28 luglio per un articolo pubblicato il 21 giugno 2009. La giustizia insomma, quando vuole – cioè quando si tratta di uno di "loro" – dà prova di grande celerità ed efficienza: poco più di un anno. Nell'atto di notifica del dr. Davigo c'è applicata un'etichetta con la scritta: "Urgente". Chiaro il concetto: visto che si tratta di un "pezzo da novanta" della casta (la citazione del dr. Davigo comincia così: «L'odierno attore, attualmente in servizio presso la II sezione della Suprema Corte di Cassazione in qualità di Consigliere...») la giustizia deve fare il suo corso in tempi rapidissimi...
Sappiamo bene che, se il nostro giornale fosse schierato sul fronte delle Sinistre, a questo punto, davanti ad un episodio analogo, sarebbe già partita una crociata in nostra difesa, a sostegno della libertà di stampa e di opinione. L'Ordine dei Giornalisti farebbe fuoco e fiamme, il Sindacato minaccerebbe sfracelli. Ma noi non apparteniamo a questo schieramento, e dobbiamo aspettarci che in nostra difesa insorgano, forse, solo i nostri lettori, e qualche singolo amico e compagno di avventura. Chi si straccia le vesti per i provvedimenti in discussione intorno alle intercettazioni ed alla "libertà" negata tenga conto del fatto che qui su Il Legno Storto si cerca di difendere la libertà di discutere e di criticare, di contribuire alla crescita di una società politicamente "adulta". Là si lotta per il diritto di pubblicare gossip o accuse ancora tutte da dimostrare.
Questa è la situazione. E siccome non possiamo permetterci di confrontarci – a nostre spese – con forze tanto preponderanti, indipendentemente dalla ragione che pensiamo di avere non ci resta che valutare l'ipotesi di chiudere. Con buona pace di chi ancora ritiene che davvero il monopolio mediatico sia nelle mani di Silvio Berlusconi.
In questi anni abbiamo cercato sempre di offrire ai nostri lettori materiale utile per un approfondimento dei dibattiti e delle idee. Abbiamo cercato di evitare sciocchi appiattimenti e adesioni acritiche, ma ci siamo anche sforzati di combattere quella cultura dominante del conformismo di sinistra, che tanto nuoce al nostro Paese.
Da domani il Web potrà avere una voce libera e liberale in meno, e l'ordine regnerà ancor più indisturbato intorno a una Magistratura che non ammette critiche. È una sconfitta per noi, certo, ma è anche un colpo per tutti coloro che ritengono sacrosanta la raccomandazione di Voltaire: battersi per consentire, a chi la pensa diversamente da noi, di esprimere liberamente la propria opinione. Oggi gran parte della magistratura combatte, non applica la legge, in omaggio al principio etico-politico che spetta ai magistrati il compito di raddrizzare il Legno Storto dell'umanità.
Adesso è arrivato il nostro turno. Il motivo principale per il quale nel 2002 aprimmo Il Legno Storto fu proprio tentare di denunciare e arginare, (nel nostro piccolo) la deriva giustizialista ormai dominante nel nostro Paese. Ora siamo cresciuti, e cominciamo davvero a dar fastidio. Le denunce che abbiamo ricevuto in questi giorni hanno come obiettivo principale di farci scomparire dal web. E più in fretta possibile.
A voi, nostri affezionati utenti ed amici, chiediamo di dare, come faremo anche noi, la massima diffusione alla notizia. È l'unica cose che possiamo fare per difenderci.

Un cordiale saluto,
Antonio Passaniti
Marco Cavallotti



02 luglio 2010

Non scherziamo con la Giustizia


Non scherziamo con la Giustizia! Si sentono e si leggono sui media interpretazioni fantasiose sul presunto bavaglio, sul diritto dei cittadini d’essere informati, sulla libertà di stampa. Si diffondono appelli accorati in difesa della libertà d’informazione, con toni carichi di tensione. Quasi tutti da ultima spiaggia.
Minacce di disobbedienza, annunci di referendum, accuse di voler nascondere disegni torbidi di potere. Si ha l’impressione che la pubblicità sugli aspetti più frivoli e morbosi della vita privata degli uomini sia l’alimento quotidiano dei cittadini italiani e che l’illegittimità, stabilita dalla legge, della diffusione degli atti giudiziari sottoposti al segreto istruttorio siano, invece, la risoluzione per tutti i mali della giustizia italiana.
Sappiamo che non è così! Sappiamo, anche, che ci sono personaggi più o meno noti che finiscono nel tritacarne del pettegolezzo, se non della diffamazione. Sono normali persone come tutti, e molti non sono colpevoli di niente, ma vengono rovinati per sempre, perché alcuni sostengono che il solo sospetto sia l’anticamera della colpa, ovvero perché sono messi a nudo nelle loro debolezze private, negli eccessi passionali, nei vizietti particolari. Sbeffeggiati spesso da coloro che hanno gli armadi pieni di scheletri.
Non tutti si chiamano Marrazzo con il percorso già segnato per passare alla storia come vittima della brutalità di poliziotti corrotti. Ci sono quelli che, invece, per tutta la vita saranno considerati almeno un po’colpevoli e quelli a cui d’improvviso cambia tutto nella loro esistenza. Uno tsunami che modifica radicalmente la vita, i riferimenti d’un tempo, le relazioni sociali, la serenità e persino la salute. Cambia tutto negli affetti, nelle amicizie, nel lavoro, nella vita quotidiana. Non tutti reagiscono nella stessa maniera e c’è chi non sopporta il risolino alle spalle del giornalaio o del salumiere di fiducia. Cambia tutto nei rapporti umani e nei progetti per il futuro, e cambia anche per tutte le persone che sono vicine, cambia la tranquillità e la serenità di un’intera famiglia. Uomini, donne e bambini a cui si spegne il sorriso dal volto.
Per il clamore, e pensando che 3 anni fa la necessità di un rimedio era avvertito in modo bipartisan, ci sarebbe oggi da provare fastidio, ma non ci si può rifiutare di soffermarsi a pensare. Per certe cose l’attenzione vale più delle convinzioni ideali, e vale soprattutto perché c’è sempre quel dubbio che alimenta la preoccupazione che ad un metodo sbagliato si possa applicare un principio altrettanto sbagliato.
C’è l’art.15 della Costituzione Italiana che al riguardo è chiarissimo: “ La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Ci sarebbe quasi da dire non ne parliamo più! L’autorità giudiziaria può limitare la segretezza delle comunicazioni private solo con “atto motivato”, ma anche con le “garanzie stabilite dalla legge”.
Ma pubblicare le intercettazioni sulle pagine di un giornale è un atto motivato? E dove sono le garanzie di riservatezza garantite dalla legge, se i PM si affrettano a passarle alla stampa?
C’è l’art 21, sempre della Costituzione Italiana, 2° comma, che sostiene “La stampa non può essere assoggettata ad autorizzazioni o censure”. Benissimo! Ma, nel momento in cui tra gli uffici della Procura e la stampa v’è un passaggio di copie di documenti sottoposti al segreto istruttorio, c’è o non c’è un reato che si sta compiendo? Se il corpo del reato fosse un monile prezioso, non ci sarebbe un reato di sottrazione (furto?) e di ricettazione. Non si tratta pertanto di autorizzazioni o di censure, ma di veri reati!
Ma, in questo caso, non sono due le persone che commettono un illecito penale? Possiamo ipotizzare che siano un impiegato della procura ed un fattorino del giornale, ma anche un magistrato ed un giornalista. Ma perché il ddl prevede il carcere solo per i giornalisti? Riflettendo ancora, ci sembra che tra ciò che non vada nel ddl è che sia anche l’editore a pagare. E questo si che ci sembra in contrasto con l’art 21 della Carta!
Se possiamo suggerire un rimedio, contrari come siamo alle condanne penali per reati che si spera non siano finalizzati all’illecito arricchimento o alla brutalità criminale, pensiamo che fermo restando i limiti alle intercettazioni previsti dal ddl e le garanzie di collegialità per limitarne l’abuso, si potrebbero abolire i riferimenti alle sanzioni penali verso i giornalisti e pecuniarie verso gli editori, magari con l’impegno dell’Ordine a sottoporre a procedimento disciplinare i giornalisti che si rendessero responsabili della violazione della deontologia professionale. Pensiamo, infatti, che quest’ultima, non possa prescindere dal rispetto della legalità anche nel momento dell’acquisizione della notizia.
Vito Schepisi