04 marzo 2007

Riforma della Costituzione e occasioni perdute



Sono passati 10 anni e passa da quando il 24 gennaio del 1997 fu istituita la Commissione Parlamentare per le Riforme Costituzionali meglio nota come la “Bicamerale”.
La Commissione nacque per la convinzione che allo sviluppo economico ed industriale della nostra Nazione, tale da essere tra le prime grandi della terra, non facesse riscontro un quadro d’insieme del sistema politico, istituzionale e civile all’altezza delle esigenze.
L’ingerenza pubblica nell’economia, i confini dell’esercizio dei poteri degli organi statali, i conflitti nelle competenze, la burocratizzazione delle regole di attuazione e di funzionamento del servizio delle autorizzazione e l’esercizio dei diritti di impresa ed iniziativa in campo economico e giuridico costituivano un ostacolo allo sviluppo della società.
Anche la forte richiesta di iniziativa spontanea e popolare, avanzata nella specificità di territori diversi, che spingeva verso maggiori autonomie nella gestione decentrata dei poteri, reclamava l’esigenza di sfoltire ed aggiornare un sistema che rimaneva ancorato a principi scritti e sanciti in una realtà molto diversa.
La nostra Carta Costituzionale scritta e varata in un Paese appena uscito malconcio dalla guerra, senza compiuti riferimenti territoriali, ancora incerto nei confini, appena riunificato dai rischi di conflitti intestini che mietevano ancora vittime fraterne per furore ideologico ed incertezze future.
La logica del dopoguerra prevedeva l’opportunità di distribuire i poteri, per non favorire la concentrazione di prerogative di gestione e conduzione politica nelle mani di pochi.
Esigenza che veniva condivisa per costituire una più efficace difesa contro pericoli di nuove negative esperienze.
Le intolleranze ed i regimi dispotici nel dopoguerra ancora imperversavano in un esteso fronte che si addossava al nostro Paese.
Ma sembrava giunto, finalmente, il momento in cui i pericoli venivano meno.
Lo sguardo sempre più convinto all’Europa e la caduta dei regimi totalitari dell’est consentivano di fornire al Paese conduzioni politiche più forti e meno precarie.
Come la "Bicamerale" poi sia finita è noto.
Uno scontro tra chi, attraverso la Commissione bicamerale, prefigurava sistemi di controllo politico finalizzato ai propri interessi ed alle proprie ambizioni, e mi riferisco a D’Alema, e chi come Berlusconi prefigurava un Paese più snello, con poteri decentrati e sicuri da ingerenze e pressioni, con certezza del diritto: una conduzione dell'Italia meno invasiva e meno burocratizzata.
E’ interessante, ad esempio rileggere il giudizio di De Mita rilasciato al Corriere della Sera il 5 giugno del 1997:
“Se la Bicamerale rischia di fallire... è per colpa... del modo con cui è stata gestita: troppo tatticismo, troppa attenzione agli equilibri delle forze in campo e scarso interesse per il raggiungimento di un obiettivo serio di riforme. D'Alema si è messo a governare la Bicamerale come se fosse un congresso di partito”.
Ed ancora nella stessa intervista:
“Senza una nuova forma di Stato e di governo non nascerà mai la Seconda Repubblica. Siamo ancora pienamente nella Prima, e nella sua parte peggiore. Siamo nel limbo del tatticismo, delle piccole strategie, cioè i vizi della Prima Repubblica”.
Naturalmente l’inevitabile fallimento della bicamerale fu attribuito a Berlusconi.
Questi in sostanza chiedeva bipolarismo, aumento dei poteri del capo del governo, sistema giudiziario in linea con le forme di garanzia delle più avanzate democrazie occidentali.
Una richiesta sulla giustizia inaccettabile per la sinistra che forte di una magistratura militante, di cui si serviva come clava politica, farà dire che la bicamerale sia caduta per la pretesa di Berlusconi di ottenere garanzie di impunità.
Eppure della riforma per eccellenza se ne avvertiva e si avverte la necessità.
Si è perduta una ulteriore occasione per riformare il sistema obsoleto: c’è stata un diniego falso ed ipocrita per il referendum che modificava la proposta della scorsa legislatura.
Le norme avanzate avrebbero consentito una gestione più efficiente dei meccanismi sia delle istituzioni, e degli organi dello stato, sia di quelli politico-sociali.
Avrebbe rafforzato il bipolarismo, tra l’altro, ed impedito la sopravalutazione delle capacità di interdizione e di condizionamento dei piccoli partiti.
C’è stata la voluta, e consentitemi stupida ed improducente, azione di ostacolo e di acritico e aprioristico diniego, per risoluta volontà del più inetto degli uomini politici candidatosi alla guida del Paese.
Per ordine dunque di Prodi il centrosinistra si è aprioristicamente rifiutato di sedere al tavolo di approfondimento e di confronto per lo studio e la valutazione delle norme di modifica, che pur sono ritenute necessarie.
Sono ritenute tanto necessarie che Prodi oggi le richiede, senza averne le prerogative costituzionali, ponendosi in contrasto sulle forme e sui limiti imposti dalla nostra Carta.
Vito Schepisi

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