Se non ci fosse stata la legge dei numeri preponderanti, il governo Letta – Alfano sarebbe apparso come un governo a guida Pdl.
Basterebbe soffermarsi sulla sostanza del discorso pronunciato da Letta in Parlamento.
Se si ripulissero le sue parole dalla retorica dell’occasione, dalla difesa degli atteggiamenti del suo partito, dal richiamo ad una identità politica da rivendicare e da tutte le cose che doveva necessariamente dire, per il modo della sinistra di voler apparire sempre più “politicamente corretto”, Il discorso di Letta potrebbe anche sembrar scritto dal Cavalier Berlusconi.
La guida di questo governo è, però, del PD.
Il partito della sinistra ha anche la maggioranza assoluta dei ministri. Il Pdl ne ha solo 5 su ventidue, 3 sono di Scelta Civica di Mario Monti, un radicale e 4 tecnici, ma di area naturalmente vicina alla sinistra.
Sembra che il Pdl non abbia posto nessun ostacolo sui numeri e sui nomi, al contrario del PD che ne ha bocciati alcuni del centrodestra. Tutta roba di lana caprina per soddisfare la sete di astio di una base eccitata dai capipopolo, avvezzi a scaldare le piazze e le tribune televisive indicando i nemici da abbattere. Gli idioti non mancano mai e serviva anche questo per celare il carattere pretestuoso degli atteggiamenti già visti con Bersani.
E’ facile fare i prepotenti con un sistema elettorale che, pensato per un confronto bipolare, ha consentito al PD, con solo lo 0,36% dei voti in più del Pdl, di avere alla Camera invece del 30%, il 55% dei seggi, con un premio di maggioranza del 25% di seggi in più. Per questo Bersani aveva ostacolato, negli sgoccioli della passata legislatura, ogni tentativo di modifica della legge elettorale, compresa la soglia per accedere al premio di maggioranza.
In virtù di questo vantaggio la sinistra ha provato a fare il pieno occupando il 100% delle istituzioni. Voleva fare così anche con il Governo, ma il grande slam a Bersani non è riuscito.
E’ stato varato, invece, un Governo dalle larghe intese.
Ha vinto il buon senso.
E’ prevalso l’invito di Napolitano ai partiti di ricercare la pacificazione nazionale e di assumersi le responsabilità verso il Paese.
L’Italia non si poteva ancora permettere di proseguire con i pregiudizi ideologici. L’alternativa alle larghe intese, dopo che il Capo dello Stato aveva respinto ogni soluzione pasticciata e confusa, sarebbero state solo le nuove elezioni. Ma con il Pdl decisamente in testa nei sondaggi, per la sinistra un nuovo ricorso alle urne sarebbe stato un massacro, dopo 60 giorni di impasse, senza idee, sfiancato dall’antipolitica e con un partito diviso, e incapace di fare sintesi su scelte condivise.
L’antiberlusconismo non è un programma di governo, né dà soluzioni alla crisi del Paese. Anche le iniziative, comuni con il M5S, di liberarsi per legge dell’avversario politico, sono apparse deliranti e tali da inquietare gli elettori moderati del centrosinistra per il riemergere della sinistra post-comunista che cambia pelle ma che resta legata ai metodi illiberali.
Il Governo Letta ha, invece, un programma di governo.
Il PD non l’aveva.
Solo il Pdl in campagna elettorale ha proposto un programma per cambiare il Paese senza avventure. E l’ha fatto con l’indicazione di provvedimenti su questioni vere.
Enrico Letta ha recepito le indicazioni del Popolo della Libertà. C’è la cancellazione dell’IMU sulla prima casa che fa da apripista alla questione fiscale ed ai problemi delle famiglie.
C’è lo stop all’aumento, previsto per luglio, di un punto dell’Iva, poi gli sgravi fiscali per le imprese che assumono.
La rivisitazione della riforma Fornero, per rivederne le rigidità, accoglie le perplessità del Pdl. Il programma del Pdl chiedeva la cancellazione dei rimborsi elettorali e la riduzione dei costi della politica, recepite da Letta, e poi c’è l’idea della “Convenzione” per le riforme, per cambiare la seconda parte della Costituzione e riportare la centralità della nostra democrazia sulla sovranità popolare.
Ce n’è in abbondanza per comprendere che c’è condivisione sulla ricetta liberale per uscire dalla crisi economica, strutturale e politica e l’Italia.
Vito Schepisi
Basterebbe soffermarsi sulla sostanza del discorso pronunciato da Letta in Parlamento.
Se si ripulissero le sue parole dalla retorica dell’occasione, dalla difesa degli atteggiamenti del suo partito, dal richiamo ad una identità politica da rivendicare e da tutte le cose che doveva necessariamente dire, per il modo della sinistra di voler apparire sempre più “politicamente corretto”, Il discorso di Letta potrebbe anche sembrar scritto dal Cavalier Berlusconi.
La guida di questo governo è, però, del PD.
Il partito della sinistra ha anche la maggioranza assoluta dei ministri. Il Pdl ne ha solo 5 su ventidue, 3 sono di Scelta Civica di Mario Monti, un radicale e 4 tecnici, ma di area naturalmente vicina alla sinistra.
Sembra che il Pdl non abbia posto nessun ostacolo sui numeri e sui nomi, al contrario del PD che ne ha bocciati alcuni del centrodestra. Tutta roba di lana caprina per soddisfare la sete di astio di una base eccitata dai capipopolo, avvezzi a scaldare le piazze e le tribune televisive indicando i nemici da abbattere. Gli idioti non mancano mai e serviva anche questo per celare il carattere pretestuoso degli atteggiamenti già visti con Bersani.
E’ facile fare i prepotenti con un sistema elettorale che, pensato per un confronto bipolare, ha consentito al PD, con solo lo 0,36% dei voti in più del Pdl, di avere alla Camera invece del 30%, il 55% dei seggi, con un premio di maggioranza del 25% di seggi in più. Per questo Bersani aveva ostacolato, negli sgoccioli della passata legislatura, ogni tentativo di modifica della legge elettorale, compresa la soglia per accedere al premio di maggioranza.
In virtù di questo vantaggio la sinistra ha provato a fare il pieno occupando il 100% delle istituzioni. Voleva fare così anche con il Governo, ma il grande slam a Bersani non è riuscito.
E’ stato varato, invece, un Governo dalle larghe intese.
Ha vinto il buon senso.
E’ prevalso l’invito di Napolitano ai partiti di ricercare la pacificazione nazionale e di assumersi le responsabilità verso il Paese.
L’Italia non si poteva ancora permettere di proseguire con i pregiudizi ideologici. L’alternativa alle larghe intese, dopo che il Capo dello Stato aveva respinto ogni soluzione pasticciata e confusa, sarebbero state solo le nuove elezioni. Ma con il Pdl decisamente in testa nei sondaggi, per la sinistra un nuovo ricorso alle urne sarebbe stato un massacro, dopo 60 giorni di impasse, senza idee, sfiancato dall’antipolitica e con un partito diviso, e incapace di fare sintesi su scelte condivise.
L’antiberlusconismo non è un programma di governo, né dà soluzioni alla crisi del Paese. Anche le iniziative, comuni con il M5S, di liberarsi per legge dell’avversario politico, sono apparse deliranti e tali da inquietare gli elettori moderati del centrosinistra per il riemergere della sinistra post-comunista che cambia pelle ma che resta legata ai metodi illiberali.
Il Governo Letta ha, invece, un programma di governo.
Il PD non l’aveva.
Solo il Pdl in campagna elettorale ha proposto un programma per cambiare il Paese senza avventure. E l’ha fatto con l’indicazione di provvedimenti su questioni vere.
Enrico Letta ha recepito le indicazioni del Popolo della Libertà. C’è la cancellazione dell’IMU sulla prima casa che fa da apripista alla questione fiscale ed ai problemi delle famiglie.
C’è lo stop all’aumento, previsto per luglio, di un punto dell’Iva, poi gli sgravi fiscali per le imprese che assumono.
La rivisitazione della riforma Fornero, per rivederne le rigidità, accoglie le perplessità del Pdl. Il programma del Pdl chiedeva la cancellazione dei rimborsi elettorali e la riduzione dei costi della politica, recepite da Letta, e poi c’è l’idea della “Convenzione” per le riforme, per cambiare la seconda parte della Costituzione e riportare la centralità della nostra democrazia sulla sovranità popolare.
Ce n’è in abbondanza per comprendere che c’è condivisione sulla ricetta liberale per uscire dalla crisi economica, strutturale e politica e l’Italia.
Vito Schepisi
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