28 settembre 2010

Fermiamoci a pensare



Se ci fermassimo un po’ a pensare, comprenderemmo che questa volta la posta in gioco ha il suo valore. Dopo la caduta della prima repubblica, già nel 1994, quando, con un avviso di garanzia pubblicato sul Corriere della Sera, la Procura di Milano informava Berlusconi - che coordinava a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata - d’essere oggetto di indagini per concorso in corruzione, dando così inizio ad un’attenzione giudiziaria che dura oramai da 16 anni, la politica italiana ha vissuto una democrazia molto tormentata, se non per certi aspetti precaria. Da quei tempi, però, nel Paese è maturata una speranza che è diventata una lunga attesa. E’ stata vinta la rassegnazione, ed anche l’ipocrisia ha dovuto arretrare di qualche passo, vinta dalla inarrestabile volontà degli italiani di cambiare.
Gli esiti elettorali che si sono succeduti, però, non hanno mai sortito un confronto sereno tra maggioranza ed opposizione: è mancata la reciproca attestazione di legittimità; le coalizioni elettorali formatesi si sono rivelate frammentate, litigiose ed incostanti; sono emerse ambizioni premature ed egoismi di partito; sono affiorate differenze sia di obiettivi che di strategie politico-amministrative.
Le maggioranze precarie, formate dall’unione di più partiti, ciascuno con i suoi personalismi ed i suoi apparati, hanno finito così col paralizzare l’azione di governo e l’attività parlamentare. La conseguenza è che non è stato possibile esprimere con continuità un ciclo politico-amministrativo e, soprattutto, che le caste conservatrici hanno bloccato l’azione riformatrice.
Le riflessioni servono anche per capire se tutte queste divisioni e se tutte queste lotte nei partiti e fra i partiti siano o meno anche un riflesso delle lotte tra gli italiani, e se il corpo elettorale riesca o meno a dare significato politico alle frammentazioni. La politica in definitiva non è che un contenitore di sostanze diverse che vanno, ad esempio, dai grandi ideali di Libertà ed Indipendenza, di Patria, di Giustizia, di equilibrio sociale, di umanesimo, di lotta al bisogno, alla più modesta collocazione di un lampione o di un’area di parcheggio. Se, in politica, vedessimo tutto con l’occhio del pregiudizio, ci si potrebbe collocare tranquillamente tutti da una parte o tutti dall’altra e viceversa. Le scelte, invece, si fanno sui modelli di società da realizzare e sulla capacità, attraverso le riforme, di adeguare le stesse scelte ai tempi che mutano.
Non c’è niente di più insulso in politica che il pregiudizio, come se si potesse tranquillamente sostenere che da una parte ci sia sempre la ragione e dall’altra sempre il torto, ovvero che con i primi ci sia Fini e con gli altri Berlusconi, o viceversa da una parte Bersani e dall’altra Di Pietro o, ancor più, con i primi sempre Bersani e con i secondi Berlusconi, o infine che solo da una parte ci sia il male assoluto come sostiene, ad esempio, un personaggio come Travaglio.
La verità è che il fastidio e l’ingombro di questa politica italiana, incline per indole e tradizione all’inciucio ed alla spartizione dei poteri, si chiama Silvio Berlusconi. La verità è che la preoccupazione della perdita dei privilegi di casta, ed il timore dell’abbattimento della gestione vischiosa della burocrazia, proviene dall’idea politica di Silvio Berlusconi. Queste ansie provocano reazioni incontrollate, persino trasversali che investono l’economia, la finanza, l’industria, la magistratura, l’editoria e, come è evidente, la stessa politica che diviene strumento sia delle politiche di innovazione che di quelle di conservazione.
I politici, a volte, sembrano come le mandrie di pecore. Se viene messo in pericolo l’accesso ai pascoli dove nutrirsi, cercano di scavalcare le barriere e di passare dall’altra parte. L’obiettivo, più che le scelte, è quello di conservare lo spazio della propria sopravvivenza parlamentare o, a seconda dei casi, della fetta di potere da gestire. Pochissimi politici tornerebbe a vita privata per propria scelta e, pur lamentandosi per i sacrifici, lo stress, la tensione, non rinuncerebbero mai ai tanti privilegi conquistati tra cui compensi economici, benefit, liquidazioni di fine legislatura e trattamenti pensionistici.
Se ci fermassimo a pensare, perciò, capiremmo che si deve provare a rompere questa “maledizione” di non poter cambiare il Paese, e di farlo invece muovere non più nell’interesse della sua classe dirigente, ma dei suoi cittadini. Non più nell’ipocrisia politica, ma secondo opzioni che non compromettano le necessità ed i bisogni del domani. E se anche questa volta si rinunciasse alle scelte, sarebbe un’altra occasione perduta. E non si sa se e quante ne resterebbero ancora!
Se si chiudesse questa legislatura senza riforme, Berlusconi rischierebbe di perdere definitivamente la sua battaglia rivoluzionaria. Finirebbe il sogno di tanti di voler attuare con il centrodestra quella politica riformatrice che la sinistra non è neanche capace di concepire. Fa bene, pertanto, il Cavaliere a provarci!
Marcello Veneziani nel suo articolo di lunedì su il Giornale sosteneva che Berlusconi è il tappo della politica italiana, quello che impedisce che fuoriesca il letame della partitocrazia. Senza Berlusconi, in effetti, salterebbe il bipolarismo e la politica ritornerebbe a frantumarsi. Si tornerebbe ai ricatti, ai condizionamenti, alle spartizioni, ai vertici di coalizione, come ha appena chiesto il finiano Bocchino. Ma Berlusconi non è eterno e non se ne vedono altri in giro. Se non riuscirà a fare le riforme, tutto sarà più difficile.
Il Premier ha, pertanto, il dovere di provarci, ma anche di appellarsi al Paese al primo manifestarsi di nuovi rigurgiti di azioni di logoramento. Meglio nuove elezioni che galleggiare.
Vito Schepisi

21 settembre 2010

Ma anche ...


Ma si capisce perché Veltroni è tornato a cantare nel coro! I suoi proclami di abbandono della politica sono come un’eco che rifrange i suoni: è come un effetto speciale, è come il riverbero della eco che lentamente va scemando fino a sparire. Non c’è niente di vero in ciò che dice e che fa: è scritto solo nel copione del film che vive dal vero. Non c’è necessariamente un motivo per ogni cosa, l’istinto spesso prevale, e neanche per il mancato trasferimento in Africa c’è una vera ragione. E chissà se nel continente nero ci andrà mai per restarci! E le motivazioni non sono solo per pietà per quelle popolazioni già gravemente tormentate, ma anche altre. Per Veltroni il “ma anche” è centrale. Quasi uno scopo!
Come capita ad un autore che ha sempre sognato di comporre l’opera d’arte più eclatante e discussa del secolo e che, dopo averla realizzata, pregusta l’avverarsi del suo desiderio e spera che alla radio, in televisione e sui giornali si discuta della sua creatura artistica, non può essere vero che Veltroni rinunci alla voglia di godersi il successo. Non può allontanarsi ed isolarsi dalla ribalta ed abbandonare l’idea di gustarsi il tributo di plauso e di stima che merita. Non sarebbe normale! E sarebbe meno normale che mai per uno che dà l’idea dell’uomo che, per spiccata autostima, pur di guardarsi e di sentirsi si metterebbe dinanzi allo specchio ad ammirarsi.
Poteva così Veltroni nel trionfo pieno del “ma anche” tuffarsi nell’impegno umanitario in Africa e fuori dalla ribalta? Proprio lui esperto di cinema e spettacolo lontano dai riflettori?
Nulla poté il suo ingegno letterario e politico quanto la sua onnicomprensività delle soluzioni. Non poteva abbandonare la scena proprio ora che per lui c’era una ragione d’orgoglio. Non sarebbe stato da Veltroni, diventare il signor nessuno fuori dall’Italia, e proprio nel momento in cui può vedere finalmente trionfare il suo intuito comprensivo, di grande spessore filosofico, del tutto e del suo esatto contrario: il bianco, ma anche il nero; l’Africa ma anche l’Europa; il dritto, ma anche il rovescio; dentro, ma anche fuori; Berlusconi, ma anche no; con la bussola, ma anche senza.
Veltroni ha tracciato il solco del pensiero “maanchista” e poi ci si è infilata una folla, ad iniziare da Vendola, ad esempio. Cattolico, ma anche comunista, e poi continuando tra l’assunto ed il suo “ma anche” scopriremmo la realtà di una terra pugliese devastata dall’incuria e dalla supponenza, tra disoccupazione che cresce a due numeri, i servizi inefficienti, la sanità inquietante, la sporcizia, l’arretratezza, trovandoci così, per indignazione, in una giungla di espressioni poco poetiche. Ma anche, sempre nella Puglia di Vendola, un territorio devastato dalle pale eoliche e dai pannelli fotovoltaici. Ma anche senza che nessuna procura approfondisca sugli appalti e sulle spese. E la sinistra così opta per farsi ancora del male, e fare del male al Paese, e pensa anche a Vendola come nuovo leader della sinistra italiana, ma anche senza orecchino.
Fini ha deciso cosa farà da grande, ma anche Veltroni ha deciso di fare qualcosa dentro, ma anche fuori dal vaso. Per fortuna che la bussola ce l’ha, ma anche Bersani sostiene d’averla.
Il Pdl ha i suoi problemi interni con la fronda finiana. Fini ed il suo gruppo si schierano a destra, ma anche a sinistra. I finiani sono per la fiducia al governo, ma anche contro questo governo. Ed il governo ha lavorato bene, ma anche male. Il Fli si costituisce in gruppo autonomo dal Pdl e diventa Fli in Parlamento, ma anche Pdl fuori del Parlamento. Il presidente della Camera è super partes, ma anche leader di un nuovo gruppo politico. Forse c’è un po’ di confusione, ma anche uno spettacolo indecente.
Il Pdl ha i suoi problemi, ma anche all’interno del PD c’è un confronto molto teso in atto. La festa del Pd di Torino, tra luci ed ombre, ha movimentato il dibattito interno nel centrosinistra, conclusosi con un vuoto assoluto di proposte, ma anche con la conferma dell’antiberlusconismo come unico collante che li unisce. Ma anche con l’emergere di una reazione violenta dei gruppi più intolleranti della sinistra italiana. Nel Pd c’è democrazia, ma anche e soprattutto il suo contrario.
La Bindi sarebbe disposta a rapporti con Fini per disarcionare Berlusconi, ma anche Di Pietro vorrebbe avere rapporti col diavolo per ribaltare il voto degli elettori e sostiene anche che il Presidente del Senato e Dell’Utri non avrebbero diritto di parlare in pubblico. Di Pietro comanda nel suo partito, ma anche nel PD, ma anche in tutto il Paese, ma anche in tutte le Procure, ma anche in tutte le tv. Sarà che pensi che solo con la sua presenza si realizzi la sovranità del pluralismo, ma anche l’ignoranza, ma anche la barbarie, ma anche la protervia, ma anche l’arroganza.
Rutelli è in cerca di autore, ma anche Casini. L’Udc non si schiererà mai a sinistra, ma anche lo fa. Miccichè vuole stare in un nuovo partito del sud, ma anche nel Pdl.
E’ in arrivo Santoro, ma anche il suo vittimismo, ma anche le sue provocazioni, ma anche le polemiche, ma anche Vauro e Travaglio. Ma anche “du palle”! Ed a proposito di palle in Tv ci sarà anche Biscardi?
E Buttiglione, imperterrito, si accinge ad andare dal sarto per girare per la centesima volta la sua vecchia giacchetta. Purché non vada anche dal chirurgo estetico a cambiare anche la faccia: quella che ha è quasi perfetta.
Vito Schepisi

19 settembre 2010

Preferenze si, preferenze no



Quando si affrontano questioni relative al sistema elettorale ed alle candidature, prenderci per il naso da soli sembra che sia uno sport nazionale. Una ricetta buona dicono d’averla tutti e ciascuno si cimenta a sostenere la sua. In verità anche per la politica non esiste una medicina che curi ogni male. Si può solo provare a lenire il “dolore” e ridurre i possibili danni. Niente, però, di assolutamente efficace e di risolutivo.
Sia a destra che a sinistra c’è chi sostiene, da subito, la necessità di reintrodurre le preferenze, anche senza cambiare il sistema elettorale, perché il “porcellum”, ad avviso di costoro, toglierebbe agli elettori il diritto di scelta. Niente di più sbagliato. Il diritto di scelta, sembrerà un controsenso, ma viene invece tolto agli elettori con le preferenze. Reintroducendo le preferenze, infatti, viene tolto spazio alla politica e vengono incoraggiati gli interessi particolari, gli inciuci ed i comitati di affari. Ma cosa conta di più per gli elettori? Conta più scegliere i programmi ed il quadro politico di riferimento o scegliere gli uomini?
Con la possibilità di scegliere tra i candidati si ottiene il risultato di trasformare il loro entusiasmo politico in professione. Gli aspiranti parlamentari, qualche volta sostenuti da cordate di finanziatori, finiscono per investire danaro per il proprio inserimento nella struttura della politica. Come se fosse appunto un mestiere. Ma quando la politica si trasforma in strumento e diventa meccanismo funzionale ad uno scopo, come un mezzo di trasporto, ad esempio, capita che serva solo a portare il protagonista da qualche parte, non a risolvere i problemi degli altri. Uno strumento viene solo utilizzato, ma non interpretato, né vissuto e sofferto, come invece accade per un impegno sociale. La politica deve essere, invece, utile alla collettività non ai suoi operatori, deve risolvere le questioni della gente non quelle personali o delle cordate di potere.
Chi sano di mente, con le preferenze ed il mercato del voto, sarebbe disposto a sostenere spese “da pazzi” per competere a diventare "onorevole”? Solo chi è troppo ricco o chi ha idea di dover fare l’investimento della vita, magari riempiendosi anche di debiti, se non invece chi sostenuto da ambienti contigui al malaffare. Può una persona, senza mezzi finanziari da sprecare, quantunque preparata e onesta, mai diventare un parlamentare, mettendosi in competizione con chi non fa economie per conquistare il mercato del voto? A parte qualche eccezione, i fatti dicono di no. Ma allora sarebbe anche giusto che un partito, per utilizzare le qualità di una persona capace, la sostenga e la spinga in Parlamento.
Non è un delitto sostenere che la democrazia si realizzi quando viene lasciato al popolo il diritto di scegliere l’indirizzo politico o il modello di società da sviluppare, ovvero quando le convergenze su una parte politica si concretizzino sulla base di scelte programmatiche, di priorità e di diritti e doveri da difendere e sostenere.
Quando si voglia esprimere la propria opzione politica non si sceglie la persona, anche se competente, e se ha equilibrio e rettitudine, ma si confronta il progetto che si ha in mente con le proposte che sono sulla piazza. Una volta che si condivide il progetto, interessa meno chi persona può godere del voto espresso. Interessa invece sapere se quel programma verrà portato avanti o se su quelle scelte ci potrà essere coerenza ed impegno in Parlamento.
Il voto politico è una scelta di idee e di soluzioni: un po’ meno di uomini. Ma è anche chiaro che l’attenzione dovrebbe essere riversata sugli uomini di partito più rappresentativi, in quanto ritenuti o meno in grado di assolvere le funzioni di governo. La fiducia nei dirigenti va ad estendersi nella fiducia nelle loro capacità di proporre una squadra operosa e capace di lavorare in Parlamento.
E’ giusto che sia una preoccupazione primaria dei partiti, quella di candidare persone che sappiano rappresentare al meglio le idee ed i programmi avanzati ed, altresì, che sappiano far valere nel Parlamento le ragioni di una scelta politica. Ed allora è anche giusto che questi personaggi siano indicati ai primi posti di una lista elettorale. Può servire anche ad indicare che si punta su di loro per trasformare un elenco di buoni propositi in progetti concreti.
Ma è soprattutto giusto che, almeno per le elezioni politiche, non si apra in Italia il supermercato del voto. Sarebbe mortificante, infatti, vedere in Parlamento personaggi che ci arrivano in virtù di pratiche clientelari, di controllo mafioso del voto o per quantità di soldi investiti. Quello del Parlamento degli eletti e non dei nominati è dunque solo l’effetto di un falso moralismo. Anche fin troppo strumentale e capzioso.
In Italia fino al 1992 c’erano le preferenze e, anche se si finge di non ricordare, si sa molto bene come andavano le cose. Tangentopoli ha chiuso quella stagione. Quale prova più efficace per dire che quella delle preferenze è solo un’ulteriore ed ipocrita mistificazione della questione morale? Ai tempi di “mani pulite” i parlamentari incappati nelle maglie della giustizia sostenevano d’avere incassato tangenti per sostenere le spese della politica. Con la reintroduzione delle preferenze si tornerebbe alle stagioni della prima repubblica.
E già Casini e Rutelli lavorano per una nuova DC allargata a Fini e Veltroni.
Vito Schepisi

15 settembre 2010

Se tagliassimo ...


Se tagliassimo del 20% le spese degli enti locali, dalle comunità montane alle Regioni, ed eliminassimo le province, lasciando solo, ad esempio, quelle delle città costituite come aree metropolitane, con gli organismi rappresentativi composti da amministratori dei comuni che ne fanno parte e senza assessorati e complesse organizzazioni burocratiche?
E se tagliassimo i consigli d’amministrazione di tutte le municipalizzate, di tutti gli enti statali e parastatali, di tutte le asl, di tutti gli enti di Stato, sostituendoli con organismi più snelli ma soprattutto con i giusti compensi, tali da non recare offesa all’impegno di altri che, a parità di titoli, di professionalità e di tempo impiegato, guadagnano enormemente di meno?
E se ancora tagliassimo i tanti privilegi di tante categorie di lavoratori, gli automatismi di carriera, le tante nomine a dirigenti e le tante promozioni a fine carriera per alzare la pensione, Presidenti di Corte Costituzionale compresi, e tagliassimo un po’ di quella mentalità di usare lo stato come una variante della cassa integrazione guadagni, ovvero come un grande ammortizzatore sociale che trasforma il nobile principio del diritto al lavoro in un meno nobile diritto al salario?
E se pensassimo che la politica sia un diritto di tutti, ma che va esercitato da chi voglia porre il proprio impegno al servizio della comunità, ricevendone un compenso adeguato e tale da ricoprire i costi del suo esercizio, e da consentire, altresì, un tenore di vita dignitoso con un sistema di continuità nell’erogazione dei contributi sociali, tali da non procurare un danno economico alla maturazione, come per tutti i lavoratori ed i liberi professionisti, delle prestazioni previdenziali? E naturalmente abolendo le buonuscite ed i vitalizi?
Se insomma fossimo anche rimasti scandalizzati dinanzi alla notizia di un ex detenuto in attesa di giudizio, già Vice Presidente della Regione Puglia, arrestato qualche mese fa perché accusato di una storia di soldi e favori a luci rosse, ricevuti in cambio di appalti e forniture nella sanità pugliese, ed ora a piede libero in attesa del processo penale, che percepisce da subito e prima dell’età pensionabile un assegno mensile di 10.000 euro lordi, e che ha incassato, con un mandato di pagamento del 25 agosto 2010, firmato dal dirigente del Servizio Amministrazione e risorse umane della regione Puglia, una buonuscita di circa 400.000 lorde, pari ad un anno intero di stipendio, indennità comprese, per ogni legislatura fatta, che nel caso del dalemiano Frisullo sono state tre, e che è come lavorare (si fa per dire) per cinque anni ed essere pagati per sei ( come un Tfr pari al 20% per ogni anno)?
E se, infine, i cittadini italiani, magari chiamati ad esprimersi con un apposito referendum abrogativo, proibissero l’utilizzo di fondi pubblici per sponsorizzazioni di manifestazioni canore, sportive e teatrali? E se fosse interdetto alle amministrazioni locali di aprire sedi di rappresentanza all’estero ed in Italia, in regioni e comuni diversi da quelli amministrati? E se le macchine blu di ministri e amministratori fossero dotate di una scatola nera in cui venissero indicati tutti i tragitti effettuati e fossero controllati attraverso un registro degli impegni amministrativi e di rappresentanza degli aventi diritto? E se fosse proibito ricorrere a consulenze esterne in ministeri, enti pubblici e Comuni, regioni e province laddove esistono all’interno delle strutture appositi uffici con tanto di dirigenti e di personale pagati per assolvere questa funzione? E se fosse proibito ai ministri, ai manager di enti, ai Presidenti di Regione di far assumere personale al seguito per mansioni di consulenza, ufficio stampa e segreteria? E se tagliassimo almeno del 10%, ma anche di più, il personale degli enti pubblici e dei ministeri adottando il criterio dello sfoltimento progressivo ricavato dal pensionamento non reintegrato? E se tagliassimo i permessi sindacali e ponessimo le parti sociali dinanzi alla responsabilità civile per le azioni di protesta che travalicano il giusto principio del diritto di sciopero e della legittimità degli strumenti e della forma della protesta?
E se agli evasori fiscali sorpresi a non pagare le tasse su redditi accertati superiori a 20.000 euro l’anno, ad esempio, pari grosso modo alla paga lorda di un lavoratore di fascia bassa, ci fosse la denuncia penale d’ufficio, oltre a pesanti sanzioni amministrative?
Se tutto questo fosse possibile farlo in pochi anni, non potremmo pensare di ritagliare per l’Italia un suo futuro migliore per tutti e di poter far fronte alle carenze sociali e strutturali che ci affliggono e lenire le ansie nel stare, nei tempi delle congiunture economiche e delle crisi dei mercati, con il fiato sospeso a sperare che una ventata speculativa non ci travolga?
Vito Schepisi

13 settembre 2010

Bersani ed il ritorno della partitocrazia


Bersani insiste per un ribaltone di maggioranza parlamentare che serva a modificare la legge elettorale, per poi andare ad elezioni anticipate. La soppressione della legge “porcata”, come la definì il suo estensore Calderoli, si presta, però, solo a distogliere l’attenzione dalle vere finalità delle modifiche richieste dal leader del PD. Appare difatti persino virtuosa la contrarietà ad un metodo che non dà la possibilità di esprimere le preferenze e che invece consente ai partiti di indicare nell’ordine i candidati chiamati a sedere in Parlamento.
A poco varrebbe l’obiezione che i partiti non avrebbero interesse ad inserire in lista candidati poco rappresentativi della società. Ma non solo. Le cose possono essere viste anche diversamente. Togliamoci subito un sassolino per sostenere che tantissimi parlamentari che sono stati eletti con l’attuale sistema sarebbero stati ugualmente eletti con le preferenze, perché rappresentativi della parte politica che li ha candidati, o perché sostenuti dai partiti e posti in lista in un ordine (capilista) di gradimento, ovvero per dar risalto alla lista in virtù di un ruolo politico o istituzionale ricoperto. I partiti comunque mirano a far eleggere i loro candidati di punta. I lavori parlamentari sono complessi e richiedono esperienza e preparazione.
Anche col maggioritario, misto ad una parte di proporzionale, come il Mattarellum, detto anche “minotauro” per indicare la sua ambivalenza, i partiti blindavano i loro uomini di spicco. Destarono attenzione nel 2001, a Gallipoli, le candidature contrapposte di Mantovano e D’Alema. Fece discutere l’eccezionalità della rinuncia dei due a blindare il proprio seggio parlamentare con l’inserimento anche nella lista proporzionale.
Bersani, Letta, Franceschini, Bindi ed i vari Fassino, D’Alema, Veltroni e Finocchiaro, come Di Pietro e Casini o Donadi e Cesa, se non Bellisario e Buttiglione, con il sistema delle preferenze andrebbero ugualmente in testa alle liste e dietro di loro nell’ordine, a seconda dei titoli e meriti che possano far valere, tutti gli altri in rigoroso ordine di gradimento. C’è di comico che a ricorrere ad osservazioni del tipo “Parlamento di eletti e non di nominati” ci siano molti abituati a prendersi per il naso da soli. Molti che in perfetta malafede si preoccupano del pericolo di un ritorno della partitocrazia, mentre nei fatti e nei propositi ne fanno una ragione di sopravvivenza politica.
Le preferenze, per chi non lo ricordasse, sono state all’origine della corruzione politica, del voto di scambio, dell’investimento di cordate finanziarie ed imprenditoriali negli “affari” della politica. La gestione e lo smistamento delle preferenze, in alcune zone del Paese, erano sotto il controllo della mafia. Con le preferenze, oltre ai candidati indicati dal partito, vinceva chi aveva più soldi da investire, più cene da offrire, più voti da comprare, più regali da fare, più promesse elettorali da avanzare, più clientele da accontentare o più minacce e ricatti da far valere. Le preferenze hanno sempre selezionato, al sud in particolare, la peggior classe politica. Chi non aveva soldi, benché avesse invece contributi di ingegno e di buonsenso da offrire al Paese, restava al palo. Vincevano quasi sempre i ricchi e spesso i disonesti.
La vera nuova “porcata”, pertanto, sarebbe proprio il ritorno al voto di preferenza. Si può discutere sui sistemi di selezione della classe politica, ma puntare sulle preferenze sarebbe un ritorno al passato. Sarebbe la restaurazione dei partiti come comitati di affari. Non va, non può andare, e sarebbe folle riprovarci.
Gargamella (Bersani) la finisca di concepire l’inganno: la finisca di perseguitare i poveri puffi!
Fatte le necessarie osservazioni che misurano la quantità di ipocrisia e di furbizia che c’è in Bersani ed in tutti i protagonisti dei colpi di coda della partitocrazia, cerchiamo anche di capire perché si vorrebbe modificare la legge elettorale. Il segretario del PD non si limita, infatti, solo a porre l’accento sulle preferenze, ma va oltre e mira all’abbattimento degli sbarramenti e del premio di maggioranza. Il PD sa che con un sistema bipolare resterebbe all’opposizione a vita. Ma non lo può dire! Non può dirlo per non perdere in popolarità. E siccome in Parlamento, da solo, non ha la forza per cambiare nulla, ha bisogno del sostegno dei partiti minori. Ha bisogno di Rutelli, Casini, Di Pietro e dei parlamentari del gruppo misto, tra cui ci sono alcuni rappresentanti di gruppi minori, ed infine ha bisogno di Fini. Saranno i partiti minori che chiederanno a Bersani ciò che invece fa comodo al leader PD. E cosa se non il ritorno alla partitocrazia togliendo il premio di maggioranza e gli sbarramenti? Cosa se non il ritorno al mercato della politica, su cui le caste potranno nuovamente esercitare pressioni per affossare le riforme ed i provvedimenti scomodi per i loro interessi finanziari, economici, professionali ed industriali? La doppiezza della scuola leninista continua!
Sarebbe utile, invece, pensare alle riforme ed alle modifiche da apportare alla seconda parte della Costituzione, per stabilizzare il sistema bipolare e per ricercare più equilibrio nelle funzioni dello Stato. Non si può, infatti, pensare ad una democrazia consolidata che viva nella conflittualità dei suoi ordinamenti. Occorrerebbe che i compiti di ciascun organo dello Stato siano più chiari e legittimi. Occorrerebbe attribuire responsabilità certe e controlli oggettivi. Occorrerebbe, infine, garantire maggiore autorevolezza alla sovranità popolare. La democrazia ha regole e tempi che vanno rispettati, senza che ogni cosa sia messa in discussione solo un momento dopo.
Vito Schepisi

08 settembre 2010

La maggioranza confusa


“Fini a Mirabello ha parlato come un rappresentante dell’Idv”. Questa è la sintesi delle dichiarazioni di Di Pietro a cui il Fini di Mirabello però è piaciuto solo a metà. Per il “Saint-Just” molisano, il Presidente della Camera poi trae conclusioni sbagliate. L’ex PM è andato in visibilio per la tenace retorica e l’aggressività dell’ex leader del Msi e per i suoi toni di neo antiberlusconismo, ma è rimasto deluso per la sua scelta di voler restare nella maggioranza e di voler continuare a sostenere il Governo. Di Pietro, preoccupato dalla concorrenza, da “squadrista” a “squadrista” (come direbbe Giampaolo Pansa), ritiene incoerenti le conclusioni di Fini e nutre il naturale sospetto che il cofondatore pentito del Pdl sia un furbastro e che voglia mantenere due piedi in una staffa. E come dargli torto?
Ma il discorso di Fini piace invece al PD ed a Bersani. L’opposizione di sinistra rispolvera tutti gli arnesi del mestiere per impedire il ricorso alle elezioni anticipate: la Costituzione, le prerogative del Capo dello Stato, il Parlamento, il carattere rappresentativo della nostra democrazia e la mancanza di vincoli parlamentari. Il PD è tanto terrorizzato dal pericolo della fine prematura della legislatura che terrebbe in piedi il Governo anche con la bombola di ossigeno. Non può, però, sbracciarsi più di tanto e, per non darlo a vedere, preferirebbe che lo facessero altri. E se vede quindi in Fini la classica figura dell’utile idiota, nello stesso tempo Bersani è preoccupato che la corda si tenda fino al punto di potersi spezzare e di accelerare un processo che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura.
Un gioco di ambiguità a cui la sinistra ci ha abituati da tempo. Il PD prende le distanze dal governo e dalla maggioranza, non lesinando gli inviti a Berlusconi a dimettersi, ma strizza l’occhio a Fini che mantiene in vita il Governo e avanza proposte di maggioranze diverse ed ipotesi di improponibili ed antistorici cartelli elettorali. Una scena grottesca che difficilmente ci si aspettava di dover osservare.
Bersani non può che vedere con soddisfazione una stagione di confusione parlamentare con il governo incapace d’esprimersi con compattezza ed operosità. Il cruccio che assilla il PD è, infatti, proprio l’operosità del Governo. Non paga criminalizzare ogni proposta e risoluzione. L’elettorato ha scoperto il gioco al ribasso e lo considera come un tradimento al Paese. L’impatto con la realtà, come si è visto, finisce col dare ragione a Berlusconi, come con la gestione della crisi recessiva e con la recente manovra finanziaria. Gli italiani apprezzano i fatti e sempre meno sopportano le caciare, le polemiche ed i piagnistei.
L’opposizione finisce così con il dover sostenere, in silenzio, la strategia di Fini che mira ad indebolire progressivamente l’immagine che il popolo ha di Berlusconi di leader concreto e diretto. Il PD non potendo battere il Cavaliere con la proposta politica, non riuscendoci ad eliminarlo con la magistratura, ora confida nel vecchio nemico “fascista”. Da Rosy Bindi a Franceschini pensano di poter dissipare, attraverso il logoramento finiano, l’immagine di una maggioranza che sa andare avanti come un treno.
Il PD, con l’aiuto di Fini, pensa di ribaltare il consenso popolare verso il premier, stringendolo proprio su quegli argomenti per i quali Berlusconi mostra più fastidio come, ad esempio, l’attuale sistema di confronto parlamentare tra maggioranza ed opposizione. Il Parlamento è diventato solo un sistema di barricate che si innalzano dinanzi ad ogni provvedimento. Le proposte alternative non esistono e l’opposizione si limita a fare ostruzionismo ed ad impedire che il Parlamento legiferi.
Le insidie parlamentari con una maggioranza incerta finirebbero così per frenare le riforme e per provocare il fastidio degli italiani verso un Governo ed una maggioranza non più capaci di esprimersi con determinazione e senza inciuci. Berlusconi senza una maggioranza capace di legiferare perderebbe il suo carisma e la sua presa sugli elettori. Un leader moderno non può, infatti, ridursi nel gestire un perverso sistema di burocrazia legislativa. Se si riducesse a farlo, crollerebbe nell’immaginario collettivo la sua immagine di uomo concreto. Con un Parlamento incapace di adottare, con determinazione e rapidità, provvedimenti ritenuti urgenti ed importanti finirebbe il belusconismo. Del Cavaliere gli elettori apprezzano, infatti, il decisionismo ed il fastidio per tutti gli arcaici riti dei professionisti della politica. E si sentirebbero traditi dal Berlusconi che non si mostrasse capace di mantenere le promesse elettorali o che si disponga all’inciucio, alla mediazione, alla concertazione, al compromesso ed a tutti quegli strumenti utili a snaturare i provvedimenti e che sono considerati come i vecchi arnesi della vecchia politica.
Vito Schepisi

02 settembre 2010

Aspettando Godot



Samuel Beckett scrivendo la sua opera più nota aveva pensato di sottolineare quanto ci fosse di così insignificante e superfluo nella vita di ciascuno. Nella sua commedia si presentano situazioni in cui c’è chi aspetta un evento senza conoscerne le ragioni, senza comprenderne il significato ed ignorandone l’esito finale. In fin dei conti l’essenziale della vita si risolve sempre in quei pochi episodi che marcano l’esistenza di un uomo. La nascita e la morte, principalmente, e poi un’attesa più o meno lunga di un qualcosa che mai, in nessun momento, nei tempi e per le emozioni, sarà mai possibile stabilire con certezza.
Aspettando Godot nel pensiero dell’autore doveva essere una rappresentazione teatrale noiosa, perché non può che essere noiosa una storia che non interessa nessuno, e noiosa è anche la sensazione di attesa di un qualche episodio che non si sa quale sia e che si lascia far credere, invece, che possa dar significato a qualcosa. Come l’attesa per il discorso di Fini. In definitiva anche questa attesa è inutile e noiosa. Come per un discorso che appare scontato e che non risolverà niente, né allo stato dei fatti potrà risolvere niente. Ci sarebbe solo da prendere atto che si è rotto un rapporto di fiducia. Manca ora solo la lealtà di trarne le conseguenze e di arrivare alle conclusioni. L’opera di Beckett è di quelle che appartengono al cosiddetto “teatro dell’assurdo”. Noi aspettiamo Fini, ed in verità ci annoiamo. E se non è anche questo assurdo?
Dopo giorni di silenzio e d’attesa, come quella di Vladimiro e di Estragone, Fini non si è presentato agli appuntamenti estivi già presi, ed ancora tutti sono nell’attesa che arrivi. Anche perché c’è più di uno che qualche domanda da fargli ce l’ha.
Sulla scena Didi e Gogo aspettano Godot. Per la ripresa della vita politica italiana, tutti aspettano Fini. Tutti ne parlano. S’aprono discussioni su ogni ipotesi, alcune senza senso, altre oziose, muscolose ed inconcludenti. Tutti che discutono e che litigano, e si formulano le congetture più strane. C’è chi difende e chi attacca. Chi richiama al rispetto. Di che? Di cosa? Di chi? E poi c’è chi grida e c’è chi molla, chi minaccia e chi sorride, chi s’indigna e chi si lamenta. C’è anche l’immagine di “Pozzo” che arriva tenendo al guinzaglio il suo “Lucky”: ha le sembianze di un grande vecchio che governa le briglia delle sue bestie. Toh! Queste bestie perché hanno anche i lineamenti di chi dirige le caste!
Tutti sono così in attesa del niente, tutti sono come i personaggi di Didi e Gogo che aspettano che arrivi il signor Godot, senza sapere perché l’aspettano, né cosa si devono aspettare da lui. Ma non per questo rinunciano all’attesa.
Ed il nostro Godot arriverà a Mirabello. Sempre che venga! Non si sa mai! Beckett il suo Godot non l’ha fatto mai arrivare. Il commediografo ha solo acceso la nostra curiosità, facendocelo immaginare sotto più possibili sembianze: buono, severo, giusto, diverso, anche un po’diabolico.
Anche Fini mostra più facce a seconda delle sue ambizioni. Chissà se verrà!
Se Vladimiro ed Estragone , nella commedia, aspettano e discutono tra loro per la durata dei due atti, quasi per tutto uguali, sempre noiosi, mai rivelatori di nulla, sempre ansiosi di andare senza mai dire e sapere dove, l’onere, invece, di dover dar contenuto all’attesa, Beckett lo ha affidato al pubblico che ascolta. C’è stato così chi ha pensato che i personaggi sulla scena aspettassero il Signore, chi la morte, chi una vita migliore. Di certo non c’è chi ha pensato che aspettassero Fini. E non solo perché il Presidente della Camera al tempo, subito dopo l’ultima guerra, non era ancora nato, ma perché questi in qualcosa si dovrà pur materializzare. Non è il personaggio immaginario di una commedia. O che lo sia? Ma si materializzerà lo stesso!
E’ difficile, infatti, che l’ex leader di AN lasci tutto solo nell’immaginario. E’più facile, invece, che scenda nel pratico e che materializzi un progetto, uno scopo, un fine, una conclusione, un’ipotesi. Si pensa anche alla materializzazione di una esplicita richiesta. Il Presidente della Camera non sembra, infatti, uomo dai grossi tormenti esistenziali, alla Beckett. Lo si immagina, al contrario, piuttosto impegnato, con curiosità non solo subacquea, ad aspetti più materiali, alcuni anche un po’ troppo materiali. E se nella commedia Godot rappresenta un avvenimento che sembra urgente e non procrastinabile, ma che resta lontano e che non arriva mai fino alla fine, ci auguriamo che la commedia che, come italiani, ci interessa più da vicino abbia invece finalmente una fine.
Vito Schepisi