19 settembre 2010

Preferenze si, preferenze no



Quando si affrontano questioni relative al sistema elettorale ed alle candidature, prenderci per il naso da soli sembra che sia uno sport nazionale. Una ricetta buona dicono d’averla tutti e ciascuno si cimenta a sostenere la sua. In verità anche per la politica non esiste una medicina che curi ogni male. Si può solo provare a lenire il “dolore” e ridurre i possibili danni. Niente, però, di assolutamente efficace e di risolutivo.
Sia a destra che a sinistra c’è chi sostiene, da subito, la necessità di reintrodurre le preferenze, anche senza cambiare il sistema elettorale, perché il “porcellum”, ad avviso di costoro, toglierebbe agli elettori il diritto di scelta. Niente di più sbagliato. Il diritto di scelta, sembrerà un controsenso, ma viene invece tolto agli elettori con le preferenze. Reintroducendo le preferenze, infatti, viene tolto spazio alla politica e vengono incoraggiati gli interessi particolari, gli inciuci ed i comitati di affari. Ma cosa conta di più per gli elettori? Conta più scegliere i programmi ed il quadro politico di riferimento o scegliere gli uomini?
Con la possibilità di scegliere tra i candidati si ottiene il risultato di trasformare il loro entusiasmo politico in professione. Gli aspiranti parlamentari, qualche volta sostenuti da cordate di finanziatori, finiscono per investire danaro per il proprio inserimento nella struttura della politica. Come se fosse appunto un mestiere. Ma quando la politica si trasforma in strumento e diventa meccanismo funzionale ad uno scopo, come un mezzo di trasporto, ad esempio, capita che serva solo a portare il protagonista da qualche parte, non a risolvere i problemi degli altri. Uno strumento viene solo utilizzato, ma non interpretato, né vissuto e sofferto, come invece accade per un impegno sociale. La politica deve essere, invece, utile alla collettività non ai suoi operatori, deve risolvere le questioni della gente non quelle personali o delle cordate di potere.
Chi sano di mente, con le preferenze ed il mercato del voto, sarebbe disposto a sostenere spese “da pazzi” per competere a diventare "onorevole”? Solo chi è troppo ricco o chi ha idea di dover fare l’investimento della vita, magari riempiendosi anche di debiti, se non invece chi sostenuto da ambienti contigui al malaffare. Può una persona, senza mezzi finanziari da sprecare, quantunque preparata e onesta, mai diventare un parlamentare, mettendosi in competizione con chi non fa economie per conquistare il mercato del voto? A parte qualche eccezione, i fatti dicono di no. Ma allora sarebbe anche giusto che un partito, per utilizzare le qualità di una persona capace, la sostenga e la spinga in Parlamento.
Non è un delitto sostenere che la democrazia si realizzi quando viene lasciato al popolo il diritto di scegliere l’indirizzo politico o il modello di società da sviluppare, ovvero quando le convergenze su una parte politica si concretizzino sulla base di scelte programmatiche, di priorità e di diritti e doveri da difendere e sostenere.
Quando si voglia esprimere la propria opzione politica non si sceglie la persona, anche se competente, e se ha equilibrio e rettitudine, ma si confronta il progetto che si ha in mente con le proposte che sono sulla piazza. Una volta che si condivide il progetto, interessa meno chi persona può godere del voto espresso. Interessa invece sapere se quel programma verrà portato avanti o se su quelle scelte ci potrà essere coerenza ed impegno in Parlamento.
Il voto politico è una scelta di idee e di soluzioni: un po’ meno di uomini. Ma è anche chiaro che l’attenzione dovrebbe essere riversata sugli uomini di partito più rappresentativi, in quanto ritenuti o meno in grado di assolvere le funzioni di governo. La fiducia nei dirigenti va ad estendersi nella fiducia nelle loro capacità di proporre una squadra operosa e capace di lavorare in Parlamento.
E’ giusto che sia una preoccupazione primaria dei partiti, quella di candidare persone che sappiano rappresentare al meglio le idee ed i programmi avanzati ed, altresì, che sappiano far valere nel Parlamento le ragioni di una scelta politica. Ed allora è anche giusto che questi personaggi siano indicati ai primi posti di una lista elettorale. Può servire anche ad indicare che si punta su di loro per trasformare un elenco di buoni propositi in progetti concreti.
Ma è soprattutto giusto che, almeno per le elezioni politiche, non si apra in Italia il supermercato del voto. Sarebbe mortificante, infatti, vedere in Parlamento personaggi che ci arrivano in virtù di pratiche clientelari, di controllo mafioso del voto o per quantità di soldi investiti. Quello del Parlamento degli eletti e non dei nominati è dunque solo l’effetto di un falso moralismo. Anche fin troppo strumentale e capzioso.
In Italia fino al 1992 c’erano le preferenze e, anche se si finge di non ricordare, si sa molto bene come andavano le cose. Tangentopoli ha chiuso quella stagione. Quale prova più efficace per dire che quella delle preferenze è solo un’ulteriore ed ipocrita mistificazione della questione morale? Ai tempi di “mani pulite” i parlamentari incappati nelle maglie della giustizia sostenevano d’avere incassato tangenti per sostenere le spese della politica. Con la reintroduzione delle preferenze si tornerebbe alle stagioni della prima repubblica.
E già Casini e Rutelli lavorano per una nuova DC allargata a Fini e Veltroni.
Vito Schepisi

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