24 aprile 2009

I manipolatori dell'informazione

Non si sa quanto Indro Montanelli avrebbe gradito essere chiamato in causa, in occasione del centenario della sua nascita, per sentirsi da miglior vita tirare la giacchetta perché avallasse la tesi di un’Italia occupata da un regime che, armato di manganello, impedisse la libertà d’informazione. E’ l’Italia che all’illusionista Santoro piacerebbe veder materializzare, per far emergere il suo immaginario eroismo di coraggioso difensore della libertà d’informazione o ergersi a vittima sacrificale, corredato di coordinate iban per bonifico bancario di riparazione.
Non si sa se Montanelli avrebbe persino gradito che a parlare di giornalismo, di professionalità e di etica dell’informazione ed ad accusare di autoritarismo ed addirittura di fascismo il leder moderato del Paese potessero essere giornalisti come Santoro, Gad Lerner, Travaglio, Mentana e Mieli.
Ancora una volta sulla televisione pubblica è stata allestita una trasmissione con molte ipocrisie e piena di rievocazioni di episodi di comodo. Una trasmissione sostenuta dallo staff e dal pubblico in sala ben allineato, come accade sempre e come piace al conduttore che però in questa circostanza è apparso, approssimativo e impreciso. Questa volta l’obiettivo di dimostrare che Berlusconi abbia il controllo dell’informazione era così inverosimile che la manipolazione gli è sfuggita di mano. Annozero si è concluso tra il nervosismo di Santoro, smentito con buona eleganza da Mieli e Mentana, con Lerner mortificato da Belpietro, con lo stereotipato sorriso simil-ebete di Travaglio e con la tristezza delle vignette del riesumato Vauro.
Per tornare al Giornalista di Fucecchio, nessuno ha mai nascosto la crisi dei rapporti tra Berlusconi e Montanelli, rispettivamente editore e direttore del Giornale fino all’inizio del 1994, e sfociata in una polemica rottura. Nessuno però, per onestà intellettuale, dovrebbe nascondere che il conflitto riveniva dalla natura dei personaggi e che fosse più caratteriale che politico, più di metodo che di merito. Quella di riconoscere a Montanelli il peso del suo fastidio per rischiare di diventare il direttore di un giornale allineato su di una parte politica, è la più grande espressione di lealtà che tutti amici ed avversari gli devono, anche coloro che sono rimasti delusi dalle posizioni assunte nei suoi ultimi anni di vita, e che lo hanno anche amabilmente perdonato.
La testimonianza della grande fermezza e personalità del fondatore de “Il Giornale” non sta tanto nel riconoscimento interessato dei suoi avversari (politici e giornalisti), quanto, invece, è da ricercare nella ferocia dei medesimi nel contrastarlo quando, col suo giornale era una voce fuori dal coro. E’ degno di grande stima ed onore, infatti, il Montanelli che uscito dal Corriere della Sera fonda Il Giornale ed occupa la scena, nonostante la ferocia e l’arroganza che covava all’interno di una opposizione politica che condizionava stampa, cultura ed istituzioni. In quell’opposizione politica che dominava le piazze, si ricorda che c’erano anche i Santoro, i Mieli ed i Gad Lerner, oltre a tanti altri che al tempo non si limitavano a porsi contro la diversità delle opinioni, ma le criminalizzavano, le minacciavano, le reprimevano. Invocavano allora un’informazione di classe, tutt’altro che libera.
A posteriori sono stati chiamati cattivi maestri e, per gli eccessi di alcuni, a sinistra si diceva che fossero anche compagni che sbagliavano. Impugnare un’arma e sparare, però, è stata solo la parte più infame di un metodo che comunque mirava a criminalizzare coloro che la pensavano in modo diverso. Dietro le pistole c’erano i movimenti di pensiero che teorizzavano la pretesa massimalista che non tutti potessero avere lo stesso diritto di esprimersi.
Invece di parlare dell’arcigno e tagliente risentimento di Montanelli contro Berlusconi, fingendo di ignorare che solo pochi mesi prima della rottura ne aveva tessuto le lodi, Santoro ed i suoi ospiti avrebbero fatto meglio a parlare della loro brillante carriera approdata ora sui lauti guadagni a spese dei contribuenti, ora nel sostegno di caste e famiglie industriali. Una bella e vantaggiosa evoluzione dopo esser stati a vociare nelle piazze contro la società borghese e per la lotta di classe ed avallato tesi sull’informazione anch’essa di classe.
Appare inverosimile pensare che ci sia un’informazione che abbia per protagonisti di riferimento gli stessi personaggi che sostengono che sia, invece, manipolata dal signore di Arcore.
E’ più che un lapsus freudiano il loro: è un dubbio amletico.
Vito Schepisi

22 aprile 2009

Durban II: il documento dell'ipocrisia

Di fatto si e conclusa prima del tempo la Conferenza delle Nazioni Unite a Ginevra sul razzismo. E' stato anticipato il documento finale per evitare che altre fratture tra i partecipanti potessero far fallire l'intera Conferenza. Il documento finale elaborato nei mesi scorsi, e limato negli ultimi giorni, in un difficile clima di intolleranza, è frutto di un difficile ed omissivo compromesso. Non serve, però, rendere solo meno irrealistico ed antistorico un documento se vengono omesse intere questioni di diritti negati e di intolleranze non rilevate.
Il dubbio di alcuni paesi, tra cui l’Italia, non si limita solo a contrastare i riferimenti alle presunte discriminazioni razziali di Israele o all’inverosimile accusa di razzismo allo Stato ebraico. C'è anche una differenza di metodo tra i paesi dell'Occidente ed i paesi cosiddetti neutrali. Le libertà fondamentali ed i diritti civili sono gestiti in modo diverso. Non ci sono solo differenze d’usi e tradizioni ma si mantengono differenze fondamentali tra uomo e donna e profonde discriminazioni per l'accesso alla pratiche religiose.
La presenza del Vaticano alla Conferenza è spiegata negli ambienti cattolici con lo scopo di allentare la repressione verso monache e suore e fedeli cattolici in alcuni paesi islamici. Come si può dar credito ad una conferenza mondiale, sotto l’egida dell’ONU, a cui si partecipa mantenendo un basso profilo per allentare una minaccia incombente?
Ci sono nazioni che negano la storia e negano l’odio razziale nazista contro gli ebrei e fomentano un odio dello stesso segno ed indirizzo. Se si pensa che sono anche gli stessi paesi che si sono attivati per redigere il documento finale! Sono paesi che non spostano di una virgola le loro intime convinzioni e la ferocia nel voler reiterare l'orrore nazista. Ci sono ancora Stati dove si consentono, con la complice inerzia delle autorità civili, intolleranze e discriminazioni che rendono difficile, o addirittura pericoloso, l'abbraccio ad una diversa fede religiosa.
E' difficile parlare di razzismo e di discriminazione senza marcare le differenze di maturità democratica. Le intolleranze non sono limitate solo al diverso pensiero, ma conducono a pericoli reali ed incidono anche violentemente sulle libertà e sui diritti degli uomini. Morte , torture, carcere duro, è un prezzo troppo alto per gli uomini che pagheranno in questo modo le ipocrisie di una Conferenza monopolizzata da un alto numero dei paesi definiti neutrali e dall’intero blocco musulmano. C’è chi spinge a spostare il tiro su obiettivi diversi, come si è avuto modo di constatare già con la Conferenza di Durban del 2001. La stessa strategia che traspariva dai difficili preparativi di quella di Ginevra, in corso, e che ha visto defilarsi per questioni di coerenza nazioni come gli USA, l'Australia, Il Canada, Israele, l'Olanda, la Nuova Zelanda, la Polonia, la Germania e l'Italia ed a cui si è aggiunta nel corso della Conferenza anche la Repubblica Ceca.
Non basta cancellare nel documento i riferimenti alla "diffamazione delle religioni" che i paesi di religione musulmana miravano ad introdurre nel testo della risoluzione finale, con l’intento di impedire al mondo intero, credente o meno, la libera espressione del pensiero ed il diritto di critica e di satira su idee e confessioni religiose, principalmente musulmane. C’era anche questa tra le pretese di un manipolo di stati fondamentalisti per poter giustificare condanne come quelle in passato inferte agli scrittori che hanno scritto su Maometto, o condanne al Papa che a Ratisbona nel 2007, con annotazioni filosofiche, si è soffermato sui dubbi e sulle perplessità risalenti al 1600 sulla storia dell'islamismo e sulle sue espressioni di riferimento.
Quello di Ginevra è il documento dell’ipocrisia i cui protagonisti sono paesi come Cuba, la Libia, L’Iran, il Sudan e la Siria. A che vale sottoscrivere una carta che valga solo a denunciare casi di presunte violazioni nei paesi occidentali, già cautelati da leggi sempre più rigide contro le discriminazioni? E che non valga, invece, ad evitare che la violenza e l’intolleranza religiosa mieta vittime nel mondo, per la sola colpa di abbracciare una fede diversa?
Vito Schepisi

20 aprile 2009

Tanti nemici, tanto onore

Si apprende che l'On. Di Pietro abbia osservato che a Montecitorio non ci sia nessuno che voglia pranzare in sua compagnia. L'ex magistrato ha aperto la campagna elettorale in Puglia traendone buoni auspici per il suo partito. Buoni presentimenti colti dalla difficoltà dei suoi colleghi deputati a relazionarsi con lui. Sostiene che tutti mostrino di temerlo e che sia proprio la crescita delle inimicizie a fargli trarre sentore di grandi successi politici. Sono le stesse conclusioni di Benito Mussolini, quando sosteneva "tanti nemici, tanto onore", anche se sarebbe prudente non fargli sapere quanto dalla quantità dei suoi nemici Mussolini traesse la misura dei suoi meriti. E’ bene che il leader dell’Idv non si monti ulteriormente la testa. E’ già difficile digerirlo per quello che è, da sembrar sin troppo inquietante pensarlo in ruoli ancor più arroganti ed autoritari. Sarebbe davvero eccessivo!
Il molisano avrebbe più affinità elettive con Hugo Chavez: stessi modi rozzi, stessa violenza espressiva, stessa mancanza di cultura. Non sappiamo, però, per i congiuntivi! La figura di Mussolini, invece, pur discutibile come lo è Di Pietro, anche lui abile nel sollecitare gli istinti più che la ragione, ha avuto un rilievo storico ed un ruolo autorevole nella coscienza del tempo, con personalità decisamente diversa dall’ex poliziotto di Montenero di Bisaccia. Paragonare Di Pietro al dittatore di Predappio è senza dubbio un azzardo storico ed intellettuale a tutto svantaggio del secondo. Mussolini non aveva solo carattere e lucidità politica ma anche maggiori qualità umane ed una cultura ben più solida di Di Pietro. Più raffinato, più carismatico, oratore retorico ma molto efficace. Niente a che fare, insomma, con il molisano cresciuto a manette e trattore.
Saranno altre, però, le motivazione che spingono i Parlamentari a disdegnare la compagnia di Di Pietro. Il personaggio si presta a riflessioni poco lusinghiere sulla sua capacità di mantenere a lungo le amicizie. Tutti i compagni dei percorsi politici seguiti dal leader giustizialista hanno poi avuto parole molto dure nei suoi confronti. I parlamentari degli schieramenti avversari non hanno poi particolari motivi d’amicizia con Di Pietro. Lo immaginano sempre pronto ad utilizzare qualsiasi confidenza che fosse utile alla sola sua causa, anche se dovesse tradire la riservatezza di coloro che gli hanno mostrato amicizia. Di Pietro è come il suo trattore, passa sopra a tutto e non fa niente per dissipare quest’impressione. Con la sua antenna moralizzatrice e forcaiola è più pericoloso di una microspia collocata per l’intercettazione ambientale. Non deve essere un piacere pranzare con Di Pietro, se si immagina ad una tavola imbandita come ad un luogo ideale per le confidenze, per i pettegolezzi, per le malignità, per le supposizioni e per il chiacchiericcio politico.
Nessuno ha, infatti, conservato a lungo stima per Di Pietro. A suo tempo neanche il capo della Procura di Milano, Borrelli. Tanti sostengono che il personaggio non sia un esempio di lealtà e che sia pronto a rimangiarsi la parola data in qualsiasi momento. Sono note le liti con i compagni di cordate elettorali a cui ha sottratto voti, rifiutandosi poi di dividere i rimborsi elettorali.
Per Di Pietro vale sempre la metafora, famosa ai tempi di mani pulite, del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, utilizzata sempre a seconda delle opportunità, tanto che tutto ciò che vale per gli altri non è detto che valga anche per lui o per chi gli sia vicino. Gli unici che gli sono stati vicini, da sempre, sono solo i componenti della sua famiglia ed il tesoriere del suo partito.
Due pesi e due misure per ogni cosa. Un giudizio severo per gli altri, comprensione ed assoluzione per se stesso e per chi gli faccia comodo. Anche le intercettazioni telefoniche che hanno coinvolto il figlio hanno un peso diverso. Fa acqua anche la sua reiterata asserzione del rispetto della magistratura, se poi ad esserne vittima è un magistrato che scende in corsa alle europee con il suo partito. Quando è stato ministro arrivò ad sospendersi dall’incarico, pur non essendo prevista dalla nostra Costituzione la facoltà di esercitare le funzioni di Ministro ad intermittenza a seconda degli umori del giorno. Una via di mezzo tra la sguscevole sagoma del protagonista della commedia all’italiana e l’uomo nero che si usava per rabbonire la vivacità dei bambini. Riesce così difficile pensare a Di Pietro meritevole di “tanto onore” per la misura della quantità dei suoi nemici!
Vito Schepisi

18 aprile 2009

Il referendum inutile

Sul referendum elettorale è bene fare un po’ di chiarezza, perché si ha l’impressione che si stia sviluppando il solito metodo della cortina di fumo sollevata per confondere le idee. E’ partito il gioco delle strumentalizzazioni di parte. Tutti aspettano le mosse e le decisioni degli avversari. Si è anche convinti che a mestare ci proverà anche Annozero.
Questa è l’Italia della faziosità e della disinformazione. E’ l’Italia dei viaggi di cinismo, col tassametro pagato dai contribuenti. Gli sciacalli da noi prendono lo stipendio a fine mese, in alcuni casi molto alti, pari a più di due anni interi di quello della gran parte dei lavoratori che invece in silenzio e commossi effettuano bonifici, fanno sottoscrizioni ed inviano sms da un euro per contribuire ad aiutare gli sfollati aquilani.
C’è da rilevare che il quesito referendario è ignoto a gran parte dei cittadini. Nessuno si preoccupa di fare chiarezza. E’ vero che è difficile spiegare i diversi passi delle norme da abrogare, ma in compenso è facile chiarire gli effetti pratici che ne conseguirebbero.
Fatta eccezione per i referendum attivati per le modifiche costituzionali, con le modalità previste dalla Costituzione, il referendum in Italia è solo abrogativo. Quello da svolgere è stato richiesto per rispondere a tre quesiti. I primi due analoghi, uno per la Camera e l’altro per il Senato, con cui, attraverso articolati richiami alle leggi elettorali in vigore, si chiede di abrogare la previsione degli accorpamenti elettorali tra i partiti. Le modifiche avrebbero per conseguenza l’attribuzione del previsto premio di maggioranza al solo partito più votato. Il terzo quesito, meno importante per gli esiti politici, ma altrettanto importante, invece, per il rispetto della volontà degli elettori, vorrebbe impedire la presentazione degli stessi candidati in più collegi elettorali, in modo tale che per conoscere gli eletti non si devono aspettare le opzioni dei capilista.
Per sgombrare il campo dalla strumentalizzazione più facile, c’è un solo partito a cui questo referendum converrebbe in assoluto ed è il Pdl. Con le modifiche previste dal referendum, con una stima di forza elettorale attuale del 40% degli elettori, sarebbe il partito di gran lunga più votato ed arriverebbe a conquistare alla Camera, per effetto del premio di maggioranza, ben 340 seggi pari a circa il 55% del totale. Più difficile sarebbe, invece, ipotizzare il numero dei seggi al Senato, in quanto il premio di maggioranza è calcolato regione per regione, ma anche a palazzo Madama la maggioranza complessiva dei seggi per il Pdl sarebbe fuori discussione.
Dinanzi a questa realtà inconfutabile tutti i partiti, al di fuori di quello di Berlusconi, dovrebbero essere contrari a questo referendum. In caso contrario si dovrebbe pensare che tutti siano stati fulminati sulla via di Damasco e si siano convertiti ad un sistema bipolare e bipartitico. Se così fosse tutti dovrebbero pensare di dover confluire o nel Pdl o nel PD. Ma non sembra che siano queste le intenzioni!
Al tempo Veltroni ha avuto difficoltà nel sostenere la raccolta delle firme, non si conosce oggi come la pensa Franceschini. Il referendum piace, però, a Di Pietro e francamente non se ne capisce il perché. Forse bluffa anche lui, come tutti, come sempre!
Assieme a Franceschini, Di Pietro insiste per l’Election Day, pur sapendo che l’accorpamento con le elezioni europee ed amministrative di giugno agevolerebbe il raggiungimento del quorum rendendo così effettive le modifiche. Sembra, infatti, scontato l’esito positivo del referendum. E Di Pietro bluffa ancora, bluffa sempre!
L’esito favorevole renderebbe persino difficile, se non impossibile, l’approvazione bipartisan di una nuova legge elettorale. Nella scorsa legislatura, prima che Prodi cadesse, lo spauracchio del referendum aveva favorito l’apertura di un ampio dibattito e di un accenno di un tavolo di confronto. Perché non riprenderlo rinviando la consultazione?
Si parla di voler risparmiare il costo delle consultazioni e sarebbe saggio per le tante ragioni che si conoscono. C’è un modo, però, per risparmiare ancora di più, ed è proprio quello di rinviare il referendum, con lo scopo di superarlo del tutto, modificando nel frattempo l’attuale legge elettorale.
Vito Schepisi

15 aprile 2009

Il pluralismo che manca


L’Italia, come tutte le democrazie, si avvale di una grande diversità di opinioni. I cittadini italiani sono da sempre abituati a dividersi su tutto. La storia ci rimanda a vicende di contese, di rivalità, di famiglie, di faide e di campanilismi esasperati. L’Italia si spacca per lo sport e la politica, si spacca tra laici e cattolici e sulle scelte istituzionali, come con il referendum su Repubblica e Monarchia del 1946, si spacca persino sulle regole dell’informazione, o sull’informazione senza regole, in cui emergono enormi contraddizioni tra libertà ed arbitrio.
Le divisioni ci sono, ma la rappresentazione del pluralismo, invece, appare molto compressa, o sembra mancare del tutto. Si ha la sensazione che non ci sia un ragionevole rapporto tra il Paese reale, con le sue ansie e le sue aspirazioni, e la quantità della diffusione plurale delle istanze culturali e sociali dei cittadini italiani. Lo si avverte, in particolare, in alcuni settori come quello, non a caso parlando di pluralismo, della formazione e dell’informazione.
Si ha l’idea che emerga una parte, sempre la stessa, negativa per pregiudizio ed un’altra, invece, per definizione giusta o potenzialmente tale, e sembra che ogni questione possa essere risolvibile soltanto in un’area politica, tanto da far sembrare persino superfluo il confronto con l’altra.
Soffermandosi principalmente sull’informazione, non si può tralasciare un giudizio di merito sulla formazione, per ricordare che gli attori, in gran parte, sono rappresentati dagli ex giovani della cosiddetta rivoluzione culturale, a cavallo tra la fine degli anni sessanta del secolo scorso e l’inizio degli anni 70. E’ una fascia di società medio - alta che ha goduto della garanzia del voto politico, della promozione e della laurea. L’hanno spacciata per conquista della parte debole della società (gli studenti) che solidarizzava con gli operai delle fabbriche. Basterebbe solo ricordare che questi studenti, al contrario degli operai e dei proletari dell’epoca, hanno continuato a mantenere gli agi delle famiglie di provenienza, i lussi, i modi chic e l’elitario privilegio di avere le carriere e gli spazi assicurati nella società benestante, tra cattedre universitarie “ereditate”, studi professionali già avviati ed inserimento nel mondo del lavoro. L’affermazione nella società che conta gli è stata garantita, in larga parte, dalla rete delle conoscenze delle famiglie, delle caste, del clero, e delle massonerie politiche. E’ bene anche ricordare, per chiudere sulla formazione, che nella scuola e nelle università questa nuova classe padrona ha mantenuto la stessa intolleranza e lo stesso pregiudizio intellettuale e sociale che aveva coltivato negli anni della sua formazione, sia per l’indirizzo culturale che per il rispetto del pluralismo politico.
E’interessante soffermarsi sull’informazione perché si ha l’impressione che non sia soltanto l’eccesso di predisposizione ideologica ad animare la preponderanza della faziosità politica, ma anche l’interpretazione zoppa della deontologia professionale. C’è una visione classista dell’informazione che vorrebbe giustificare il divario quantitativo con il Paese reale. Per la democrazia liberale, invece, l’informazione deve articolarsi per comprendere l’interpretazione plurale della società. Nei paesi liberi, la cultura non deve essere una gabbia in cui far pavoneggiare i mentori, ma deve essere lo specchio della società e deve poter animare il confronto tra le ragioni diverse di una pluralità d’ispirazioni e d’esperienze.
Sarebbe preoccupante pensare ad una cultura di Stato che renda monca la rappresentazione degli stati emotivi del popolo. La diffusione della coscienza popolare è il tributo della democrazia agli uomini che sono i reali protagonisti della storia. Ed è attraverso il confronto politico plurale che il popolo partecipa alle scelte politiche del Paese e realizza il sistema del metodo democratico.
Se queste premesse sono autentiche, se sono sintesi della democrazia e se sono accettate dalle parti politiche che si richiamano alla Costituzione, ci sarebbe da chiedersi perché non si dovrebbe definire autoritaria e totalizzante quella mancanza di pluralismo politico che aleggia in alcuni spazi dell’informazione pubblica. Perché è consentito ad un signore di appaltare ad una parte politica, la più intollerante e discutibile, di offendere il nostro popolo e la sua grande umanità dal video di una tv pagata dai contribuenti italiani?
Vito Schepisi

11 aprile 2009

L'utenza tradita


Ci chiediamo se sia più offensiva l’insolenza e la cattiva educazione, o la sensazione d’esser presi in giro con malcelato garbo. Nel rapporto tra utenti e gestori dei servizi è stato rimosso solo l’approccio conflittuale con l’utenza, lasciando invariata la sostanza. Abbiamo la percezione della gentilezza per contratto e resta l’amarezza di constatare che la presa in giro non sia meno mortificante della cattiva educazione. Passare dalla strafottenza con punte d’arroganza all’assicurazione di un rapido intervento che invece non viene effettuato non cambia il risultato.
Si è parlato tanto dei diritti dei consumatori, ma sono stati modificati solo in apparenza, meno negli effetti pratici. Quando per un disservizio si ha a che fare con i fornitori, si ha l’impressione che non sia cambiato niente. Se si ottiene qualche risultato è solo per la diffusione dei processi di automazione e per l’avvento dell’informatica e non per una diversa disponibilità dei gestori. La sensazione è che niente sia fatto per rispetto dei consumatori, come se non esistessero esigenze e disagi per l’utenza, ma solo pratiche da smaltire ed un fastidio in più da dover subire.
Forse non avremo più, dopo reiterati corsi sulla soddisfazione del cliente, l’addetto che si sfoga e dice: “abbiamo tanto lavoro”; “guardi la scrivania è colma di richieste come la sua”; “abbiamo bisogno di altro personale, ma non si vede nessuno”; “qua tutto va a rotoli, ma non si preoccupi, abbia pazienza, appena possibile provvederemo a soddisfare anche la sua richiesta”. Ora prevale la forma: “lei ha inoltrato il reclamo il giorno x e la tempistica della nostra società per risolvere un guasto va da 24 ore a 7 giorni. Stia tranquillo che entro quella data risolveremo anche il suo problema”. Ci sarebbe persino da sentirsi in colpa per averne dubitato!
Ma come non essere contrariati per quel servizio che, per responsabilità del fornitore, non viene erogato e che si paga comunque? Come vincere l’irritazione nel pensare che la stessa utenza, senza estenuanti pratiche burocratiche e senza costi eccessivi ed esiti incerti, non possa essere sostituita in tempi rapidi da altro fornitore? Manca la certezza di poter cambiare senza subire ulteriori disservizi. Prevale l’irritazione per sentirci incapaci di far valere le nostre ragioni. Non è mai possibile parlare con un responsabile, o conoscere le modalità di lavorazione della propria pratica. A volte otteniamo solo l’assicurazione dell’inoltro di un sollecito che vale il tempo che trova ed alimenta ancor più la sensazione d’esser presi in giro. Mi è appena accaduto per la connessione ad internet.
Con la connessione “eccellente”, con segnale al massimo, se manca “l’allineamento internet”, non si tratta di un guasto alla linea, con necessità di tempi utili per la riparazione. Le cause possono essere solo due: modem - router guasto (il mio caso); cavi rotti o scollegati. A saperlo, però! Nel frattempo si continua a pagare una fornitura che non si ha, ed aspettare.
E’ come se, andando dal salumiere per comprare un etto di prosciutto, pagassimo la merce richiesta senza che ci fosse fornita, benché presente sul banco, ed il salumiere - alle nostre proteste - ci rispondesse: “guardi faccia reclamo ed entro sette giorni avrà il suo prosciutto”. Ed è come se alle nostre ulteriori rimostranze il salumiere replicasse: “sappia che ci sono tante richieste e tanti clienti da soddisfare. Deve avere pazienza! Vedrà, però, che nei termini stabiliti dalla nostra carta dei servizi saremo in grado di fornirle il suo prosciutto. Lasci nel suo interesse il suo numero di cellulare e ci comunichi le ore della giornata in cui potremo chiamarla e vedrà che appena possibile, e comunque entro i sette giorni successivi al suo reclamo, un nostro addetto la chiamerà per risolvere il suo problema”. Diamine che c…! E come non compiacersi per tutta questa gentilezza?
Può sembrare assurdo ma è ciò che, né più e né meno, accade con le utenze e, pensandoci bene, occorrerebbe più tempo a tagliare un etto di prosciutto, incartarlo, farlo pagare e dare il resto, di quanto non occorra invece per risolvere un problema di una linea internet.
La dimensione di una umiliazione è possibile comprenderla quando la si affronta in prima persona. E’capitata questa esperienza negativa con il mio gestore, ma con gli altri sarebbe stata la stessa cosa. L’indifferenza verso i bisogni dei cittadini è mortificante. Un servizio senza assistenza tecnica adeguata è offensivo. L’utenza è tradita.
Vito Schepisi

02 aprile 2009

Piano casa ed opposizione confusa


C’è una novità nell’accordo tra Governo e Regioni per il rilancio dell’edilizia privata, ma è una novità di cui si poteva anche fare a meno. Saranno i consigli regionali sulla base di un decreto quadro del Governo, da emanare entro una decina di giorni, ad approntare regione per regione, entro e non oltre 90 giorni dall’emissione del decreto stesso, le leggi attuative. Solo in caso di inadempienza nell’adozione del provvedimento legislativo interverrebbe un commissario ad acta nominato dall’esecutivo.
Se ne poteva fare a meno! Si poteva evitare, soprattutto qualora il decreto emanato dal Consiglio dei Ministri fosse già comprensivo delle norme di cautela ambientale, di salvaguardia dei centri storici e delle elementari norme urbanistiche e se, ugualmente in intesa con la Conferenza delle Regioni, avesse potuto superare ogni ostacolo relativo alle competenze in materia.
La volontà del Governo era questa! Nessuna prevaricazione e nessuna volontà di sottrarre competenze: solo la consapevolezza dell’urgenza.
Il decreto che si voleva emettere, già da primo momento, intendeva introdurre tutte le cautele possibili e gli organi di gestione locale del territorio avrebbero dovuto introdurre, come nel caso dell’apposita legge regionale, i regolamenti, i controlli, i limiti e le tutele.
Cosa sarebbe cambiato in sostanza rispetto ad ora?
Ma l’Italia è il Paese del diritto formale! E’ un vero peccato, però, che questo diritto venga meno, e spesso, quando invece è sostanziale, soprattutto se in relazione alle libertà ed alla dignità del cittadino. Non sono opinioni, ma statistiche, quelle che certificano che il cittadino italiano sia vessato per il godimento di ogni suo diritto e che venga scoraggiato dalle lungaggini e dagli impedimenti burocratici allorquando dia corso ad ogni sua richiesta rivolta alla pubblica amministrazione, locale e nazionale, soprattutto in campo urbanistico.
L’attuale formulazione dell’accordo tra Governo e regioni si traduce soltanto in una evidente e quantomai incomprensibile - se non per astio politico ed ideologico - perdita di tempo.
Le regioni hanno competenza sul territorio per i piani e gli interventi urbanistici? Sacrosanto! Ma cosa avrebbe impedito alle stesse di adottare un testo unico approntato dal Governo, discusso con le regioni, comprensivo di tutele e di divieti? In presenza di preoccupazione occupazionale e di crisi recessiva, la collaborazione degli italiani con l’Italia, per abbreviare i tempi degli interventi, sarebbe un’azione virtuosa ed un grande esempio di responsabilità.
Non si può scendere nelle piazze per l’occupazione per poi ritardare di circa 120 giorni un provvedimento che secondo le previsioni più prudenti avrà la capacità di mettere in campo circa 750.000 posti di lavoro su tutto il territorio nazionale.
Sorge il sospetto che gli enti locali mal digeriscano interventi in settori che da sempre, gestiti dalla politica e dalle caste tecnico-burocratiche sottraggano potere ai soliti noti. Un diritto che si ottiene con una semplice formalità si trasforma in un potere perduto. Si può interpretare così la vischiosità degli atteggiamenti posti in ostacolo.
L’opposizione esulta. Franceschini e Di Pietro cantano vittoria, ma riesce difficile capire per cosa. Sono venuti meno gli allarmi per la presunta devastazione del territorio? E sono venuti meno solo perché all’esercizio di un regolamento attuativo con controlli urbanistici ed ambientali, previsti già dalla bozza del governo, si sostituiranno una ventina di leggi regionali? Cosa cambierà se non a ritardare i tempi, il voler continuamente porre ostacoli di indecorosa “gelosia” politica per poi ottenere gli stessi interventi edificatori, invece che in vigore da subito, per bene che vada, solo tra tre mesi? Sembra un film già visto. La spazzatura di Napoli, l’Alitalia, l’astio antisociale della Cgil.
Erano stati diffusi studi sulla quantità di cemento sul territorio nazionale e c’è stato persino chi in televisione, da Fazio, ha sostenuto che l’architettura degradata delle nostre periferie sia la testimonianza del nostro passato e che per tale ragione andrebbe lasciata integra in quanto parte del nostro patrimonio culturale. Ci sarebbe da scommettere che tra un po’ si tornerà a dire che gli autori dello scempio edilizio del passato andrebbero invece arrestati. C’è tanta confusione, come sempre, specialmente a sinistra!
Vito Schepisi