23 febbraio 2008

La doppia morale di Di Pietro




Il sospetto è l’anticamera della colpa, sosteneva Leoluca Orlando Cascio, attuale militante dell’Italia dei Valori di Di Pietro.
C’è qualcuno che il sospetto l’ha avuto. Un sospetto che ha coinvolto in responsabilità penali l’On. Antonio Di Pietro, finora deciso sostenitore di un sistema giudiziario con accentuata prevalenza inquisitoria.
E’ indagato, l’ex PM di “Mani Pulite”, per appropriazione indebita, falso in atto pubblico e, soprattutto, per truffa aggravata ai danni dello Stato finalizzata al conseguimento dell’erogazione di fondi pubblici. Sono reati ipotizzati per l’uso, a fine privato, di fondi pubblici e privati erogati come finanziamento pubblico ai partiti. Sono reati gravi per l’immagine di un uomo politico che ha sostenuto il moccolo dell’antipolitica di Beppe Grillo.
Di Pietro, già Pubblico Ministero a Milano, è colui che ha contraddistinto la sua attività di magistrato con l’accentuazione dell’aspetto inquisitorio e poliziesco del processo penale. E’ rimasta nota la violenza verbale dei suoi interrogatori e l’attitudine al tintinnio delle manette.
La sua è stata, e l’abitudine gli è rimasta tutta, l’esaltazione della teoria che porta a ritenere con convinzione che più indizi, anche senza prove acquisite, equivalgano a granitiche certezze.
Tra le sue caratteristiche più note è rimasto il metodo adottato nell’utilizzare la delazione come salvacondotto utile per risparmiarsi, da sospettato, l’ospitalità dello Stato nelle celle penitenziarie. Questa minaccia veniva utilizzata per coinvolgere la responsabilità di altre persone, così da creare una penosa catena di Sant’Antonio (nomen omen) dell’attività inquirente.
In virtù di questi espedienti sono stati sottoposti al rigore giudiziario, anche con la sospensione forzata della libertà personale, un elevato numero di cittadini, molti dei quali poi assolti perché risultati innocenti.
Il suo metodo accusatorio era quasi sempre basato su convinzioni, talmente radicate e senza ombra o beneficio del dubbio, tali da ritenere indubitativamente colpevole l’imputato: anche quando per mancanza di prove, per insussistenza di moventi, per estraneità ai fatti, o successivamente, dopo anni di azione giudiziaria, per decorrenza dei termini, questi veniva assolto dalla magistratura giudicante.
La decorrenza dei termini, spesso, sopravviene quando i processi si impantanano tra cavilli, interpretazioni, contraddittori, incertezze, insussistenza del castello accusatorio, irregolarità formali, sospetti di parzialità e diritti negati. Se c’è un reato e c’è un colpevole, con prove a carico, è difficile che sopravvenga la decorrenza dei termini. Se, invece, c’è un colpevole “per definizione” e si va alla ricerca di un reato da ascrivergli, alla fine, se non ci sono validi elementi probanti, l’imputato o viene assolto o decorrono i termini.
Sorge così la curiosità di sapere se il vecchio giustizialista siciliano, solidale compagno di partito, già sindaco di Palermo, anche lui famoso per impeto forcaiolo, abbia o meno mutato il suo pensiero a riguardo della “colpa” e se permangano le sue semplificazioni giudiziarie.
Altro interesse ci sarebbe nel valutare, eventualmente se sarà il caso, anche le motivazioni del possibile cambio di opinione di Orlando. E’ sempre interessante, infatti, perfezionare i percorsi della conoscenza, soprattutto se si tratta dell’arte di arrampicarsi sugli specchi. I contributi conoscitivi di questa arte, In Italia, ha infatti ancora tanti misteri da chiarire, soprattutto nella nemesi storica del pensiero politico e nello spirito delle attività di trasformazione sia della storia personale di molti che dei fatti accaduti.
Orbene, nonostante tutto, c’è invece chi sostiene ancora che la giustizia debba essere vista secondo un indirizzo essenzialmente garantista. C’è, infatti, chi non sospende la propria convinzione nel pensare che la riservatezza e la presunzione di innocenza degli individui debbano essere sempre ed in ogni circostanza assicurate.
L’esigenza della presunzione di innocenza e della riservatezza vale sempre e per tutti. Porre gli individui, possibili innocenti o per quanto colpevoli, dinanzi al pubblico ludibrio e sollecitare l’istinto popolare alla sommarietà del giudizio non è, infatti, un grande esempio di civiltà.
Di questa cattiva abitudine, purtroppo, c’è stato ampio modo di avvertirne i sintomi. Basti, ad esempio, pensare ad alcune trasmissioni televisive ed ai processi sommari che si sviluppano, spesso senza contraddittorio. C’è in Italia un uso incivile, e Di Pietro non si è sottratto a questo esercizio, di sottoporre alla gogna mediatica i “nemici” politici, utilizzando tranci di atti giudiziari in cui si esaltano le ipotesi accusatorie dei pubblici ministeri e si ignorano le controdeduzioni difensive. Si arriva persino a nascondere che l’impianto giudiziario di colpevolezza non abbia retto nei giudizi finali dei tribunali.
La politica del “diffama perché qualcosa resterà”, con il coinvolgimento di strati di istituzioni, rappresenta un limite allo sviluppo civile ed un sintomo di incipiente regime.
Per fortuna in Italia ci sono ancora coloro che sostengono che i valori veri siano ben differenti da quelli vantati da Di Pietro, e dalla sua Italia dei Valori, e che la civiltà giuridica imponga di ritenere anche lui innocente fino a prova contraria. C’è persino un Italia civile e democratica che vorrebbe vederlo uscire trionfante da questa ulteriore esperienza giudiziaria, ricordando che non è inedita, evitando così all’Italia questa ulteriore mortificazione per una politica fatta di opportunismi, di ipocrisie e soprattutto di caste e di abusi.
Vito Schepisi

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